Nella Conca aquilana i fuochi di Sant’Antonio Abate che ridefiniscono il tempo…



Il 17 gennaio degli eventi e antichi saperi.

Testo e fotografia di Vincenzo Battista

 

 


Quando se lo sono visto mezzo insanguinato liberarsi dal “tinaccio” e fuggire tra le due schiere degli edifici, per un momento nessuno ha avuto il coraggio di inseguirlo; qualcuno avrà pensato ad un sortilegio, ad un atto di stregoneria e poi magari qualche donna è rientrata subito in casa e si è fatta il segno di croce per allontanare i malefici. Non è stato semplice riprenderlo. “Ma ormai era fatta” raccontano.

E quella semplice attività di cultura materiale che ogni anno, a gennaio, si ripete, è stata consegnata a una delle tante immagini dell’almanacco del piccolo borgo: quella del maiale, appunto, raggiunto, infine, finito di scannare, “giustiziato” direttamente sui campi che si aprono, come del resto illustrano le miniature del XIII secolo che rappresentano le allegorie del paesaggio e degli antichi mestieri medievali e quello esclusivo del “porcaro”, con il suo epilogo... L’impianto storico delle due lunghe file a schiera, quindi, delle case rurali dei coloni costruite intorno alla metà dell’Ottocento, avevano riservato all’allevamento del maiale la “stiparella”, lo “sturillo”: un vano in ogni casa, un sito di tutto rispetto per proteggere e controllare l’unico e insostituibile “bene” materiale della società contadina, poiché già da qualche secolo prima, nel 1500, una prescrizione speciale negli Statuti comunali ribadiva che “nullo porco maschio o femmina non dabba andare per la città né di giorno né di notte”. Il detto comunque era: “Del maiale non si butta niente”. Un’economia familiare, una “rascia” come dicono da queste parti, una garanzia per la famiglia da distribuire oculatamente per tutto l’inverno fino alla mietitura, con grande attenzione.

Tutto iniziava molti mesi prima : “Con l’acqua di agosto, olio lardo e mosto, rinfresca l’aria e il maiale cresce”, dicevano i contadini. Si raccoglieva poi in montagna il “tumacchio”, il timo della montagna, “selvatico e profumato” utilizzato per bruciare i peli, “per pelare il maiale”, prepararlo, prima della macellazione . Ma torniamo dentro i paesi, “dove gli si fa notte”, il detto. Ma qui si tratta, in definitiva, di un maialino che doveva trovare un posto, per la notte interminabile, al riparo, tutelato, con la sua trasfigurazione popolare nelle sembianze di Sant’Antonio Abate, avocato a sé, trattenuto anche per un istante nei pressi dell’abitazione, della stalla, di un fondaco, in quella cosmologia contadina, in quel mondo della continua richiesta di protezione e di fascinazione della diversità che si fa mito. Il maialino assumeva così, nella metamorfosi narrativa, le sembianze, non uno qualunque, ma il padre del monachesimo, iniziatore della vita anacoretica, figura che più delle altre è entrata plasticamente nel “Pantheon” dei sentimenti della cultura popolare: Sant’Antonio Abate, detto “il Grande”.
Nacque nel Medio Egizio, a Cuma, nel 250 secondo alcune fonti, e già durante la sua lunghissima vita (morì ultracentenario il 17 gennaio 356) era oggetto di culto. La ricerca e il desiderio estremo di solitudine furono interrotti solo poche volte in nome della fede cristiana prima di stabilirsi definitivamente nel deserto della Tebaide, dove visse l’ultimo periodo della sua vita. E’ il mese di gennaio allora che assume, in definitiva, il valore magico, della memoria : antichi saperi, riti propiziatori che vengono rigenerati legati al culto di Sant’Antonio Abate.

Un maialino, già dai mesi precedenti, narra la tradizione, veniva allevato dall’intero villaggio. Quando, lasciato libero, entrava nelle case contadine, era segno di buon auspicio, nella sua trasfigurazione appunto. “Era come se entrasse Sant’Antonio Abate e benediceva la casa” raccontano, anche per la protezione degli animali, la sera veniva ospitato in una delle tante stalle del paese. Il giorno della vigilia dedicato al santo, il maiale veniva macellato. Le zampe, “gli zampitti”, venivano messi all’asta e chi si aggiudicava il palio, il 17 gennaio appunto, preparava le carni, offerte poi alla comunità con la minestra di farro, la “quagliata”, le rape rosse, i tagliolini ammassati con le uova e i fagioli. Gli animali, nella ricorrenza, venivano ricoperti con nastri colorati, ghirlande, e benedetti fuori le chiese. Gli uomini portavano cesoie e tenaglie: incrociate, simbolicamente, preservavano gli animali. Ai cavalli e ai buoi la peluria veniva tagliata a forma di croce sulla groppa con una forbice: proteggerli, in quel rapporto privilegiato, secondo la tradizione. Gli animali domestici invece entravano in chiesa e venivano benedetti, da lui, santo anacoreta, guaritore e soccorritore della cultura contadina, e della sua forza lavoro, rappresentata, appunto, dagli animali e dalle immagini votive poste sopra le credenze e i comò, e nelle stalle vicino agli animali, illuminati appena dalle virtù di un altro simbolo, fondamentale per loro: la luna piena del 17 gennaio.
Il comitato del paese, un mese prima, iniziava la questua, la raccolta di prodotti alimentari per la chiesa e i poveri. In giro per i paesi i gruppi di “sacerdoti laici” venivano annunciati da alcune strofe: “Siam venuti a ricordare che domani è Sant’Antonio. Se avete le pecorelle, cresceranno forti e belle. Se avete cavalli e buoi, Sant’Antonio ve li consola. Non ci state a trattenere, ad altre case dobbiamo andare, Sant’Antonio a ricordare. Son finite le orazioni, c’è qualcosa signora padrona?”. E molti saranno i fuochi, i falò che si alzeranno questo 17 gennaio in varie località della Conca aquilana, fino alla Marsica e alla Valle Peligna in una consuetudine antica e lontana nel tempo che nelle varie forme locali di solennizzazione dell’evento legato al santo tutore di un mondo rurale, dismesso, ritrova un linguaggio comune: i fuochi, un “itinerario” arcano, di memoria, un passato che non ha più le parole per ricordare, che risale, dalle viscere di un’umanità il tempo, lontanissimo, quando il fuoco si prestava e mai veniva spento. Da quel fuoco qualcuno, forse, trarrà ancora oggi le ceneri per conservarle come reliquie, per avere ancora memoria di una condivisione, solidarietà, ma ancora per poco, prima che tutto questo venga ingoiato da un globalismo unilaterale, senza identità, passioni e quasi niente da raccontare, nella notte dei fuochi antichi. Questa che verrà.

La scheda.

“Tentazioni di Sant’Antonio” di H. Bosc (1453 -1516), il pittore fiammingo che più di tutti ha interpretato, avvicinato, si è spinto il più possibile avanti, per rappresentare l’iconografia del male, inconfessabile, criptata per secoli, dentro la “Passione“, appunto, della vita del santo eremita, Sant’Antonio Abate l’asceta del deserto, il Signore degli animali e dell’ultima difesa contro le creature inviate dal demonio tentatore. Dall’herpes zoster, o “Fuoco di Sant’Antonio”, affezione che colpisce le cellule nervose con fenomeni epidermici lungo il decorso dei nervi (diventano le città che bruciano), agli ospedali (la tolleranza e la sconfitta del male); dagli animali, in particolare il maiale (rappresenta le campagne, il mondo rurale medioevale, il girovagare alla ricerca di un ricovero, la solidarietà) ai falò (le cataste in fiamme riuniscono le comunità, l’aggregano intorno ai comuni ideali). Sant’Antonio Abate è il custode e protettore taumaturgico, che così cala le sue competenze, mostra il suo patronato, stende i suoi segni profetici soprattutto nel mondo rurale antico, attento e ansioso di cicliche rassicurazioni, e infine passa all’offensiva arginando gli assalti infernali con i fuochi che si alzeranno nella notte del 17 gennaio.

Le immagini

La lavorazione delle carni del maiale ( immagini archivio anno 1990 ca.), immagini d’epoca (Archivio privato Domenico Puglielli, Pescara Tv web, Pro loco Filiano, Mentifuga, Altosannio magazine, Ravenna e dintorni), la sfilata di Sant’Antonio Abate, Chiamacittà, stampa - portatore di maiale- collezione Genus bononiae, miniatura – festival, miniatura – edizioni pubblicità Italia, Storie enogastronomiche, miniatura – taccuini storici, Barent Fabritius 1624 – 1673, Terracotta policroma – Sant’Antonio Abate – Munda L’Aquila, “Tentazioni di Sant’Antonio” Trittico di H. Bosc (1453 -1516). Anno 1503 Lisbona, Museo Naciona ( Finestra sull'arte), Libro d’Ore di Catherine de Cleves, 1440 circa.( Festival del Medioevo).


 



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