Da qualche giorno è in libreria Gli 80 di Camporammaglia, l’opera prima di Valerio Valentini

Da qualche giorno è in libreria Gli 80 di Camporammaglia, l’opera prima di Valerio Valentini edita da Laterza. Dovendolo definire in due parole, si potrebbe dire che è un romanzo corale, un intrico di storie dense di coraggio e afflizione, un racconto che con impeto realista testimonia di un modo di stare al mondo che sembra già appartenere a un’epoca superata. Protagonista, in fatti, è proprio Camporammaglia, un paese come ce ne sono tanti nell’entroterra abruzzese, fagocitato dagli Appennini a 800 metri d’altezza, a mezz’ora di macchina dal primo supermercato. Ci vivono, in una orgogliosa e disperata indifferenza rispetto al resto dell’universo, più o meno ottanta persone, tutte con gli stessi due o tre cognomi, tutte aggrappate a un’apatia che le protegge e le condanna.

Ebbene, sì: Marinelli, De Marco e Michelini sono effettivamente gli unici tre cognomi presenti a Camporammaglia. E anzi: a voler essere rigorosi, già i De Marco sono un’intromissione piuttosto recente, di quando – una trentina d’anni fa – un paio di piacenti figliole di Camporammaglia si andarono a far scegliere, una appresso all’altra, da due ragazzotti, tra loro cugini, di Foce di Sassa. Liquidati dunque i nuovi arrivati, non restano che Michelini e Marinelli. Che tra loro da sempre si parlano, si sopportano, si sposano, ma che pure restano divisi da una indefinibile diffidenza reciproca, un sospetto animalesco che ciascun camporammagliese inconsciamente metabolizza negli anni dell’infanzia.

E però l’idillio della comunità isolata, refrattaria alle leggi del tempo e della modernità, è solo apparente, l’inviolabilità delle leggi dei padri è inevitabile che crolli quando la Storia finalmente irrompe, anche a Camporammaglia. Il terremoto, nella primavera del 2009, arriva a sconvolgere quel garbuglio di relazioni che da sempre tiene uniti gli abitanti del posto. E così, com’è già avvenuto in passato di fronte a eventi più o meno epocali – poco importa che si trattasse del prolungamento della statale, della costruzione della piazza o della comparsa della prima televisione – Camporammaglia muta nella sua eterna fissità: continua ad arrendersi, e a resistere, come rimanendo sull’orlo di una capitolazione che però non avviene mai del tutto.

Per la prima volta, Gli 80 di Camporammaglia è stato presentato a Roma, all’Auditorium Parco della Musica durante la fiera Libri Come, domenica 18 marzo. A discutere con l’autore, davanti a una sala gremita, c’erano Claudio Giunta – professore di Lettere all’Università di Trento e autore, tra l’altro, di un recente manuale di scrittura (Come non scrivere) – e Franco Arminio, uno degli scrittori che più di tutti, in questi anni si è dedicato al tema dei paesi dell’Italia rurale. È stata l’occasione per raccontare la genesi del romanzo, che vede nelle Parrocchie di Regalpetra di Sciascia uno dei suoi modelli di riferimento, e per mettere in luce come il racconto, pur sullo sfondo dei mesi drammatici del terremoto del 2009, presenti molti momenti di divertita e coinvolgente analisi sui tic e le manie tipiche dell’entroterra abruzzese. «Quella che Valentini fotografa così bene nel suo libro d’esordio – ha spiegato Arminio – è un’Italia solo apparente marginale: realtà come quelle di Camporammaglia costituiscono la base fondante, la spina dorsale del nostro Paese».

Qui di seguito, vi offriamo un breve estratto del libro, per gentile concessione della casa editrice Laterza.

Per almeno dieci anni dalla sua prima affermazione come bene di massa, a Camporammaglia la televisione – ma si tratta solo di un esempio tra i tanti possibili, e forse del meno originale di tutti – è rimasta un prodigio spaventoso, avvicinabile solo per il tramite di Francuccio: il quale un giorno imprecisato dell’autunno del ’67 posizionò quello scatolone grigio di cui tanto a lungo si era favoleggiato sul tavolo centrale della sua cantina, in modo che anche dalla strada fosse possibile vedere, o quantomeno intravedere tra il garbuglio delle teste curiose, o anche solo ascoltare: insomma partecipare tutti i giovedì a quell’evento meraviglioso che erano le puntate di Rischiatutto, quando ogni camporammagliese, finita la cena, prendeva la sua sedia e cercava un posto tra le prime file davanti al portone d’ingresso di quella sottospecie d’osteria che stava proprio al centro del paese vecchio. Perché il televisore cominciasse a comparire nelle cucine della case private – all’inizio grazie soprattutto ad acquisti fatti in società tra fratelli e cugini, che per la prima volta da quando erano ragazzini si ritrovavano ora a mangiare tutti insieme per poter guardare le tribune elettorali o gli incontri di boxe di Arcari e Traversaro – ci volle almeno la metà degli anni Settanta. Qualcuno, addirittura, ricorda di essersi deciso al grande passo giusto in tempo per seguire l’epopea spagnola della nazionale di Bearzot.

Ma insomma tutto ciò che, specialmente attraverso la mediazione del tubo catodico, ha reso milioni di italiani insoddisfatti delle loro vite, a Camporammaglia è arrivato almeno un paio di decenni dopo, presentandosi già nella sua versione alterata, commercialmente più raffinata e più cafona. Non il sorriso paziente del maestro Manzi, quella sua rassicurante robustezza, ma l’ineffabile decoro di Enrica Bonaccorti; la composta spavalderia di Corrado, sì, ma accanto l’inappuntabilmente spregiudicato candore di Ambra. E siccome per metabolizzare non c’era più tempo, a Camporammaglia ci si è affrettati a proiettare sulle proprie figure, sui propri atteggiamenti quotidiani, affanni e compulsioni solo confusamente – se pure – vissuti nel profondo. Malesseri esibiti per senso del dovere, imparati a memoria come i testi delle prime canzoni inglesi ascoltate dalle cuffie dei walkman.

È stato in quel giro d’anni, insomma, che l’avere un figlio che presentasse al paese una fidanzata di Avezzano o di Rieti, ma pure di Cansatessa o di Aragno, è diventato una fortuna da ostentare: ché quasi sempre le madri dei giovani camporammagliesi lodavano come somme virtù tutte le abitudini della famiglia della promessa sposa che ne attestassero l’alterità dalle logiche della vita rurale. E allora ecco le prime gare a chi faceva il ricevimento di matrimonio più sfarzoso, le bomboniere più ricercate, la crociera più lunga per la luna di miele, col solo obiettivo di testimoniare l’affrancamento dei figli dai retaggi della miseria sopportata dai padri, di quando dopo il bacio davanti all’altare ci si riuniva in casa coi soli parenti stretti dello sposo e i testimoni e si ammazzava il pollo migliore, o di quando – ma qui già arriviamo ai tempi del primo scialo – si partiva per viaggi di nozze di una settimana, in macchina o in treno verso Venezia o Firenze, col quadernetto in tasca dove annotare le spese della vacanza per poi giustificarle ai genitori al ritorno.

È qui che s’è rotto il rapporto tra essenziale e capriccio. Da sempre, a Camporammaglia come altrove, l’analisi dell’apparenza più immediata di una persona è stata un indice affidabile del suo grado di ricchezza. Prima che fossero le etichette in bella mostra a fornire indizi sin troppo scontati, si indovinava a prima vista – l’occhio allenato più dalla privazione e dal desiderio che dalla consuetudine – il pregio della tessitura della giacca, la morbidezza del cuoio delle scarpe: e a quel punto ti bastava estendere quel livello di benessere a tutti gli ambiti della vita di quella persona. Un’equazione a suo modo banale, per misurare la distanza tra te e chi ti stava di fronte. È stato grosso modo così dappertutto, e dappertutto questo sistema di misurazione a un certo punto si è rivelato fallace, perché il definitivo trionfo dell’apparenza ha di colpo falsato il rapporto che esisteva tra le variabili.

Ecco, a Camporammaglia questo cortocircuito deve essere avvenuto proprio negli anni di cui vi parlo, appena prima del mio approdo alla fase della ragione: altrimenti non si spiegherebbe il ricordo, così vivido in me e nei miei coetanei, di quel biasimo tanto rancoroso col quale i nostri nonni inveivano contro lo sfoggio di automobili e vestiti, contro la scellerata, narcisistica malaccortezza di chi al Circolo passava in rassegna tutti i ristoranti più raffinati della costa adriatica, trovandoli tutti manchevoli di quel non so che, e poi però abbassava la testa per non farsi riconoscere quando lo si incontrava con le buste piene all’uscita del Lidl a Quaianni.

L’orgoglio montanaro della rinuncia – quella rudezza, quell’austerità tanto a lungo rivendicate dalla gente di questi paesini come un proprio nobile modo di stare al mondo – al momento della prova del confronto ravvicinato col dolce superfluo della modernità, semplicemente non ha retto. Quegli agi così vituperati, divenuti appena meno irraggiungibili, appena più alla portata delle tasche dei camporammagliesi e dei loro simili, si sono rivelati delle tentazioni irresistibili. E siccome troppo a lungo era durata l’astinenza, l’illusione dell’idillio protratta oltre ogni ragionevole limite, la rottura era inevitabile che fosse, come in effetti è stata, fragorosa.
L’insensatezza di certe privazioni, la falsità della retorica che le giustificava, brutalmente è stata messa a nudo: ché non di consapevole scelta di vita, non di frugalità ricercata, di un privilegio segreto e incompreso, si trattava, ma di banale impossibilità d’acquisto. Cominciata la svendita, inaugurata la festa, nessuno qui ha voluto neppure correre il rischio di rimanere attardato. E anzi con più foga, con più ansia di riscatto, chi ha sentito così concreto il timore di rimanere tagliato fuori dalla grande baldoria si è accalcato ai cancelli d’entrata.


 



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