Lettera al Pontefice dai Map di Santa Rufina

 

 

 

 «A volte anche nei Map si possono ricreare quelle piccole genuine assemblee tra paesani che ricordano un po’ quelle che si svolgevano nelle nostre amate frazioni, ora abbandonate», scrive Fulgenzio Ciccozzi, residente di Roio, «incontri in cui riemergono i ricordi del passato e che esprimono impressioni sul presente. In questo caso, nel campo di Santa Rufina (in compagnia di Rossano Perilli, le sorelle Anna Maria e Luigina Ciotti, Franco, Manlio e Pasqualino Ciccozzi, e alla presenza dello scrivente), Francesco Ciccozzi ha letto la sua lettera indirizzata al Papa, che parla dell’Europa e del periodo in cui emigrò in Australia. Questo è il testo: “Illustrissimo Eminentissimo Papa Francesco, porto il Suo Santissimo nome, mi chiamo Francesco. Sono nato il 29 ottobre 1927, ho quasi 90 anni. Grazie al Signore posso svolgere le mie consuete faccende che mi permettono ancora di essere autosufficiente. Sono nato in un piccolo paese del comune dell’Aquila, Roio, purtroppo conosciuto in tutto il mondo per via del terremoto. Ancora oggi, dopo più di sette anni dal 2009, la gente del luogo cerca con fatica di risollevarsi. Chiedo scusa a Sua Santità se mi sono permesso di scrivere questa lettera. Alcuni giorni fa, mi è capitato di ascoltare le sue belle parole le quali esprimevano il sogno di vedere una nuova Europa dal volto più umano, pronta ad accogliere la gente che soffre. Con tutta onestà, mi sento di dare il benvenuto agli immigrati costretti dalle guerre a rifugiarsi nel nostro continente. Esprimo il desiderio di non voler vedere innalzati muri che infrangono i loro sogni, vorrei invece che fossero costruiti ponti che diano a questi poveri sventurati la possibilità di iniziare una vita migliore: qui, altrove, e, chissà, un giorno nelle loro terre. Perché già nei lontani anni Cinquanta sognavo un’Europa unita? Perché avrei voluto un’Europa in cui non si combattessero più guerre. Un’Europa capace di farmi desistere dal dover lasciare la mia terra per andare in un Paese lontano a cercare lavoro. Nel lontano marzo 1956 lasciai l’Italia dal porto di Trieste per emigrare in Australia, ospite in una baraccopoli, non lontana da Melbourne. Questo abitato era, in origine, un ex campo di soldati italiani deportati, che durante il secondo conflitto mondiale erano di stanza in Africa (Cirenaica). Le capanne che formavano siffatto insediamento furono costruite proprio da loro. Il centro in cui ero ospitato era il campo Block numero 10. Là, ebbi l’occasione di conoscere persone che provenivano da ogni parte del mondo. Ci tenevano in quella sorta di ghetto in attesa di un’occupazione. Purtroppo in quel momento non ci vennero offerte possibilità di lavoro e fummo costretti ad aspettare il momento opportuno. Pensi, sua Santità, noi eravamo degli artigiani specializzati, allora richiesti per popolare una terra immensa, quale era quelle australiana. Io ero partito dall’Italia portando con me un bagaglio di esperienze che attingevano alla graziosa arte della sartoria. Il sogno di fare il sarto lo dovetti momentaneamente mettere da parte, poiché, con il passare dei mesi, fui costretto ad abbracciare qualsiasi lavoro umile mi venisse concesso. Noi, come i nostri poveri nonni costretti a emigrare (nel mio caso in Argentina), fummo obbligati a passare tre visite mediche prima dell’imbarco. Qualora non idonei, o non avendo una condotta politica favorevole al governo dello Stato di destinazione, non avremmo avuto alcuna possibilità di essere accolti. Con il passare degli anni, il richiamo della terra in cui ero nato divenne sempre più forte. Fu così che, nel 1964, decisi di tornare. Sbarcai nel porto di Napoli e feci rientro in Italia dove, rimboccandomi le maniche, cercai di intraprendere l’attività per la quale mi ero specializzato. L’occasione si concretizzò in via Sallustio, accanto a Fontesecco, all’Aquila. Fu in quella bottega che ebbi modo di aprire una lavanderia e una sartoria. Attività che portai avanti insieme alla mia cara moglie Eva fino agli anni Novanta del Novecento».

 



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