Pellegrini, guaritori e tagliagole sui sentieri dei pellegrinaggi nell’aquilano

 

 

 

 

Pellegrini, guaritori e tagliagole sui sentieri dei pellegrinaggi nell’aquilano , nelle valli del Gran Sasso d’Italia e dell’appennino.

La tunica sudicia bollita con foglie di alloro. Gli scorpioni allontanati con la valeriana.
Il viaggio ha inizio. (Prima parte)

Testo e fotografia di Vincenzo Battista

I viaggi della devozione, i lunghi interminabili pellegrinaggi, estenuanti, lungo la dorsale appenninica, nei santuari, o nei luoghi di culto, alla ricerca della suggestione, delle rivelazioni, dei segni profetici di chi, nell'antichità, li aveva lasciati nei siti sacri avvolti da santità: foreste, luoghi aspri ed occultati dalla natura, dal paesaggio attraversato da fiere o ogni male, fuori dalle rotte mercantili e militari, conosciuti da pochi e anche temuti poiché circondati da un alone di mistero e da tremende profezie, leggende popolari che ne conservavano, criptati, la passione del soprannaturale, del paradisiaco, del divino, della "perfezione". Ma l'arricchimento interiore necessitava di prove, e "l'homo pellegrino", d'estate, non si sottraeva al richiamo della fede religiosa e, dopo aver indossato, come riferiscono alcune cronache medioevali, la lunga toga con cappuccio e maniche larghissime di tessuto ruvido chiamata "schiavina" che lo indicava e lo lasciava passare, una sorta di salvacondotto contro le imboscate di briganti e tagliagole, si metteva in cammino con i segni distintivi, di riconoscimento, del suo status di vagabondo della fede.

Le compagnie si formavano per il viaggio iniziatico, taumaturgico, i ruoli venivano assegnati, gli oggetti costruiti e qualche volta intagliati come il "borbone", un bastone in legno con la punta di metallo, o la zucca, serbatoio portatile legato con una corda intono alla spalla per l'acqua, insieme ad una bisaccia tenuta alla cintura per il cibo e pochi denari; il pellegrino, scalzo, non portava armi e doveva osservare lunghi digiuni e non consumare carne. La sua meta tra valli e valichi lo costringeva a non sostare due notti nella stessa località, a rifiutare bagni caldi e giacigli comodi nelle locande.

Le piaghe dei piedi, dopo lunghi tragitti dovevano curarsi con liquido prodotto dal polmone di agnello o pecora, ma se la piaga si allargava, bisognava porvi sopra cenere, sterco di gallina, oppure un unguento di cera vergine, miele e olio. I calli si curavano con la pelle dell'anguilla o la foglia di Giove (breve o brevucci chiamata cinquefoglie, usata in sacchetti contro le avversità e per potenziare la fortuna), oppure veniva indicato un rimedio migliore consistente nel succo essiccato di cipolle e grasso di gallina. Per i piedi doloranti serviva essenza di cipolla e un lavaggio con la misteriosa e tossica cicuta cotta, vino bianco e unguento di linfa di sambuco. Le screpolature su curavano invece spalmandovi sopra la pece.

Ma poi bisognava difendersi da pulci e pidocchi dai quali i pellegrini rimanevano infestati: ungersi con aglio selvatico e bere acqua con aglio o camedrio scordio. La tunica veniva messa a bollire con bacche di alloro tritate, gocce di tamerice e allume di rocca, insieme a fiori di lavanda.
Gli scorpioni venivano allontanati con i rametti di valeriana appesi alla veste, mentre i serpenti con la foglia di salice e mangiando aglio.

Per le sopracciglia e la barba infestata dalle piattole si bolliva un uovo e si cospargeva, senza l'albume, dove si annidavano.
Il "viaggio" prima di tutto, indispensabile, auspicato oltre l'incognita dei disagi, manteneva inalterato il senso dell'insidia dell'avventura in terre che non si conoscevano, temute e allettanti allo stesso tempo, poiché il desiderio di scoperta e di rigenerazione verso una nuova entità dello spirito era supremo, imprescindibile, immune dai mali del corpo ai quali non veniva data molta importanza.

Il "Voto" sopra ogni cosa, che si pagava anche con la propria vita e le malattie, sempre in agguato. Per queste, ancora una volta veniva incontro la sola medicina conosciuta, la teriaca (dal greco antico thériakè, cioè antidoto e intruglio di estratti oleosi della tradizione erborista, preparato dagli speziali per medicamento, destinato a diffondersi dal XII secolo), il farmaco ritenuto in grado di curare qualsiasi patologia, costituito da un miscuglio di erbe medicinali preparate da semi di anice, oppio, iberico, acacia, pianta castoro, galbano, mirra, zafferano, pepe, incenso, cassia, centaurea con l'ingrediente principale di carne di vipera, dai poteri particolarmente miracolosi: una panacea per ogni male ma dalla concezione mitico - simbolica della mitologia greca, pagana, che i pellegrini portavano con sé, nei santuari cristiani. E il viaggio continua. . .

(Prima di tre parti)

Le fotografie.

La grotta di San Michele Arcangelo a Bominaco e la processione, San Erasmo su Monte Offermo, le valli del Gran Sasso – Piani Viano e Buto con Castelvecchio Calvisio, il monte Velino, il sentiero di crinale dell’imbocco del Sagittario ( Castrovalva), il convento di San Basilio a L’Aquila, ponte medioevale sul lago di San Domenico a Villalago, gli interni della chiesa di Santa Maria del ponte di Roio a L’Aquila, L’abbazia di Santo Spirito e la chiesa di Santa Maria del Morrone - Sulmona, la Valle Peligna, aerea il borgo di Castrovalva, stampa dell’Ottocento con i briganti, la chiesa di San Pietro Apostolo ad Onna, l’ambone della chiesa di Santa Maria in Cellis di Carsoli, particolare della città dell’Aquila tenuta in mano da San Massimo d’ Aveia - Giulio Cesare Bedeschini, (prima metà del XVII ( museo Munda, L’Aquila), Saturnino Gatti (Pizzoli, 1463 circa – L'Aquila, 1518 circa).
Particolare del volto” “Madonna in trono con Bambino”, primo decennio del XVI sec., museo Munda, L’Aquila. Le “serpi” 1900, particolare – Francesco Paolo Michetti, Museo Michetti a Francavilla a Mare.


 



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