Il Gran Sasso e le sue terre: paesaggio Patrimonio dell’Umanità

- Testo e fotografia di Vincenzo Battista -
 


Bisogna partire dal paesaggio, come nozione di Bene culturale, con tutti i suoi variegati, molteplici, sfumati inventari di cose e forme (e molti ancora in corso di classificazione) che sono state "alzate", appunto, sul territorio (dalle capanne a tholòs in pietra ai borghi; dagli edifici di culto tratturali, per esempio, che sembrano dadi gettati al suolo; agli oggetti d’uso della cultura materiale) poiché, lì, sul vasto territorio del Gran Sasso, nella percezione dello spazio, hanno trovato ruolo e funzione le forme costruite dagli uomini, e valore nei parametri di misurazione delle istanze geopolitiche di controllo: una scenografia, diffusa, così ci appaiono gli edifici di culto nelle aree di montagna, i centro storici o le fortificazioni d'altura, ma con una ragione, una motivazione, che non appartiene più, magari, alla nostra contemporaneità ma si pone ben oltre, in quanto queste strutture hanno "viaggiato" nel tempo e continueranno a farlo. Molte sono state alienate e modificate, alcune hanno subito devastazioni e scempi non solo in tempi lontani, ma quelle originali giunte fino a noi hanno la stessa importanza delle " Terre" d’altura appenniniche che le circondano, pressoché impossibile tenerle concettualmente separate.

Queste, che caratterizzano lo “sfondo”, assegnano il ruolo di testimoni ultimi ai siti materiali dell'abitare, dei culti, di difesa e militari, delle opere idrauliche e della viabilità, patrimonio non solo per raccontare l'affascinante e a volte misteriosa storia dell'ambiente costruito dei Beni culturali del Gran Sasso Occidentale, ma anche per decodificare un paesaggio che si mimetizza, si mescola alle case, a volte prova a celare i suoi segreti, ma dopo averlo letto rivela le sue motivazioni inconsuete, estreme a volte, apparentemente incomprensibili. In cammino, per conoscere. Distante da un sentiero, che in verticale sale ( per circa 1000 metri) tra Pizzo Camarda e Pizzo Cefalone (Gran Sasso d'Italia), il toponimo delle Malecoste vuole indicare una concentrazione di scaglie e calcare stratigrafico che esce dal ventre della montagna come creste di dinosauro, racconto antico, forse, dell'inquietudine della montagna sugli uomini, a quella quota, circa 2000 metri.


L'inquietudine delle Malecoste, dunque, ma anche di qualcuno poiché le chiamò così per uso e consuetudine, per rabbia e per speranza, tanto che ha "poggiato", autocostruito (come se fosse una conchiglia) su un terrazzo strapiombante di rocce, un sistema di stazzo fortificato, in pietra, per l'alpeggio, estremo, con le mura a secco che guarda la valle del Vasto per proteggersi dagli attacchi dei lupi: le capanne a thòlos dirute con l'architrave lavorato; i camminamenti, il rifugio dei pastori (dentro un’ansa di roccia scavata dalle acque, armata davanti, dalle pietre, alla base della grande parete di falesia che protegge alle spalle tutto l’impianto dello stazzo), i recinti interni montati pietra su pietra: un diagramma d'uso dello spazio – territorio di una economia in definitiva, che rispondeva a tutte le motivazioni di difesa, sistemi di mobilità della mandria, percorsi poi che valicavano la montagna ed entravano anche nel Chiarino, e conoscenza della natura nell'ambiente severo dello spazio montano, ma fondante per i gruppi sociali che lo hanno determinato.

Da lì, la spiegazione dell'insediamento, la conoscenza della marginalità di una economia pastorale ma che si fa, invece, alto primato di soluzioni culturali nell’utilizzo delle pietre. "Beni", della nostra storia locale, identitaria ancora da scrivere, risorse (Il Parco Nazionale del Gran Sasso dell'insediamento delle Malecoste potrebbe farne un background culturale di un patrimonio diffuso), simboli “poveri” della transumanza verticale del più vasto "Paesaggio culturale" e, come non capirlo, se ce ne fosse ancora bisogno: un'opportunità, certo minore, insieme a tante e tante altre reclamate da una minoranza di persone ( in un lungo elenco), ma che tiene in vita i paesi del Gran Sasso, e riflette il vero presidio di un’unità di sistemi territoriali che costituiscono l'insieme dei Beni ambientali e perché no, proviamo a pensare, Patrimonio dell’Umanità.

Linea, in definitiva, delle specificità nei contesti locali, i nostri, esclusivi, per misurarci in una competitività territoriale sempre più invocata, di cui continuiamo a chiederne il bisogno, da queste parti. Linea tradita e mortificata poiché stenta a connettersi, come accade viceversa in altre luoghi del Paese, con la memoria e gli investimenti tecnologici di sviluppo che sono quest’ultimi purtroppo il vulnus del Gran Sasso. Quella linea, è dunque, il Gran Sasso: ”urla nel silenzio” sì, proprio così, delle sue genti, confinate e relegate come in una sorta di riserva indiana, con il loro isolamento indotto ma, come detto, custodi di un altissimo profilo culturale, visitata da tanti “giapponesi” che con le bandierine scattano foto e si godono il “pittoresco…”.


Le immagini
La falesia dello stazzo delle Malecoste, Pizzo Camarda, Campo Imperatore, pendici monte Jenca, Ofena, Carapelle Calvisio, lavorazione del formaggio a Campo Imperatore, Rocca Calascio, i bastoni dei pastori, la tosatura, Castel del Monte, le cicerchie al setaccio, Barisciano, Calascio e Rocca Calascio, la semina delle patate a Barisciano.



 



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