UNA STORIA DI BRIGANTI AD ASSERGI (e qualche puntualizzazione...)

- di Giuseppe Lalli -    

 

 

  Il brigantaggio meridionale, inquietante fenomeno che seguì all'unità d'Italia, interessò anche l'Abruzzo. L'Abruzzo, a detta di qualche studioso, è forse la regione in cui le due componenti del fenomeno, quella sociale intesa  come espressione di rivolta contro un certo ordine costituito, e quella politica, vista come rivendicazione legittimista da parte della reazione borbonica, che vi si agganciò, interferiscono nella maniera più stretta. Sono molte le cronache dei fatti di brigantaggio e  degli strascichi giudiziari che ne seguirono che riguardano la nostra regione. Esse coprono un periodo che va dai mesi successivi alla dichiarazione dello stato unitario nella penisola italiana ( 17 marzo 1861 )  al 1867.
   Una di queste vicende, tra le meno note, il 9 settembre del 1861, interessò la popolazione di Assergi, antico borgo nel versante meridionale del massiccio del Gran Sasso. Dei fatti assergesi si interessò la giustizia della vicina Aquila già a partire dal 16 dello stesso mese con una prima relazione in cui si ipotizzava il reato di “Banda armata che ha per oggetto di cangiare e distruggere la forma del Governo e di incitare i regnicoli e gli abitanti ad armarsi contro i poteri dello Stato, e di delinquere contro le persone, e le proprietà “ , accusa che alla fine del processo fu fortemente ridimensionata dallo stesso Pubblico Ministero, che derubricò l'accaduto a semplice episodio di delinquenza comune.
  Quella che segue è una sintetica cronaca di quei lontani avvenimenti, che rimasero a lungo nella memoria degli assergesi, ad alimentare una vera e propria leggenda.
  Approfittando della circostanza che in quel giorno  del 9 settembre la maggior parte degli abitanti del villaggio, in ottemperanza ad una delibera della pubblica autorità, era impegnata a ripulire un lago - detto di “Pietra Guardia” - a circa due ore di cammino dall'abitato, una banda di briganti proveniente da Pietracamela, composta da una quarantina di persone armate di tutto punto, s'introdusse nel paese entrando per la Porta del Colle, assaltando il quartiere della Guardia Nazionale e sfondandone la porta. Al grido di “Viva Francesco II !!!“ e “Morte ai carbonari !!! “ presero di mira le case dei “possidenti” del paese, come gli furono indicate da tre complici assergesi, tali Eleuterio Faccia, Daniele Massimi e Enrico Gambacurta, quest'ultimo originario della vicina frazione di Filetto. Molti dei danneggiati, oltre ad essere considerati benestanti, secondo il criterio prevalente in quell'epoca tra la povera gente, avevano dato in passato prova di sentimenti liberali e antiborbonici. Tra di essi spiccavano i fratelli Angelo e  Vito Carrozzi. Quest'ultimo era un avvocato che nella sua qualità di sindaco, l'anno prima, aveva promosso in  seno al Consiglio Comunale di Camarda  un indirizzo di saluto a Giuseppe Garibaldi e alla sua impresa. Altro destinatario delle attenzioni brigantesche fu il mugnaio Giocondo Lalli (trisavolo dello scrivente e piccola gloria di famiglia), già fervente liberale, che, salvatosi miracolosamente dai colpi di fucile, corse, in groppa al cavallo, a chiedere rinforzi all'Aquila presso il comando della Guardia Nazionale. Altri personaggi “in vista” del paese, quali Domenico Giacobbe, comandante della locale Guardia Nazionale, Clemente Giusti ( che riuscì poi a sottrarsi )  e Don Emidio Massimi, sacerdote, furono sequestrati, e rilasciati dietro pagamento di denaro o consegna di fucili. La violenza dei banditi si accanì anche contro il vecchio padre guardiano del locale convento dei Frati Minori, costretto anch'egli a consegnare una somma di denaro. Una donna, Enrichetta Carrozzi, sorella di Vito ed Angelo, soprannominata significativamente “ la garibaldina “, si vide costretta a rifugiarsi nelle stanze del convento, mentre ad una ragazza, Elisabetta Massimi (bisnonna dello scrivente), sottrassero gli orecchini e le strapparono “una ciappa d'oro” che portava al collo dicendole con scherno : “Te li rifà Giuseppe Garibaldi“.
   Alla fine del successivo mese di ottobre, il comandante di un reggimento dell'esercito regolare distaccato ad Assergi dopo il terribile episodio, essendosi sparsa la voce che una banda di briganti stazionava nella vicina montagna, e avvisato della presenza di un uomo sospetto nella taverna di Antonio Massimi, nei pressi di quella Porta del Colle da dove i malviventi erano entrati la prima volta, interrogò l'uomo e, trovatolo in forti contraddizioni, lo costrinse a confessare che faceva parte della banda che qualche settimana prima aveva messo a soqquadro il paese. Rivelò che si trovava in paese perché era stato mandato in avanscoperta in cerca di viveri da un gruppo di suoi compagni che stazionavano in una vicina località della montagna, manifestando infine l'intenzione di abbandonare la banda. Il comandante ordinò una battuta, ma i banditi, accortisi della truppa, fecero in tempo a fuggire. L'uomo della locanda, sottoposto a nuovo interrogatorio, si abbandonò a rivelazioni assai compromettenti, facendo chiaramente intendere che i briganti non avrebbero preso di mira il paese di Assergi se non fossero stati guidati da una persona del paese stesso (risultò poi trattarsi di Eleuterio Faccia) che, recatosi la mattina di quel 9 settembre con tre compagni a Pietracamela per comprare dell'orzo, aveva a lungo conversato con il capo della banda, sua vecchia conoscenza, e con lui concordato  le modalità dell'azione criminosa. Il brigante pentito fu quindi arrestato e condotto all'Aquila per essere consegnato all'autorità militare competente. Senonché, secondo quanto asserirono i soldati che lo avevano avuto in consegna, avendo il bandito tentato la fuga, fu abbattutto da un colpo di fucile, secondo una prassi di esecuzione sommaria che sarà molto praticata nella lotta contro il brigantaggio. Il fatto avveniva in una località tra Assergi e Camarda che da allora fu denominata  “Ju brigand“, a perpetuo ricordo del triste episodio, di cui si parlerà per molto tempo.
   I tre assergesi ritenuti complici dei briganti ebbero pene detentive assai severe. Eleuterio Faccia, ritenuto il maggior responsabile nell'opera di delazione, fu condannato ai lavori forzati a vita. Una menzione a parte merita Enrico Gambacurta. Nato e vissuto a Filetto, vicina frazione dell'allora Comune di Camarda, falegname, aveva sposato una vedova di Assergi, tale Domenica Faccia. Dopo aver scontato la pena, morì tragicamente cadendo da una roccia di Pizzo Cefalone, monte sulle cui propaggini sorge Assergi, mentre, con altri due compagni, era a caccia di aquile. L'episodio fece nascere un adagio destinato a divenire celebre nel borgo : “ Ricuccie Gambacort p' nu pàssar s'ha mort...” . Vita davvero movimentata quella del Gambacurta. Ne ha parlato in un recente articolo apparso su “ Assergi Racconta” Giovanni Altobelli, filettese anche lui, che, riferendosi al suo compaesano, lo definisce “ un po' rivoluzionario“ . Sarebbe interessante discutere di quale rivoluzione si parla e quale grado di consapevolezza politica ci fosse dietro una complicità a fianco di bande che in apparenza si rifacevano ad un'ideologia reazionaria. Giovanni Altobelli riferisce anche che, secondo una diffusa voce tra i vecchi di Filetto, il Gambacurta aveva "parteggiato da giovane a favore dei francesi contro gli spagnoli". C'è da osservare che il contenuto di questa diceria è privo di fondamento dal punto di vista storico. La contrapposizione tra Francesi e Spagnoli, in quel Regno di Napoli di cui i nostri territori costituivano l'estremo lembo settentrionale, ha senso solo se riferita ai secoli precedenti ai fatti di cui si parla. L'unica contrapposizione alla quale un uomo come il Gambacurta, nato nei primi decenni dell'Ottocento, avrebbe potuto partecipare (ed effettivamente, in qualche modo, partecipò) era quella tra i Borbonici, che governarono il Regno di Napoli e delle Due Sicilie fino al 1860, e a cui i briganti si mostrarono legati, e i Piemontesi, che si incaricarono di unificare l'Italia, e a cui andava la simpatia di quei liberali che le bande di briganti e i loro complici prendevano di mira.
   Bisogna poi precisare che non ci fu alcuno scontro tra la popolazione civile e la banda di briganti a “Pietra Guardia”. In quella località gran parte della popolazione si trovava, come riferito  all'inizio dell'articolo, per attendere ai lavori di ripulitura di un lago.
    A Giovanni Altobelli va comunque il merito di aver rispolverato una pagina importante di storia locale che, come egli auspica, le nuove generazioni devono conoscere.
  Comunque si vogliano interpretare queste remote vicende, si tratta pur sempre di episodi che riallacciano le storie di quelle piccole patrie che sono i nostri villaggi alla storia di una patria più grande, che è l'Italia.
  E' intenzione dello scrivente tornare sull'argomento, nel quadro di un' esigenza non meramente cronachistica, e cercando di inquadrare i fatti all'interno di una più ampia visione storico-politica.


<un po'="" rivoluzionario="">




 



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