LE FIAMME DI VIAREGGIO DOPO LE MACERIE DELL'AQUILA, ''9 ANNI DI DOLORE CONDIVISO''

 

- di Francesco Di Giandomenico -

 

C’è chi, durante il tragitto della vita, vorrebbe viaggiare sicuro sul treno. E c’è anche chi, mentre viaggia sicuro, desidera la casa dei suoi sogni per sostarvi ogni tanto senza dover pensare che quella stessa casa possa crollargli addosso.

Poi, però, sul calendario del tempo si leggono due date scritte col sangue: 6 aprile, giorno del terremoto dell’Aquila e 29 giugno, giorno dell’incidente ferroviario di Viareggio.

Nove anni fa. Stesso anno, il 2009, uno di quelli da classificare come horribilis, caratterizzato da stragi di cui s’incolpa, inizialmente, soltanto la natura.

Eppure sia dalle macerie del sisma che dalle fiamme terribili divampate dopo il deragliamento del treno merci 50325 Trecate-Gricignano e la fuoriuscita di gas da una cisterna contenente gpl perforatasi nell'urto, che ‘abbracciarono’ con violenza e senza alcuna pietà la stazione di Viareggio e le aree circostanti, provocando 32 morti, c’è chi è riuscito ad emergere.

E, anche se dopo aver perso tutto e tutti, spera ancora nella giustizia: è il caso di Marco Piagentini, sopravvissuto al deragliamento ferroviario del 29 giugno, che ha visto la morte con i propri occhi, come tanti qui all’Aquila che da sotto le macerie gridavano aiuto per evitare una fine atroce.

Marco, 50 anni, ustioni sul 98 per cento del corpo, ha perso una moglie e due figli, Stefania, Lorenzo e Luca, ma ha ancora al suo fianco Leonardo, oggi quasi maggiorenne.

Nonostante tutto, comunque, condivide il suo dolore con il dolore degli aquilani.

E a distanza di nove anni dalla “sua” tragedia e da quella dell’Aquila, sarà presente con la sua associazione ‘Il mondo che vorrei’ alla commemorazione del 6 aprile con lo stesso immutato auspicio: non ci saranno più treni che deragliano e case che crollano soltanto se si crederà in qualcosa di più grande, le cui colonne portanti sono l’onestà e l’esemplarità.

Il 29 giugno 2009, a pochi mesi di distanza dal sisma del 2009 purtroppo hai visto il mondo crollarti addosso. Com’è cambiata la tua vita da quel terribile evento?

Completamente. L’ho dovuta ricostruire, per me è stata prima di tutto una rinascita fisica. Sono stato toccato dalle fiamme, ho passato sei mesi in ospedale e quasi quattro anni per la riabilitazione. Purtroppo dalle ustioni non si guarisce e sono costretto a passare l’estate in casa: il sole mi è nemico, sono agli ‘arresti domiciliari’. Ti assicuro che non è semplice stare in casa dalle sette di mattina alle sette di sera. Sono cambiate le abitudini, ma soprattutto il fatto che mi ha segnato di più è stata la perdita di due dei miei figli. Non è nella natura delle cose, un padre dovrebbe morire prima dei suoi figli e invece, quando avviene il contrario, c’è qualcosa che non torna. Ciò che fa più male, però, è sapere che questo male è causato da altri esseri umani.

Il numero di morti della strage di Viareggio è stato minore rispetto a quello del 6 aprile, 32 ‘contro’ 309, ma questa, si sa, è una battaglia tra vivi. Per i vincitori, i morti sono morti; per chi è sopravvissuto a queste stragi, in ogni caso, si legge ancora negli occhi la parola giustizia. Come procede la parte giudiziaria per la vicenda di Viareggio?

Siamo ancora al primo grado di giudizio. Abbiamo saputo giorni fa che tutta quella montagna di carta che compone i faldoni della sentenza -  oltre 1.300 pagine - per quello che ci riguarda rappresenta un processo altamente tecnico. Hanno scavato nel ‘sistema’ ferrovie e quindi hanno parlato periti, ingegneri, sono intervenute anche l’università di Roma e il Politecnico di Milano, insieme ai massimi esperti europei del settore. Ed hanno constatato in che stato versano le ferrovie italiane. Purtroppo il quadro che è emerso è a dir poco sconcertante. Stiamo attendendo la seconda fase dell’appello che, per quanto ci riguarda, si terrà a Firenze, poi attenderemo la Cassazione. (Il processo di primo grado ha portato alla condanna di 23 imputati, tra cui Mauro Moretti e Michele Mario Elia, rispettivamente ex ad di Ferrovie dello Stato ma ritenuto responsabile per il periodo in cui era ad di Rfi e amministratore delegato della Rete ferroviaria all'epoca della strage. Per il Tribunale di Lucca "il disastro non fu un fatto imprevedibile, ndr).

Per evitare di dare la colpa al destino?

Le colpe sono talmente evidenti che neanche i poteri forti hanno potuto scalfire la macchina della giustizia. Ciò che fa più male è sapere che noi apriremo il processo d’appello con due reati già prescritti, ovvero lesione colposa e incendio colposo, come se i miei figli fossero morti d’infarto, come se le mie ferite fossero causate dal sole. Ciononostante, attendiamo il processo con la massima fiducia nei confronti della magistratura. Sicuramente questo processo farà bene a tutti gli italiani. Però ci tengo a dire che la nostra vita è cambiata e non tornerà indietro neppure se dovessero essere condannate delle persone. Visto però che quella cisterna non è volata da sola, ma ci sono delle cause e delle responsabilità ben precise, un processo degno è il minimo che possiamo chiedere a questo Stato. Purtroppo le stragi continuano ad accadere perché dopo L’Aquila c’è stata Amatrice, dopo Viareggio c’è stato Pioltello, le prove, purtroppo, del fatto che in Italia c’è un modo di comportarsi davanti alla ‘cosa pubblica’: si pensa al profitto e non alle persone.

L’Italia del domani quindi sembra essere un grande punto interrogativo.

Certamente sì. Il filo conduttore che lega noi a L’Aquila, ad esempio, è sempre quello: che si tratti di aziende pubbliche o private, si pensa al profitto e non alla vita umana, si fanno i ponti con calcoli strutturali fatiscenti, oppure potenzialmente ammazzano i nostri figli nelle scuole che dovrebbero essere alcuni tra i luoghi più sicuri. Un esempio lampante all’Aquila è proprio la Casa dello studente che, nel panorama degli immobili aquilani, sarebbe dovuto essere uno dei luoghi con maggiore garanzia di sicurezza e invece sappiamo tutti come ha reagito. Perché succede questo? Perché ciò che è preponderante per le nostre aziende è il proprio profitto e il proprio interesse. Questa è la cosa più difficile da digerire e da far capire al mondo che ci circonda.

Intanto L’Aquila e Viareggio oggi sono più che mai ‘sorelle’: gli aquilani scandiranno i loro passi con i 309 rintocchi delle loro campane e, anche a Viareggio, dopo nove anni, suoneranno in silenzio i 32 rintocchi: quanto è forte, secondo te, il legame con il capoluogo d’Abruzzo?

C’è indubbiamente un filo conduttore che con L’Aquila è fortissimo. Con i comitati aquilani legati al 6 aprile la solidarietà è molto sentita. Abbiamo partecipato assiduamente alla commemorazione del 6 aprile e ci saremo anche quest’anno. È il modo più semplice per essere unite perché, come si dice anche qui da noi, ‘le parole le porta via il vento’. Un abbraccio vale mille parole quando qualcuno, ad esempio, perde il proprio caro. È implicito che ognuno di noi faccia un sacrificio per venire da voi in Abruzzo perché c’è chi lavora, chi lascia la famiglia, ma comunque lo si fa volentieri perché è un modo per condividere una sofferenza che purtroppo ci accomuna.

Vale la pena avere compassione l’uno per l’altro, soprattutto in questi casi.

Questa scelta di condividere il dolore viene fatta soprattutto per dare un messaggio forte: non si può delegare agli altri il nostro territorio. Basta di pensare che, delegando gli altri, ci si esonera dalle responsabilità. Se la comunità comincia a prendere coscienza di quanto accaduto, si renderà conto che è necessario sorvegliare l’operato altrui e la smetteremo di dire ‘andrà tutto ok, c’è chi ci pensa per me’. In futuro le stragi capiteranno ancora, se lasciamo amministrare la ‘cosa pubblica’ in questo modo.

Il profitto sopra ogni cosa, come dicevi poco fa.

ll messaggio che portiamo all’Aquila e che torna indietro quando L’Aquila viene a Viareggio è sempre lo stesso: quando si mette il profitto al posto delle persone, non c’è speranza di ripartire e contribuire al bene della società. È uno scambio alla pari. Il dolore non è dato solo dalla perdita, ma dalla situazione che ti fanno vivere. Noi tutti, L’Aquila e Viareggio, abbiamo vissuto una guerra e di fronte a un terremoto o a un deragliamento ci si trova disarmati.

Tuttora all’Aquila, nonostante pezzi di ricostruzione post-sisma, sembra di vivere un dopo guerra perpetuo.

Sono stato in città poco dopo il terremoto e devo ammettere che aveva proprio un aspetto da ‘città fantasma’, mi sembrava di vedere un film di Sergio Leone, quando i pistoleri si prendevano a pistolettate in quei luoghi disabitati. È un peccato che in quelle case, in quelle vie, siano morte delle persone. Ricostruire i muri è semplice, ma nessun morto è mai tornato indietro. Devo dire però che la ricostruzione sta accelerando e spero che L’Aquila tornerà ad essere la città bella di un tempo.

Tu attualmente sei il presidente della onlus Il Mondo che vorrei: quale mondo vorresti oggi?

Questa è proprio una bella domanda. Probabilmente ognuno di noi ha la risposta. Io farei un’altra domanda, ancora più importante: come posso impegnarmi affinché quel mondo sia migliore? Non tanto per me, quanto per mio figlio, ad esempio, che ha 16 anni e per tutti i giovani che vivranno il futuro prossimo. Io non voglio immaginare un mondo migliore, voglio semplicemente cambiarlo in meglio, da cittadino comune, senza alcuna colorazione politica. Voglio educare mio figlio non tanto a guardare il proprio orticello, ma ad essere realmente onesto con tutti e dedito al prossimo. Vorrei essere un padre esemplare. Il mondo che vorrei è proprio questo: vedere le persone decise attivamente a cambiare quel mondo, non solo a pensare il cambiamento.

In che modo può avvenire questo cambiamento?

Quando ci presentiamo nelle scuole, come associazione, la prima cosa che diciamo è questa: io non posso cambiare gli altri, ma posso cambiare me stesso dando prima di tutto l’esempio. Posso limitarmi a fare questo. Non posso pretendere che cambi il mondo senza che io cambi per primo. Se aspettiamo che il mondo cambi da solo, non cambierà mai nulla. Non ledere gli altri, la loro salute, rispettando principalmente il bene più prezioso che è la vita: questo significa cambiare. Più giro il mondo, però, più mi rendo conto che il mondo che ci hanno lasciato è veramente mostruoso. Questo a me fa molto male, perché mi domando quale eredità daremo alla società che verrà. Soprattutto nel mondo del lavoro.

Anche lo Stato, a questo punto, dovrebbe dare l’esempio.

Difficile da credere. Mi azzarderei a dire che in quel momento terribile non avremmo voluto avere tanto lo Stato dalla nostra parte, quanto vedere lo Stato assumersi le proprie responsabilità per quanto riguarda l’argomento ‘ferrovie’. Il fatto più grave è - come si legge nei faldoni della sentenza - che le ferrovie italiane non hanno il documento di valutazione del rischio. Quindi vuol dire che se tu apri un’attività e non hai a disposizione tale documentazione, ti mettono i sigilli.

Non è quindi un problema soltanto di Viareggio. Tutta l’Italia sembra essere a rischio.

Assolutamente sì. Le ferrovie continuano a lavorare indisturbate e continuano a trasportare merce pericolosa per tutta l'Italia con la stessa modalità del 2009. Il ministro dei Trasporti Graziano Delrio aveva a disposizione un malloppo di carte relativo alle ferrovie italiane. Bastava semplicemente prenderlo, leggerlo e gestire la situazione. Delrio non solo ha fatto orecchie da mercante, ma ha anche detto che bisognava aspettare il terzo grado di giudizio.

E intanto accade il deragliamento di Pioltello.

Perciò mi domando: bisogna aspettare il terzo grado di giudizio per cominciare a guardare cosa non funziona alle ferrovie? Io non metto in dubbio che gli imputati abbiano la presunzione di innocenza fino al terzo grado, anzi sono d’accordo che sia così, deve essere così, ma nel frattempo, cosa succede? Le Ferrovie dello Stato hanno tuttora delle mancanze che potranno in futuro essere la causa della morte di altre persone.

Prendono tempo, secondo te?

Prendono tempo, ma questo credo sia successo anche all’Aquila: hanno preso tempo, come se quella notte non fosse accaduto nulla. La cosa più scandalosa è che quella notte i genitori si sono crogiolati del fatto che un figlio abbia detto loro: ‘Tranquilli, mi hanno assicurato che la casa è sicura’ e poi gli è crollata addosso! Intanto, però, i responsabili prendono tempo. Così non hanno soltanto ucciso quel figlio, ma un’intera generazione di figli che studiava per cambiare il modo di costruire il nostro Paese. Dove andremo a finire? Io vorrei ad esempio che avessimo meno smartphone e più scuole sicure, viabilità sicura, vivere insomma con serenità.

Te la senti di lanciare un appello alle istituzioni?

Al momento non abbiamo istituzioni, mi verrebbe da dire. Nonostante tutto, come mio figlio guarda me, io guardo alle istituzioni. Dovrebbero dare l’esempio come un padre. Quando i nostri giovani vedono un politico, che può essere un semplice sindaco di una città o un ministro della Repubblica, usare i soldi pubblici per i propri scopi, o che si comporta in maniera indegna, è difficile fargli capire che amministrare la ‘cosa pubblica’ è un fatto serio. Quale visione si dà di questo paese? Il nostro è un Paese allo sbando che vede nei delinquenti degli eroi. Perciò io vorrei che le istituzioni mettessero al centro non i numeri, ma le persone. E che fossero d’esempio. Sempre. Fino a quel momento, non ci sarà speranza per l’Italia.

 


 



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