UN AMICO IN PARADISO CHE AMA L’ABRUZZO

(DI Giustino Parisse)- La mattina del sei aprile del 2009 quando il sole gettò la sua luce sulla tragedia che aveva sconvolto la mia vita e quella di decine di migliaia di aquilani ebbi la sensazione netta di un mondo a due dimensioni: quella umana, piccola, insignificante, precaria che ci coinvolge ogni giorno e quella che scorre lenta, quasi irreale sopra di noi, comunque e sempre. Guardando il Gran Sasso lo vidi come lo avevo visto da bambino, con un filo di neve che aveva resistito ai primi caldi e proteso verso un cielo azzurro che annunciava un nuovo splendido giorno. Nonostante la morte. Al di là di ogni dolore.
 Ho ripensato tempo dopo a quello che Giovanni Paolo II, che oggi viene proclamato Beato da Benedetto XVI, disse a Campo Imperatore il 20 giugno del 1993 quando pronunciò il suo discorso con alle spalle l’imponenza delle cime più alte dell’Appennino: «Qui il silenzio della montagna e il candore delle nevi ci parlano di Dio e ci additano la via della contemplazione, non solo come via maestra per fare esperienza del Mistero ma anche quale condizione per umanizzare la nostra vita e i reciproci rapporti. Si sente un gran bisogno di allentare i ritmi talvolta ossessivi delle nostre giornate». Il Papa parlava ai fedeli ma in fondo parlava anche a se stesso. La montagna abruzzese - con i suoi scenari mozzafiato e la sua neve a perdita d’occhio - per Karol Wojtyla, era una chiesa a cielo aperto. Le “fughe” dal Vaticano per trascorrere qualche ora a Campo Felice, Ovindoli, sul Gran Sasso, sulla Maiella non nascevano solo dalla voglia di calzare un paio di sci per lasciarsi andare da monte a valle. Per Giovanni Paolo II erano una necessità irrinunciabile perché fra quei boschi imbiancati, quel verde speranza, quel cinguettio insistente - ma mai uguale - degli uccelli che popolano alberi e anfratti, lui, rappresentante di Cristo sulla terra, si avvicinava, almeno un po’, al Paradiso promesso. Il Karol Wojtyla mistico è forse l’aspetto meno noto di quest’uomo oggi Beato e presto Santo, che ha inciso profondamente nella storia della seconda metà del Novecento. Un uomo dalla grande fisicità che esprimeva in gesti mai visti prima in un Papa ma che sapeva raccogliersi ed estraniarsi dal mondo anche fra una discesa sugli sci e un’altra come raccontano i testimoni che hanno condiviso quei momenti con lui.
L’Aquila e l’Abruzzo devono molto a un Papa che aveva fatto della nostra regione quasi una seconda casa: intima, segreta, divinamente splendida. Lui che nelle nostre cime rivedeva i suoi amati monti Tatra in Polonia aveva capito più di noi quale tesoro ci era stato donato. Quando incontrava qualcuno dell’Aquila - che siano stati vescovi o semplici fedeli - non mancava mai di ricordare loro la fortuna di essere a contatto ogni giorno con una natura tanto generosa. Il 2 aprile del 2005 Giovanni Paolo II è tornato al Padre - come disse in piazza San Pietro il cardinale Sandri - molti pensarono che da quel giorno l’Abruzzo avrebbe avuto un amico in più in Paradiso. Un amico in grado di sopportare la sofferenza fino all’ultimo giorno, nella totale accettazione di una natura umana a volte matrigna e capace di provocare dolori incolmabili, di strappare i sogni a ragazzi appena sbocciati alla vita, di spezzare speranze, di oscurare il futuro. Quel gesto di rabbia che tutto il mondo vide pochi giorni prima della morte quando dalla finestra del suo studio non riuscì a parlare alla folla in piazza San Pietro è un gesto che tanti di noi hanno fatto di fronte a quella che è apparsa come una grande ingiustizia. Perché il dolore? Perchè i genitori devono piangere i propri figli? Mille perché. L’immagine che Giovanni Paolo II ci ha donato di sè in quell’ultimo venerdì Santo della sua vita terrena è forse una risposta per chi ha fede: fragili, cadenti, vicini alla fine ma attaccati alla Croce di Cristo simbolo di sofferenza infinita ma segno anche di speranza. Il mistico che prega fra le nevi e l’abbraccio alla Croce. Due immagini. Bastano per dirgli grazie.



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