Quel matrimonio pagato con tre chili di zafferano


Il paesaggio dello zafferano e i Beni culturali della Conca aquilana.

- Testo e fotografia di Vincenzo Battista -

Mai, quella vacca, ornata in quel modo, e di domenica – nemmeno se si trattasse di Hera, divinità greca, patrona del matrimonio e del parto, con i suoi simboli sacri: vacca e pavone, poiché Omero la definiva la dea dagli occhi “bovini” per l’intensità del suo regale sguardo – con asciugamani, nastri e campane, coperte tessute a mano nel telaio orizzontale di legno ( avvolgono l’animale sul dorso), poteva immaginare tutto questo, tanto che la povera bestia uscita dalla stalla, non avrebbe mai pensato di attrarre tanta attenzione su di sé, in modo desueto, quella mattina del 3 febbraio 1937, festa della “Candelora”, davanti alla folla festante raccolta per guardare e stupirsi del corteo pronto ad attraversare il borgo rurale.

Ma torniamo un po’ indietro. Trentuno dicembre 1936, fiera di San Silvestro a Castelnuovo, frazione di San Pio delle Camere, altopiano di Navelli.

Casciani Armando, forse con un po’ di ansia perché è arrivato il momento decisivo, si aggira tra le bancarelle e i tipici banchetti di spezie della fiera, chiede il prezzo che impongono i commercianti, “alla voce” così chiamato, contratta, giura sulla qualità del suo prodotto prezioso che porta dietro, è alla ricerca di un buon patto di vendita. Ha deciso. I tre chili di zafferano, raccolti ed essiccate circa due mesi prima, li venderà a Ciolli, mercante di San Nicandro, a tremila lire, un buon affare.
Ma torniamo a quella mattina del 3 febbraio 1937, festa della “Candelora”.

Tutto è pronto per la sfilata. I filamenti della vacca e le corde vengono infine attaccati al carro in legno per trasportare la dote e soprattutto i due sposi: Belinda e Guglielmo e, dietro, nel corteo, il padre di lui, Armando Casciani, che ancora per molto ripeterà: ‘Il vostro matrimonio mi è costato tre chili di zafferano. . . Per poterla guardare oggi, quella scena, bisogna ricorrere ad una cineteca, magari di un film in bianco e nero, neorealista, degli anni ’50: De Sica, forse De Santis, sicuramente Antonioni.

Con la vendita dello zafferano, Belinda e Guglielmo acquistarono anche un comò, un armadio, un comodino e un lavandino di marmo, una sciarpa e gli anelli d’oro, che si potevano comprare, come ricordano anche gli scrittori Titta Rosa e Massimo Lely, solo con la vendita dello zafferano. Avanzarono cinque lire a chiusura dei conti del matrimonio, e con quei soldi, i due sposi, scelsero di andare in pellegrinaggio al santuario della Madonna della Libera, a Pratola Peligna. “Dovevamo farci le fotografie ricordo – dirà molti anni dopo Belinda – ma abbiamo deciso di fare il pellegrinaggio, altrimenti la Madonna ci castigava . . .”.

“Col nome di Dio”, invece – recita, il 29 maggio 1777, la ‘Carta matrimoniale‘, un contratto di matrimonio, documento manoscritto redatto in Ofena – ‘di Angela, figlia di Crescenzio Silverio che si assegna per complimento di dote a Gioseppe De Croce Moscardelli pur che Dio abbia destinato”. Nell’elenco, che di seguito riporta tovaglie, panni, “parnanze”, ‘rame novo’, conche e un caldaio, un filo di migliarini e ambra fine, due fili di perle e dopo altro ancora, la vera ricchezza: “due sacchi di suffrana”, i bulbi di zafferano, da mettere a dimora nell’imminente mese di agosto, nei solchi dei terreni preparati con terra sottile e “sciolta”, lavorata e benedetta come un giardino per raccogliere poi il fiore di zafferano alla fine del mese di ottobre; e se non bastava, chiedere infine al sacerdote di far passare lì, la processione delle Rogazioni, la benedizione delle campagne contro i malefici di una natura, la terra, matrigna a volte.

I Beni culturali e lo zafferano

I principi dei Beni culturali, contenitori della memoria, e anche del “paesaggio materiale”, emanati nel nostro Paese dalle identità plurali, hanno rideterminato i perimetri del concetto di cultura estendendoli oltre al sapere scientifico, alle manifestazioni artistico letterarie, al diritto e alla morale, anche agli usi locali, le favole, le musiche, le tradizioni autoctone, e in generale a tutti i modelli di comportamento acquisiti in virtù dell’appartenenza ad una società locale. Un nuovo territorio di Beni culturali così inteso, come spazio fisico e/o estetico del vivere e del riprodursi dell’uomo, del suo iter esistenziale, dalla nascita alla morte, si apre su un orizzonte come valore sociale, di interesse pubblico che ha bisogno quindi di tutela e valorizzazione nei suoi fenomeni socio economici e antropologici che lo hanno vivificato.

Il valore dello zafferano

Un paesaggio storico dello zafferano quel che rimane oggi, dunque, nell’area dell’altopiano di Navelli, che potrebbe entrare nei principi di tutela dei Beni culturali paesaggistici, proteso fin dal suo documento più antico, il diploma di Re Roberto del 1317, sul commercio dello zafferano, che mantiene oggi, anche se ridotto nella produzione, le caratteristiche di centralità, di una mitica piccola patria, dalle forti identità locali, nel mare impetuoso del villaggio globale.

Riti agrari si associano allo zafferano, i simboli della casa contadina nella sfioratura della spezia prendono possesso dell’abitazione ( il comò dove, avvolto da panni di lana e cotone, si conservava lo zafferano, insieme agli indumenti più importanti); allegorie popolari ( i cesti , che contenevano alcuni fiori lasciati durante la raccolta, per i poveri, appesi lungo le vie del borgo di Navelli), e poi un prodotto esclusivo ( lo zafferano di Navelli, brand nazionale ma residuale) in quanto a qualità anche nel panorama europeo, e documenti archivistici ( statuti, diplomi, e tutele soprattutto nel Ventennio fascista dello zafferano, che hanno attraversato la storia, fin dal medioevo ). Beni naturali come si diceva, costituiscono dunque i riferimenti originali della spezia, nella sua epopea, in una ”archeologia vivente” giunta fino a noi, ma che nulla abbiamo fatto per tutelarla e riscriverla, riprenderla quella linea.. l’unica “linea rossa” incontestabile della profondità del tempo e della storia della nostra appartenenza, condivisa a nostra insaputa: lo zafferano, che ci racconta e racconta luoghi misteriosi della spezia, e “marca” culturalmente il paesaggio appenninico divenuto a noi anche estraneo, salvo a scoprirlo, nelle mediatiche, accattivanti e suggestive preparazioni dei piatti allo zafferano: solo quelli, ed è pochissimo, quel che rimane…

Le fotografie dello zafferano, i reperti archeologici, la scultura che racconta il mito.

La corolla, gli stami ( gialli) e gli stimmi rossi : lo zafferano in fili, deve essere staccato dalla corolla per l’essiccazione.
La navicella nuragica del tempio di Hera Lacinia ( particolare) con i carri a ruote piene tirati da una coppia di buoi aggiogati( Museo Archeologico di Crotone). Hera Campana ,copia marmorea romana di un originale ellenistico - II secolo d.C. - Museo del Louvre Parigi. Nella mitologia e religione greca, Era o Hera era una delle divinità più importanti, patrona del matrimonio e del parto. I suoi simboli erano la vacca ed il pavone. Aringo, Alto Aterno (foto Aringo.eu) il carro, i buoi e la sfilata della dote con gli sposi nelle foto d’epoca. La sfilata della sposa ( immagine: folclore in Abruzzo), foto d’epoca. Il fiore zafferano, prima del raccolto dai terreni. I campi di Caporciano nell’altopiano di Navelli (famiglia Marinelli). Essiccato al camino, lo zafferano viene avvolto in un panno di lana per conservarne l’aroma nel comò, prima della vendita (famiglia Sarra, Civitaretenga). I bilancini utilizzati nelle fiere per pesare lo zafferano (Tussio)



 



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