Reportage di un’aquilana dal campo di sterminio nazista

 

 

Ci raccontano e tramandano una storia fatta di tanti numeri, nomi spesso impronunciabili, città luoghi di trattati di pace che grondano sangue e promesse di ricadute future. Ci raccontano e tramandano una storia contratta che non prevede vita quotidiana e che al colore preferisce l’alterazione di senso del bianco e nero. Ci raccontano e tramandano una storia che ha perso la s maiuscola della presenza umana, della partecipazione, della compassione etimologica. Per raccontare e tramandare una storia vera, fatta di terra e cieli che non dimenticano, fatta di odori e colori e forme, sono partita un giorno di fine ottobre insieme a mia figlia Allegra Shalom, 9 anni impastati di terremoto, abbandoni innaturali, un cuore rammendato, un sorriso ancora vero. NEL CAMPO. A Dachau siamo arrivate una mattina con un sole ancora a metà e un tappeto di foglie variopinte ad attutire e amplificare i nostri passi liberi. Ad Allegra ho insegnato una parola, nei giorni che hanno preceduto e preparato la partenza per la Germania. Shemà. Ascolta, bambina. Guarda e ascolta, apri l’anima, lascia entrare tutto, riscaldalo, non sono pagine di un libro, non è un giorno della memoria soltanto, erano tanti bambini come te, anche. «Mamma», mi dice piano mentre le traduco le indicazioni scritte all’entrata di questo luogo, un lager, un campo di concentramento e di sterminio «adesso dobbiamo entrare e shemare». Ci prendiamo per mano. Ci accompagnano alberi altissimi e splendidi. Il suono lieve di un piccolo fiume limpido. TERRORE E SPERANZA. Ascolta, bambina. Immagina che quando gli uomini arrivavano qui dopo marce sfiancanti sentivano questo stesso profumo, vedevano questi stessi colori. Chissà se era solo terrore o se c’era una speranza, nei loro pensieri. D’estate, il miraggio dell’acqua. In inverno, il sogno di un fuoco, un letto, una coperta. Il sole non è più a metà, nessuna nuvola inutile e passeggera finge superiorità, il cielo è totale, azzurro. A destra una costruzione bianca. Ricorda certi casolari della pianura emiliana, quelli che risuonano di voci gucciniane e stemperano l’umidità con il profumo dei grandi camini utilizzati per cucinare. Il filo spinato, da qui, non è una visione immediata. Davanti a noi un gruppo di ragazzi ascolta una donna che parla piano. Il silenzio assoluto consente questo lusso. Mi fermo involontariamente. Qualcosa blocca le mie gambe. Mia figlia alza gli occhi, mi guarda. Tra le mani una foglia grande, secca, perfetta. ARBEIT MACHT FREI. Un bel cancello, grande, con una trama di ferro razionale ma elegante, interrompe il prospetto lineare della costruzione bianca. Il lavoro rende liberi è un ricamo in stampato maiuscolo. Arbeit macht frei. Una promessa, un ghigno, un sogno maldestro, una aberrazione di matrice tutta umana. Ci raccontano e tramandano una storia fatta di buoni da una parte e di cattivi dall’altra, ci raccontano l’irreale. Chi ha ucciso aveva amori e figli da cui tornava, chi calpestava simili stramazzati a terra amava i gerani colorati e la musica del flauto traverso, chi addestrava i cani per attaccare e divorare prigionieri “indisciplinati” a quelle bestie incolpevoli dava carezze. Il crimine, l’odio, il disegno che annienta non nasce nella mente di chi poi viene definito disumano; la discriminazione che genera l’odio è potenziale e possibile in chiunque, ricordalo, Allegra. I KAPÒ SORRIDENTI. Shemà, qualcuno ha raccontato che c’erano kapo dai sorrisi luminosi. Shemà, oltre quel cancello non è stato girato un film in bianco e nero per raccontare di una lista e di un cappottino rosso e neanche quello dove un papà inventa un gioco e una vita bella per il suo bambino. Conta gli anni, bambina, conta i giorni. Dal 22 marzo del 1933, poco più di venti giorni dopo l’incendio del Reichstag, al 29 aprile 1945. Quanti giorni sono di sveglia alle 4 del mattino e di un unico pasto al giorno in una pausa di un’ora comprese le marce di andata e ritorno da e per il luogo di lavoro? LA PIAZZA DELLA CONTA. Una piazza immensa, quella della conta. Eppure non bastava a nascondersi, non bastava. A destra le prigioni. I pali uncinati. Provo a spiegare cercando parole lievi, non troppo crude. Fallisco. Lo sento da come quella piccola mano trema nella mia. Shemà, non è una favola, non è il lupo cattivo, non è un simbolo, è accaduto. Anche a bambini come te. E mani come la mia, mani di madri e padri, non hanno potuto trattenere. Oltre la piazza due baracche testimoniano. Le altre 28 sono state rimosse ma sono rimasti i perimetri a terra. Entriamo. Il legno è quello della Baviera, quello delle gasthaus amatissime dagli abitanti del luogo e da noi turisti. Allegra guarda i tanti letti a castello. La mente dei bambini ha sete di salvezza. Corre verso la finestra, guarda fuori, «ci vorrebbe una camera così, per me e le mie amiche». Dice così. Nella stanza accanto un gruppo di studenti ascolta il racconto in una lingua che non comprendo di un uomo non troppo anziano. Nessuno di loro ha un cellulare in mano. Nessuno parla. Le teste sono leggermente chinate. Quanti giorni, quanti mesi, quanti anni senza più uno spazio solo per te e per il tuo corpo da curare, proteggere, soddisfare. Mi guardo intorno. Giorni infiniti senza sapere che fine abbiano fatto i tuoi cari, una moglie, un padre. Provo ad immaginare. Come è stato possibile resistere? Dolore fisico e sfinimento emotivo. Come? Camminiamo ancora. Le mani sono ghiacce. Gli occhi vedono poco. La gola non trattiene. Giù in fondo una ragazza con i capelli rossi e un sorriso timido mi aveva detto «non andare, non portare la bambina». L’ILLUSIONE DI UNA BIMBA. Alberi magnificati da un autunno splendido, cespugli curati, un vialetto ameno. Una costruzione in mattoncini rossi. Una ciminiera. «Cos’è? Sembra la casina di Hansel e Gretel», mormora mia figlia accelerando il passo. La mente dei bambini è in fuga verso la salvezza, sempre. Chissà con quale disperazione o terrore o annichilimento si arrivava, qui. Prima stanza. Spogliati. Seconda, entra qui. Entrate tutti. Aspetta. Aspettate. E adesso qui. Entrate, prego. Una porta di ferro. Mattoni crudi. Soffitti bassi. Buio. Non riesco a respirare. Non c’è aria. Quanto tempo ci vuole per morire in una camera a gas? Quanto tempo ci vuole, poi, per ridurre in cenere un corpo? I forni lavorarono ininterrottamente giorno e notte, in quei dodici anni. «Mamma». Ti accarezzo i capelli. Non freno le lacrime. Ti abbraccio forte, bambina. Shemà. Non smettere mai di ascoltare. Mai.

di TIZIANA PASETTI - da Il Centro -




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