Mi chiamo Elena Aprile e do la caccia alla materia oscura

 

 

Fisica, professore a New York, allieva di Rubbia, due figlie, guida 130 scienziati nell’esperimento più ambizioso della storia: "La corsa a svelare l’85% invisibile dell’universo. E siamo in pole position"

- da Repubblica.it - In America c’è chi mi chiama Dark matter Lady. E sì, mi piace». In italiano il gioco di parole non viene altrettanto bene, ma il senso rimane: Elena Aprile è una “cacciatrice di materia oscura”, la misteriosa dark matter che costituisce l’85% dell’universo e di cui sappiamo poco o niente. Ma non è una cacciatrice come le altre: è la Lady, anzi la leader, di un esperimento da venti milioni di dollari che coinvolge 130 scienziati di 21 istituzioni diverse di tre continenti, e che ha la sua base nelle profondità dei Laboratori Nazionali del Gran Sasso, sotto 1.400 metri di montagna. L’esperimento si chiama Xenon1T ed è da lì che comincia la storia: «Dal mio amore per lo xenon liquido», racconta Aprile sorridendo, mentre il sole entra nella sua stanza e dalle finestre aperte alle sue spalle si vedono le cime dei monti abruzzesi.

Lo xenon è l’esca con cui Aprile spera di acchiappare l’elusiva materia in cui siamo immersi, ma che nessuno ha mai visto. Una tonnellata di esca nobile, intorno alla quale lei e i suoi scienziati hanno costruito un rivelatore che in questo momento è il più sensibile al mondo per la ricerca di materia oscura. Elena Aprile ha scelto di posizionarlo nelle viscere del Gran Sasso, pur essendo americana da più di trent’anni e professoressa alla Columbia University di New York, perché i nostri sono i laboratori sotterranei più grandi del mondo e sotto terra sono protetti dalla pioggia di particelle provenienti dal cosmo, che disturbano i rivelatori. Perciò sono «il miglior posto sulla Terra dove fare questa ricerca. Oltre al fatto che convincere studenti e collaboratori americani a venire in Italia non è affatto difficile». Quindi da adesso, prosegue, «it’s time to dance!»: con Xenon1T si spera che arrivi presto il momento dell’eureka, cioè della comprensione di un mistero su cui gli scienziati si interrogano da quasi un secolo.

Mi chiamo Elena Aprile e do la caccia alla materia oscura

 

 

 
 
 

Un passo indietro. I primi segni della presenza di materia oscura nell’universo furono riconosciuti nel 1933, quando l’astronomo svizzero americano Fritz Zwicky osservò la costellazione chiamata Chioma di Berenice e ipotizzò che fosse l’esistenza di una massa invisibile a tenere le galassie vicine tra loro. Una massa molto maggiore di quella visibile, che da allora è stata ritenuta la spiegazione di altri misteri dell’universo. L’idea di Aprile e di tanti altri fisici è che sia costituita da particelle elementari diverse da quelle che conosciamo e che fanno parte della teoria chiamata Modello standard. Le - per ora ipotetiche - particelle di materia oscura sono chiamate Wimp, cioè Weakly Interacting Massive Particles: particelle che interagiscono con le altre debolissimamente. Ed ecco perché serve una tonnellata di xenon, nel laboratorio più protetto del pianeta. Ma non solo lì.

«Oggi, nella ricerca della materia oscura, ci si sta muovendo in tre direzioni. La prima è quella perseguita al Cern di Ginevra, dove con l’acceleratore Lhc si sta cercando di creare nuove particelle a energie altissime. Ma se anche se ne trovassero, dobbiamo capire se sono quelle giuste», spiega Aprile. Perciò, le altre due direzioni. La seconda: «Si cercano i prodotti dell’annichilazione delle particelle di materia oscura». Tra questi esperimenti, il satellite Fermi che ha a bordo un telescopio per rivelare la radiazione gamma. E IceCube, che cerca neutrini stando sotto il ghiaccio del Polo sud. O ancora Ams, che cerca le particelle di antimateria e si trova a bordo della Stazione spaziale internazionale. Poi c’è la terza direzione: «Quella della rilevazione diretta, che si cerca di fare con esperimenti sulla Terra, in laboratorio». Come Xenon1T e gli altri quattro esperimenti ospitati nei Laboratori Nazionali del Gran Sasso.Tutto questo per un’impresa epocale, che però è anche una sfida. Creativa, intellettuale, tecnologica: comunque la si guardi, una sfida enorme. Qui si corre per vincere, per scoprire di che cosa è fatto il grosso dell’universo, e l’eccitazione emerge sapida dalle parole di Elena Aprile: «Siamo in un momento critico. Se le Wimp esistono davvero e sono come pensiamo, nel giro di due o tre anni abbiamo grandi possibilità di scoprirle. E comunque, intanto, cresceremo ancora di sensibilità, spingendoci fino al limite tecnico e teorico dei nostri rivelatori». E se invece le Wimp non si trovano? «Entro la fine di questo decennio, o poco oltre, saremo in grado di capire se dobbiamo cercare altro. Se succederà, dovremo cambiare strada».

Mi chiamo Elena Aprile e do la caccia alla materia oscura

Elena Aprile al lavoro in laboratorio

 

 

 
 
 

Intanto, gruppi di scienziati americani, europei e asiatici si stanno rincorrendo nella caccia alle particelle di materia oscura, con rivelatori quasi sempre basati sui gas nobili. Oltre allo xenon, soprattutto l’argon. Come in un altro importante esperimento ospitato nei laboratori del Gran Sasso e guidato da un altro italiano in America, cioè DarkSide50, diretto da Cristian Galbiati di Princeton. O come l’esperimento canadese Deap3600 nel laboratorio SnoLab, che si trova in una miniera dell’Ontario. Ma qualsiasi sia il cavallo su cui si punta - argon o xenon - questa corsa ha una regola tutta sua: «Anche se ciascuno di noi spera di vincerla, ci auguriamo che anche gli altri arrivino presto al traguardo. Perché chiunque arrivi primo avrà bisogno di conferme, e non vorrà aspettare. Ovvio, però, che corro per essere quella che scopre, non quella che conferma».

La storia della Dark matter Lady è lunga: comincia nel 1977 quando, ventitreenne studentessa napoletana, Aprile arriva al Cern di Ginevra come summer student. «Ricordo quando ricevetti a casa la lettera in cui mi si diceva che ero stata selezionata. Da allora, ho lasciato l’Italia e non sono più tornata». Al Cern fu presto notata da Carlo Rubbia: «Ero giovane, bella, e con un grande entusiasmo. Il giorno dopo andai in segreteria e scoprii che mi aveva spostato dal gruppo assegnatomi d’ufficio al suo». Iniziò così una lunga collaborazione con il futuro premio Nobel per la fisica. «Quell’anno Rubbia propose di cominciare a usare l’argon liquido per la ricerca dei neutrini: io ci feci la tesi di laurea, ed erano i primi semi dell’esperimento Icarus». Esperimento rimasto operativo al Gran Sasso fino al 2014. «Dopo l’estate sarei dovuta rientrare a Napoli, ma Rubbia mi chiese di restare e così per un anno ho lavorato sotto la sua supervisione diretta. A vederla oggi, fu una fortuna. Però, significava lavorare giorno e notte, tutti i giorni, sotto una pressione pazzesca». E difficile da sostenere, infatti pochi sono stati gli allievi diretti di Rubbia. «Io ci sono riuscita, ma è stata dura». Per dire: «Quando gli presentai la prima bozza della tesi di laurea, la sfogliò è mi disse: “Che cos’è? Una lettera alla mamma?”. Riuscii a stento a trattenere le lacrime».Dopo la laurea e il dottorato a Ginevra, Aprile tornò a lavorare con Rubbia a Harvard insieme al marito, anche lui fisico e collaboratore di Rubbia: «Era il 1983: nell’84 Carlo prese il Nobel.

Mi chiamo Elena Aprile e do la caccia alla materia oscura

Uno degli ambienti sotterranei dei laboratori, i più grandi del mondo dedicati allo
studio della fisica delle particelle, coperti da 1.400 metri di roccia che li schermano
dalla pioggia di particelle dal cosmo

 

 

 
 
 

E lo stesso anno nacque Susanna, la mia prima figlia». Lavorare con Rubbia significava dover dare sempre il massimo: «Con Susanna piccola mi spedì a fare un talk in Valle d’Aosta. A Carlo non si dice di no facilmente, e io non volevo rinunciare all’opportunità. Perciò portai la bambina a Napoli da mia madre e corsi ad Aosta: non avevo scelta». Succederà altre volte: «Se sono riuscita a fare tutto è grazie a lei che mi ha aiutato moltissimo. A partire da quando è nata Susanna, che davvero era l’esperimento più difficile che mi fosse mai capitato. Mia madre prese la valigia e da Napoli venne a Boston, a febbraio, con la neve. Faceva la casalinga, non era mai uscita dall’Italia: fu davvero coraggiosa. Mi ha seguito a New York e poi persino in Giappone, dove sono stata per un sabbatico. E ha insegnato la lingua e la cultura italiana alle mie figlie. Dovrei farle una statua, per la gratitudine che le porto: l’ho persa dieci anni fa, aveva solo 75 anni». Dopo Susanna è nata Giulia: «Entrambe sono decisamente più intelligenti di me. Nessuna delle due fa fisica, tanto per cominciare!», ride. Sono cresciute vedendo i genitori passare la vita più in laboratorio che a casa: «Almeno hanno imparato che non importa se sei uomo o donna. Se vuoi arrivare, devi fare delle rinunce. Essere forte, fisicamente e mentalmente. E anche essere fortunata. Ma soprattutto devi volerlo».

Nell’86 Elena Aprile e il marito lasciano Rubbia e Boston: «Fu mio marito a decidere che bastava così». Da allora la famiglia vive a New York dove Aprile lavora e insegna alla Columbia. Ma anche lì la vita di una fisica non era tanto più facile, soprattutto se si era la prima. «Alla fine del primo corso distribuii agli studenti, come si fa negli Usa, un questionario anonimo in cui si chiedeva di valutare la docenza. Beh, era tutto al maschile.

Mi chiamo Elena Aprile e do la caccia alla materia oscura

Elena Aprile al lavoro in laboratorio

 

 

 
 
 

Le domande prestampate sul professore si riferivano tutte a “he”, lui! Me lo fecero notare gli studenti. E dovetti spiegarlo ai colleghi: “Attenti, si sono accorti che sono donna…!”».In Italia di donne nella fisica ne vedi più che altrove: «Secondo me è perché le ragazze hanno quasi sempre professoresse di scienze a scuola, un buon esempio. Poi, però, difficilmente fanno carriera». Perché? «Forse perché a un certo punto decidono che non vale la pena di fare tanti sacrifici in un mondo così competitivo». Ecco, ma se il problema non fosse di maschi o femmine, della grandissima competitività nella ricerca, quando in ballo ci sono premi Nobel e la comprensione dei segreti dell’Universo? «Può darsi, ma non se ne può fare a meno. Anch’io spingo me stessa e i miei collaboratori al massimo. Ricordo un postdoc giapponese che scoppiò in lacrime per una mia critica: mollò tutto e non sappiamo che fine abbia fatto. È una vita stressante, ma funziona così. E non devi mollare, mai». Nemmeno quando diventi madre? «Sono gli uomini a pensare che quando fai un figlio la tua vita di scienziata debba chiudersi. Invece noi dobbiamo sapere che la nostra vita è più difficile della loro, ma che ce la possiamo fare».Intanto c’era la corsa alla materia oscura e dopo l’argon per Aprile c’è stato lo xenon. «Sono passata allo xenon mentre Rubbia rimaneva all’argon e a un certo punto siamo anche andati in parallelo, con due esperimenti entrambi al Gran Sasso. Ricordo che una sera mi invitò a cena e mi diceva di continuo: “Ma che vuoi fare con lo xenon, dai…”». Che cosa ci vuole fare, Elena Aprile, lo ha ben chiaro e lo dice senza mezzi termini: «Vincere la corsa alla materia oscura. E adesso, grazie all’idea dello xenon, siamo in testa noi».

C’È MA NON SI VEDE A proposito di universo, è più quello che non sappiamo di quello che sappiamo. E ciò che non sappiamo lo chiamiamo oscuro, non tanto per via della nostra ignoranza, quanto perché non emette né assorbe luce, e per noi è dunque oscuro nel senso proprio della parola. Infatti se la materia ordinaria, che forma il mondo visibile, costituisce solo il 5% di quello che c’è, il 95% dell’universo si divide in energia oscura (circa il 70%) e materia oscura (il restante 25%). Di entrambe abbiamo per ora solo prove indirette (ma secondo gli scienziati pressoché inconfutabili) come i movimenti delle galassie e delle stelle al loro interno, che si spiegano solo con la presenza di una massa invisibile ai nostri occhi. Oppure come le fluttuazioni della radiazione elettromagnetica residuo del Big Bang. È difficile cercare qualcosa di cui non si sa nulla, ma per gli scienziati l’ipotesi è che la parte oscura dell’universo sia fatta di particelle nuove. Quelle che i rivelatori del Gran Sasso stanno cercando di acchiappare.



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