Ricordi e fantasie putative

 
 
- di Giacomo Sansoni -
 
 
 
 
 
Per rispondere e interagire con il racconto di Peppino Lalli, come i poeti toscani a braccio, che rimano a rimando, sono sollecitato a ricordi e fantasie putative. I luoghi e gli umori sono gli stessi. I nomi alterati e con la trasposizione se ne declina qualsiasi corrispondenza reale. Anche se il reale ha forse maggiore pregnanza e fantasia del finto. IO SONO, TU SEI, EGLI E' Più forte del vino è il Re, più forte del Re è una donna, ma tra tutti è più forte la verità traduzione di una epigrafe latina posta nel tempio di Rosslyn (Scozia) Io che inopinatamente sono giunto ai fili scomposti di questa narrazione, restauro con una presunzio- ne della quale non ha poca vergogna e timore d’arbitrio, la trama sfilacciata e consunta di una storia, di una vita, di vite, di nuvole di sogni. Per me gravido d'inscienza è duro incorsare l’ordito nei licci col timore d’invalidarne l’irroro capillare ischemizzandone la fisiologia delle suggestioni. Da ciò me ne deriva un accoro di lisifobia. Con esercizio d’amore diverrò quasi un restauratore dogato, ligio all'iso-cronia dei toni e alla confinatezza delle campiture. Se non la mano s’accetti il cuore pietoso, che scie-glie i fili salvi, non intarmati, riannodandone le tensioni agogiche dei destini. Oggi per un'astomosi riuscita ho resuscitato contristamenti e risolutezze. Volevo una professione d’anonimìa. Che la mia manovalanza serva a ricostituire le congiunzioni dei temi reiterandone alcuni elementi di contorno, sovvenendo le assenze. Io che inopinatamente narro, in questo millennio di contraltare, inconosciuto a me stesso, con il cannocchiale di Galileo, le empirie e le leggi della vulcanologia, Freud il vulcanologo, gli antidepressivi e ansiolitici, la luce delle virtù ermetiche dell’atomo, il dendritismo saccente dei neuroni, il manicheismo binario del silicio, ho ancora tenebre nell’animo, non so se tenute dalle forze deboli o forti. Ancora io so e non so, non so e so quale magma trova pervie le mie antrosità, per fame d’aria o di cuore per il doloroso parto da una bolla ad un’altra. Questa però è un’altra storia…O è la stessa storia?.. Non c’è notte dei miei anni bambini, che i miei magmi non risalgono le gravità ancestrali; la vita troppo grossa che non la potevo respirare tutta solo a morsi timorati; questo era il dolore e tanto più la vergogna, è il miracolo doloroso di dover, non saper essere uomini!...Ma questa è un’altra storia…Eppure è sempre la stessa storia! Quando cercavo d'aprirmi al nuovo mondo, che quello vecchio non avevo manco avuto il tempo di conoscerlo appieno, e m’allontanavo dal sacco amniotico dell’unica stanza, dove mia nonna malata ci teneva legati alla sua schiavitù; che mia madre era col nonno e il nonno era in campagna o a fare, qualche volta, il falegname d’aratri. Perché mia nonna non ci poteva seguire oltre il suo male e ci teneva schiavi col suo male. Il suo male curato con la coramina e la ferrochina. Anche la medicina riconduceva al cuore ogni dolore nato altrove. Non c’era pasto che la nonna non vomitava con dolori celati, dentro il suo già lutto del nero dei vestimenti, nel secchio sotto il lavandino di pietra che si doveva vuotare più volte il giorno fuori alla fogna. Il male inconosciuto germinava bolle crude e cattive nello stomaco, cibandosi della ferrosità acidula del citrato ferrico della ferrochina. L’unico liquore conosciuto da bambino, mai assaggiato, perché era la medicina della nonna. Una medicina pagata a caro prezzo, per i prezzi da pagarne. Quando fui grande ed ebbi qualche soldo per iniziare a bonificare le paludi mia anima, volli provare la ferrochina, così conobbi il sapore della morte di mia nonna. Acidula, sapida e piena d'una colma efferrvescenza emetica: la ferrochina. La sua schiavitù c'imponeva povertà. Allora, ora anche di questo sono ricco. Il senso di colpa per qualche fuga alla scoperta del nuovo microcosmo, inaudendo i suoi richiami, ancora mi sopravvive. Conobbi altri rosari e bolle più sature e grevi…Con qualche amico d’elementari, che nella giornata venivano a giocare nella grande piazza della chiesa dove noi eravamo con la nonna, risalii il paese, cagliato da un lato, che, come un tumore rompeva la convessità mammelluta del colle. Un’altra stanza, illuminata a festa dalla prima 125 Volt che raggiungeva il paese, quasi per caduta, come l'a-cqua, nei fili grossi intrecciati, temendo le asperità e le permalosità dei venti iematici, che ci lasciava troppo sovente alle suggestioni tenebrose delle ombre oniriche delle steariche. Peppe il luciaio ci ave-va lasciato la zappa per l'affatturamento della nuova arte. Poi se ne giovava non foss'altro per la pro-messa di vertigini; non era come la terra che era troppo per terra. I fili nei pali correvano ad un'altezza di desiderio, lontano dalle fatiche ed egli li maneggiava senza timori gustandone le prurigini nervose dei ruscelletti d’acqua che da essi ne scaturivano, aduso, egli, ai brividi integralisti professati dall'a-cqua di Santa Maria dove aveva il prato, che era una coronaria dell’acqua integerrima del miracolo di San Franco. Con le strine e le esuberanze ciclotimiche, di quegli anni, e tutto il resto della mia mitologia, la mia infanzia: il medioevo cui appartenemmo, patendone le stesse sizigize e medesime maree. La casa d'Antonio, per la lievitazione magnificante, come quella del pane nelle madie, che iperbola e cavita, del dollaro mericano, che Antonio aveva riportato dal suo esilio nella Merica da dove era tornato perché non gli faceva più l’aria, e per trovare una moglie al paese che fosse clorofillica e terrosa e sapesse ammassare il pane come gli dettava il ricordo; la casa aveva l’unico giradischi del paese. Che in quella casa c’era lo sapeva tutto il paese che, se non tirava il vento che se la rubava, la sera e le notti era tutta una musica, che svegliava i morti e intristiva i vivi. Antonio si saturava di musica di ballabili, di tanghi malinconici che accoltellavano il cuore e di vino, per tacitare altri requiem, altre suonate di dentro. Decenne, o forse meno, io non risi, come i miei amici, e respirai da subito l'aria satura di una dolorata angustione.“Io sono, tu sei, egli è…Il Po nasce dal Monviso Ha!...Ha!..Ha…Ha! ...Ha!...Ha!" urlava ubriaco Antonio con un sudore etilico sulla pelle della faccia, con una barba mal disboscata e brinata dalle gelate dell’età, il naso camuso come il becco di un gallinaccio e la voce uguale “Cinque per cinque venticinque…sei per sei, trentasei...sette per set-te quarantanove…Ha!...Ha! ...Ha!...Ha!...Ha!..Ha!...Io sono, tu sei, egli è, noi siamo" compitava Anto-nio rintanato nella sua bolla prediluvio, dopo aver passato, con l'abbrivio dei succedanei della felicità, ed aver pagato con il sangue alle dogane. “Io sono, tu sei, egli è…Ha!...Ha!...Ha!...Ha!... Ha!...Ha!.." esausto rideva estraniato ed amaro, conscio della crepa cosmogonica che egli intravedeva. I miei com-pagni ridevano e lo pungolavano per accrescerne il cinema. Io sanguinavo dentro, avevo paura e avevo vergogna. Impastavo, con la sacralità viscerale di un vasaio, la mia vergogna congenita che m’era ve-nuta col cordone ombelicale delle colpe dei fati, quella di quell’uomo che non conoscevo, imparavo a conoscere e per qualche sera conobbi, rinnegandomi poi quando i compagni, per micragna di svaghi, proponevano di"andare da Antonio”. Se non fossi andato, Antonio si sarebbe salvato quella sera e forse avrebbe salvato me e la mia vergogna. Il dolore, mio e degli altri, era per me, sempre vergogna. Mia ed incondizionata. Avevo una vocazione sacrificale, non per presunzione ma per adesione compa-tente alle cose, mitologica, quasi da Atlante. Dissuasi gli amici non poche volte, dall’andare da Anto-nio, inventando altre occupazioni, che non mi digiunava la fantasia. Così non poche volte lo salvai o lo condannai, e forse preservai solo me, perché da quell'esercizio di condivisione non n'avessi l’avallo, sulle certezze che andavo sperimentando: che gli uomini sono chiamati dal precipizio, negati al riscat-to. Quando tornai a studiarlo e a compatirlo, sperai in un gesto di rivalsa. Fino alla fine sperai in un lampo d'orgoglio, un luccichio di sobria risolutezza, uno scalciare d'asino dei quali iniziavo, cocoscen-doli per la prima volta, ad apprezzarne l'indole domita e la recalcitranza ispirata. Una fermezza. Non andai più. Fui quasi contento, quando a distanza di qualche cerchio meristematico d'anni, seppi che Antonio lo avevano portato a Collemaggio. Mi parve una salvazione; non seppi dire di chi. Qualche vergogna mi sopravvisse e, al funerale delle altre, andai quasi contento…Compativo, benché non lo amassi, mio padre. Allora quando veniva al paese a trovarci, con la sua cassetta di legno, fatta da se, con la frutta, per me esotica, matura ed invaiata e qualche bottiglia d’olio d’oliva delle sue piante, che pure gli costava fatica portarcele. Mia madre, tutto buttava, la notte, alla fogna, anche l’olio che non si trovava nelle nostre contrade e non nasceva tra i sassi delle nostre montagne, e se ne comprava alla bottega, qualche lacrima con le uova, che erano una moneta vitale, delle galline di mio nonno. Qualche goccia, mio nonno la teneva per lubrificare le seghe e gli attrezzi da falegname e la metteva su una cote quadrata incastonata su un piano per arrotare gli scalpelli. Questa fattura non ebbe mai ragione del ferro e delle lame della falegnameria, ed alla nostra famiglia arrecarono piccoli tagli ed escoriazioni, mai sacrifici mitologici, anzi cucirono e, l'adescamento della falegnameria costituirono il mio primo incantamento, e l’odore pio del legno ancora mi suggestiona, mi narra e mi rapisce. In tutto quello che mio padre ci portava c’era la fattura, che non rispettava volontà e coscienza, e ci avrebbe risucchiato in quelle terre con lui per sempre, a morire, per sempre. Come mio padre che era stato fatturato dal fratel-lo al quale era legato più che con la colla di pesce che, anche loro falegnami, usavano. Che mio padre: ”io non lascio mio fratello, io e mio fratello ci capiamo al cento per cento, e mio fratello è meglio me” diceva in ogni occasione. Evitavo di toccare ogni cosa che ci portava, e mai davanti a nostro padre, per dargli soddisfazione, come c'implorava, mangiammo un frutto, un dolce o qualcosa, mai lo asse-condammo accampando le più inverosimili e bizzantine scuse senza dieresi della premessa, che era sempre la stessa inconfessata, sottaciuta e temuta: la fattura. A sera mi scorticavo le mani, le lavavo all'inverosimile innumerevoli volte. Ancora ed ancora, fino a renderle urticate. Con il sapone fatto col sego, la soda e la pece, una volta l’anno nella cottora col metodo dell’idrolisi basica degli esteri, di cui, più tardi, con la scienza, n'appurai, apprezzandone l'intimo valore di contrappasso. Che il grasso, che è lo sporco, si pulisce col sapone fatto dallo stesso grasso. Simile scioglie simile. Dolore scioglie dolo-re. Attendevo, mio malgrado, altri rammarichi che sciogliessero quelli del mio assedio di allora. Me ne restava lo stesso, anche dopo questa toletta maniacale, una sozzura, una contaminazione, una lebbra non solo nelle mani, un’impetigine dell’animo che m’impedivano di usarle, le mani, per prendere i cibi per i giorni a venire. Per giorni, non toccavo i cibi, il pane, con le mani, solo con le protesi servizievoli delle posate quasi arrugginite, che avevamo, o con la pezza, e se avessi potuto, le avrei moncate le mie mani. Il tempo, con le rugiade, me le riabilitava. Mia madre c’era passata lei stessa. In queste occasio-ni ci rinnovava la scuola. Per questo lei portava, cucita nella canottiera, vicino al cuore, un involto di pezza che celava non so cosa, quale talismano che mai ci volle rivelare. Io lo scoprii e gliene chiesi ragioni che non ebbi. Lo scoprii qualche notte, che aveva lavato alla fontana della piazza ghiacciata d’inverno, con l'acqua ghiacciata e noi dormivegliavamo sul tavolino della cucina, che se la ricuciva nella canottiera. Dalle dicerie sulle fatture me ne derivava un assedio di tutti i miei respiri di vita. Tut-to mi era temibile ed ostile. Mia madre “c’era passata lei”. Raccontava che quando si faceva ragazza, agile e flessuosa, con una naturale eleganza scesa a valle, fino a lei, dalla stirpe d'antenati ricchi di conformazioni, inclinazioni e propensioni buone, col ruscelletto cristallino di lapislazzuli di mio non-no, dal quale ad egli, d’inverno (nato il sette di febbraio) l'illetterata assonanza omozigotica del caso gli aveva staccato due pezzetti cerulei di ghiaccio per allogarli nelle sue orbite. Mia madre, figlia di mio nonno, che come i fratelli avevano tutti atteso ed avuto lo sguardo di cielo, portava negli occhi la sua ipoteca terrena con le acque diafane dei disgeli colorate dalla decozione di malve, di cicorie, d'er-be tenere. Mia madre "già c’era passata". Quando la sua naturale bellezza infloridiva e rapiva le invi-die, qualcuno l’affatturò. Ebbe dolori incoercibili e un deperimento consuntivo che, ogni giorno la stendeva sempre più, e gli passava sopra, come il traino che tirava giù per le montagne carico di legna fatta per confortare l'accerchiamento siderale dell’inverno. Una strega, con una maliziosità alchemica, le rivelò il suo destino d'affatturata. Con i suoi malingegni trafficando e bruciando i capelli e le sue malie, le mostrò, in forma di fumo, la bara che presto l'avrebbe attesa al fondo della china. Le rivelò come la serpe della fattura gli era entrata dentro con un vino, tempo prima. Mia madre costruì così il suo determinismo e le sue subiettività e tornò ai giorni quando tutto cominciò ad invertiginare. Ritro-vò una festa di paese, dopo le fatiche pieganti delle campagne e i balli rinvigorenti dalle fatiche, come se le dissipanze miosiniche attingessero, non dalle stesse, ma da altre riserve del granaio, protette dal-le soddisfazioni. Vide il boccale di vino offertole, e da chi, ne ricordò la sospetta torbida colloidalità mostosa. Così sentenziò e odiò. Qualche volta si rivive pure d'odi e rivalse e si torna indietro perché andare avanti è una china cosmogonica. Così mia madre. Così, come lei diceva, riniziò la scalata, con un nuovo fardello sopra le spalle…Veniva da lontano, mio padre, con gli autobus traballanti e sbuf-fanti come fiere preistoriche, e restava due giorni ospitato da qualche parente, alla lontana di mia ma-dre, che avevano, di lui pietà, o per fare dispetto a mia madre, al quale ora egli nonagenario fa, a suo dire, le orazioni. Erano, per me, i giorni più brutti della mia infanzia. Giornate perse. Non che avessi già allora il peso ansioso della computazione temporale che, invece, le giornate di quegli anni aveva-no adescamenti eternali; ma perché infangate, vili, arroccate, assediate, inespugnabili, vilipese, abbu-iate, impantanate nelle involontà…Morte. Mio padre mai una impuntatura, un'alterigia, sempre arre-so, dimesso, con la coda tra le gambe. Avrei voluto, benché non lo volessi, che rivoltasse il mondo. Avrei voluto che buttasse all’aria il mondo, benché non lo volessi, e non lo volessi ora, che il mio mondo faticava ad assestarsi su qualcosa. Avrei voluto che si ribellasse al mondo con le sue leggi, l'al-chimia stregonesca delle sue aurore e dei suoi tramonti. Benché non volessi che il mio mondo non trovasse una pace, volevo che lui rompesse i tempi, perché cominciavo ad avere paura nel mio sangue del suo sangue, e tanto più n'avevo vergogna…Il rosario d'Antonio aveva bolle vermiglie di sangue. Dall’ultima non seppe più la strada per procedere nella propedeuticità dei misteri dolorosi e fu vinto dall'iteratività scarnificante. Tornò con dolore, sempre più indietro fino alle prime bolle, in cerca di salvazioni. Dalla Merica era tornato perché la commistione d'anidridi e gravità più grevi pesavano ed asfissiavano sempre più, e gli anni s’attempavano inutilmente sterili, ed aveva desiderio di famiglia, con la quale godere qualche soldo accumulato senza una soddisfazione levata, per un sogno rimanda-to, sempre rimandato, fino a quando ebbe paura che non fosse più sognabile.Tornato ormai già avan-ti negli anni, sposò una moglie giovane e fresca come l'acqua della sua infanzia ritrovata, che amò con un amore quasi incestuoso di padre. Antonio sposato, marito fedele, padre per vocazione escato-logica, di due figlie, che per età mi tenevano in mezzo, per le quali, la fantasiosa cabala meiotica, scelse la romitezza cromosomica d'Antonio e la bellezza matroclina della moglie. Antonio aveva una moglie. Antonio aveva la moglie, ed era pure un poco istruito; aveva fatto la quinta elementare, che non tutti l’avevano. Poi era, e questo non aiuta, un uomo per bene, una brava persona, con sani princi-pi. Aveva una moglie. Qualcuno diceva che l’aveva qualcun altro. Alcuni dicevano che il cuore non si svergina con i soldi e che i giovani appartengono ai giovani. Che i padri, per un tornaconto d'interes-se, non dovrebbero accatastare le figlie come legna per il fuoco dell'inverno. Per una bella figlia ci vuole pure qualcosa di bello da vedere. Qualcuno diceva che gli spermatozoi d'Antonio avevano una giovinezza troppo giovane che non gli apparteneva. Lui aveva una moglie. Antonio amava sua moglie ed egli, fuori di casa, non aveva udito. Antonio amava sua moglie e le risparmiava le fatiche e gli af-fanni. Qualche lingua maligna, che ce n'è sempre stata, con il proverbio, diceva che, per chi ti rispar-mia le fatiche in casa, c’è sempre chi te le fa fare al pagliaio. Al pagliaio, la moglie d'Antonio non accudiva nessun animale, anche perché il pagliaio non era il suo. Al pagliaio la moglie d'Antonio era lei stessa un po’ bestia. Gli uomini del paese, per la claustrofobia delle montagne, erano innamorabili. Questo contadino aveva il sangue fresco delle vene d'acqua dei monti, aveva un bel pagliaio, con be-stie e faceva il fieno, per le appetenze delle bestie e i conturbamenti febbrili con la moglie d'Antonio. Il contadino, con un asservimento della spavalderia, che l’età gli autorizzava qualche volta la portava, la moglie d'Antonio, a fare il fieno. Non come il fieno, l’amore di quest'uomo fresco, avvizziva e sec-cava, anzi s'inturgidiva sempre più. La moglie d'Antonio aveva, dell’amore, una considerazione con una geminazione caleidoscopica ed una visione più prospettica. Anche le figlie erano un amore e chie-devano amore. La moglie d'Antonio scendeva a valle dal cocuzzolo newtoniano ed imparava la relati-vità sentimentale? Venne il tempo del grano e della trebbiatura e il trescare s'appesantì della canicola e dell’uggia delle pule. Qualche dissapore comparve molto aggettivato ed oggettivato dalle dicerie. Per una sensibilità più allertata, propria delle donne, alla moglie d'Antonio, con la stagione dei frutti, cominciò a maturare un disamore, che, con poca acqua, si coltivò. Alla nuova primavera era già quasi un rifiuto, che il giovane non volle e non seppe capire; che egli era invece già pronto alle nuove mes-si, alla nuova fienagione, alle nuove suggestioni ai rinverdimenti, ai rinturgidamenti delle marze. Quando le volontà della moglie d'Antonio furono reiterate con arbitrio esiziale, il giovane iniziò a provare un afoso assolato rancore. La moglie d'Antonio tornava al marito? Quale altra deriva prende-va, e con chi? La gelosia del giovane entrava nel suo labirinto egotico e perdeva le redini. Venne la stagione dei prati e il grano, già di una verdezza tenera soggiaceva all’ondeggio del pennello meta-cronale del vento e le forche e i rastrelli attendevano. Il giovane aveva ormai perso il filo dei giorni e dei santi e la moglie d'Antonio ora fuggiva alla sua vista e n’aveva una preveggente paura. La chiostra dei monti d'Assergi è forte, aspra e bella e nemmeno quando s’ammanta della candidezza nivale sorri-de. I giovani fatturati dalla sua tragicità valanghiva. La trama era ormai logora e se ne intravedeva la malombra del disegno originale…Temeva le ricuciture e i racconci. C’è chi agogna un'imene indeflo-rato ed un’anima intonsa. C’è chi desidera, c’è chi dolora, c’è chi colora. C’è chi si logora. C’è sem-pre chi mormora. Ancora c’è il papavero che del sangue sacrificale s’imporpora. C’è tutto il male che viene ancora perché i destini come le acque imparate scorrono nella propria gora. Un giorno, la mo-glie d'Antonio coglieva, nella piazzetta, l’acqua alla fontanella di ghisa con la conca di rame, per un battesimo tutto nuovo. Quel giorno colse l’acqua per una sete che non rinfrancò …Era pure l’acqua sapiente che generò San Franco e che cantò Santino… Il borgo stava… Le mura medievali tenevano in ostaggio la ferrea teatralità… Il sole complice suo malgrado…Dall’orologio della torre, il tempo, varcato il baricentro, già precipitava in logore virili gocce di suono…Le ore s'avvedevano della trap-pola deterministica…Gli eventi non avvenuti ancora agognano un'espiazione…Ciò che accadrà, acca-drà…La canicola ospita il coro prefico dei grilli…Il destino segnò col suo dito nodoso, non interpretò, lesse, sul suo libro annoso e tiranneggiò il tempo, con il matematico relativismo tenuto nelle sue sca-tole cinesi…La donna coglieva l’acqua. Lucia era il suo nome e quel giorno, lo possedette per sem-pre. Giovanni il nome del giovane contadino che da quel giorno lo riconobbe sulle carte brutte." Mia o di nessun altro!.. "Giovanni appostato, come un rapace, ad una finestra della casa paterna agguantava con gli occhi e dominava la piazzetta con la doppietta imbracciata, non padrone della superbia del destino. Il destino non commisurò la quantistica biochimica del rancore di Giovanni e, la fuga entro-pica dell'irreversibilità, celebrò solo il servilismo meccanicistico della balistica. L’acqua della fonta-nella scorse liscia, quel giorno, senza gorgoglii o nodi premonitori e, si saturò di porpora, solo al mo-mento esatto che il colpo ebbe lacerato, in progressione coassiale, una famiglia di bolle temporali, passando prima per il cuore di Lucia. Da un atto povero, la morte. La vita, la sublimazione dell'in-commensurabilità. Le nubi si pietrificarono in rocce e montagne, i pensieri in cirri e il sole s’appisolò altrove la sera. Lo sparo superbioso di cinetica e cieco di relatività, fu confinato in un universo di bol-le in cui si trovarono, di colpo, tutti i rosari esplosi come palloncini, e il passato e il futuro furono un attonito presente. La progressione balistica del colpo soggiacque alla cavitazione temporale del cuore di Lucia. In quel presente, orfano di un passato e assassino del futuro, il cuore simpatetico d'Antonio seppe. Come si sanno le cose che si temono. Un microcosmo, con una tensione superficiale, come una pietà più tenace, confinò il dolore dentro quello umano. Antonio non seppe mai trovare un metro al suo dolore e, da subito, tornò alla Merica con le caravelle di Colombo, e ancora indietro in un utero, finché il dolore coprì la sua ombra. “ Io sono, tu sei, egli è…Ha!...Ha!... Ha! ...Ha!...Ha!...Ha!..."Le figlie, non per fare altro male, gli furono portate via da una sorella sposata senza figli, che le allevò con amore di madre, e le istruì alla dimenticanza ed ad una vita quasi normale. “Io sono, tu sei, egli è Ha!... Ha!...Ha!...Io sono, tu sei, egli è,…Ha!...Ha!...Ha!" Quando io lo conobbi, Antonio, era passato circa un lustro da quei fatti, ed egli non sapeva ancora se, io sono, tu sei, egli è…Ha!...Ha!...Ha!...Ha!...Ha!...Ha!... Io non sono, tu non sei, egli non è…Ma questa è un’altra storia, questa è veramente un’altra storia… eppure la storia di un uomo è la storia degli uomini. ******** Nella prima metà degli anni ottanta avevo, senza appagamenti particolari, appena circumnavigato il promontorio della mia maggioretà e m’avviavo ad un’età ragionata. Per destino condiviso, ero chia-mato ad una delle tante elezioni politiche o amministrative o d’usi civici, o chissà che. Politiche na-zionali. Nel seggio facevo lo scrutatore. Il ruolo mi permetteva di indagare i punti cardinali delle insindacabilità anagrafiche; così le facce, che conoscevo e non conoscevo, avevano gli anni e le misure e si potevano preludire gli affanni, le frusrazioni e i sogni fors'anche: ad avercela tutta quest'in-tellezione predittiva. L’età era poca, la mia, anche se già si saturava d'affanni e mortificazioni che, con l’abbrivio delle mie propensioni naturali m'istruivano all’ispirazione di un patos melanconico. Con le ortogonalità di questa grammatica, cercavo le ragioni delle tensioni umane. Le pesavo e ripesavo per estrarne dalle scaturigini le unità primigenie: i multipli e i sottomultipli. Un cartesianesimo che m'af-francasse dal pericolo che il fardello insostenibile del libero arbitrio mi lasciasse agorafobico nei ter-ritori sconfinati delle possibilità. Avevo necessità di una pletora di termini, di pietre miliari, di trigo-nometrie, di confini e contiguità. Erano i miei anni nei quali preferivo essere un libero schiavo piut-tosto che uno schiavo libero. Il dolore patito e compatito era la prova che ero uno strumento e che potevo essere suonato; che il mio violino aveva tutte le corde ben partite con la consona compitezza e il lirismo n'era la propensione prospettica. Amavo gli umili e i sofferenti, me li sentivo naturalmente consanguinei. Cercavo in loro l’avallo che v'erano porte che aprivano verso orizzonti intelligibili dove la coscienza fosse sverginata, con un relativismo che deridesse la catorbia Newtoniana. Comparve al seggio un signore, un uomo, assieme ad Aldo, un signore del paese, più giovane, che conoscevo. L'altro, anziano, con una giovinezza rappresa. Mite, franco e libero m'apparve, eppure tenace e altero. Nella pienezza istituzionale del mio ruolo, che nel frangente rappresentavo, ligio alle disposizioni impartitemi, chiesi le generalità anagrafiche per esplorarle sul registro, così da potergli concedere il diritto di voto. Capite le mie intensioni: “No” Mi disse con una vocazione manifesta d'essere piano “No non voto perché io ho fatto un omicidio” Con una naturalezza che mi servisse di lezione. E mi servì. “Aldo lo sa bene, tu sei troppo giovane” come a dirmi. Tu non puoi sapere ancora quali e quanti sono i lacci che possono intrecciare e legare una vita. Non proferii parola perché da subito m’allagò la mia marea d’inadeguatezza. Però pescai nella mente un lume e le vestigia di un ricordo: Giovanni! Giovanni da qualche giorno tornato dalla stessa Merica d'Antonio. Non con la galera che era stata quel che era stata, ma con la Merica, con la sua emigrazione nella Merica pagava e aveva pagato. Antonio e Giovanni un nodo di destini, chi aveva pagato preventivamente, chi dopo, chi troppo, chi meno, con la stessa moneta però. La Merica. La Merica speranza per Antonio, con-trappasso per Giovanni. Quando il cuore si cavita qualsiasi sangue l'empie e lo consola. Il cuore di Antonio era grottoso, per il mal d’America. Quasi da ragazzo, anch'egli, per sfuggire alle avvisaglie di un cupo e misero destino, con una risolutezza insospettata al suo carattere, aveva sfidato il mare riponendo, oltre esso, le sognate speranze.Tornò attonito, grottoso, diverso, nuovo e più vecchio, sformato e sconfitto dalla scoperta che in quei luoghi “non gli faceva l'aria”; che al di là di quel cielo di mare ci fossero che commistioni strane di gas e anidridi dell’aria, e gravità nuove e più grevi, e solitudini incolmabili, e desideri invaniti, benché raggiungibili, e che le volontà della coscienza e dell’anima soccombevano al cospetto delle oscure forze e leggi primordiali e vegetali della natura d'uomini-albero. E che ogni anno che passa, un nuovo anello in più concatena un ancor più crudo dolore metereopatico tra il cuore e le foglie. Il cuore d'Antonio era grottoso e l'acqua saputa e leggera di Lucia l’aveva costipato. Cosicché Antonio gli aveva elargito e assecondato una gratitudine e una riconoscenza oltre le ragioni. Non poteva esservi ragione che incrinava la sua gratitudine per una salvazione che non gli era forse nemmeno più sognabile e che pure c’era stata. Tutto questo capì anche Giovanni con la Merica. Il contrappasso legava ad un destino ciclico le scarpe di Giovanni a quelle d'Antonio con stringhe tenaci e inestricabili. La Merica; la nuova galera per Giovanni. Oppure una salvazione?
 



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