Dio non gioca a dadi...la risposta di Giacomo Sansoni all'articolo di Giuseppe Lalli

“Dio non gioca a dadi” questo è quanto affermò Einstein quando nel 1913 il fisico danese Niels Bohr propose un modello empirico per tentare di riunire le evidenze attorno alla stabilità dell’a-'atomo di idrogeno e al suo spettro di emissione. In questo modello il moto dell'elettrone nell’a-atomo di idrogeno, e in tutti gli atomi, è consentito solo lungo un insieme discreto di orbite  chiuse stazionarie stabili di tipo circolare od ellittico e, la radiazione elettromagnetica è emessa o assorbita solo quando un elettrone passa da un'orbita più piccola a una più grande. Tutto in misura non variabile ma discreta, appunto di un quantum di energia, quasi fosse una moneta costante e stabile, senza tagli ulteriori: solo multipi. In questo modo Bohr fu in grado di calcolare i livelli energetici degli 'atomi, dimostrando che in questo sistema un elettrone non può assumere qualsiasi valore di energia: l'elettrone può avere solo alcuni precisi e discreti valori quantici energetici, {\displaystyle E_{n}} determinati da un numero intero. Con iperbole potremmo affermare che nei gironi danteschi non sono possibili sottogironi: da un gradino si passa a quello inferiore o superiore, benché la colpa sia infinitesimamente variabile. In fondo è il criterio adottato nelle visioni amministrative: le aliquote dell’IRPEF non salgono in percentuale agli importi, ma a gradoni. Ma questa è l’aberrazione umana. La natura, secondo Einstein non poteva soggiacere a casualità, doveva avere una logica fondante e fondata Autorevolmente. La cosa si complicò quando nel 1924 (anno peraltro della morte del grande Kafka), il fisico francese Louis de Broglie ipotizzò che l'elettrone, oltre ad essere un corpuscolo, ha anche un comportamento ondulatorio che si manifesta in fenomeni di interferenza. È il primo passo verso la meccanica quantistica vera e propria. Dopo nel 1925 Heisenberg formulò la meccanica delle matrici. Nel 1926: Schrödinger elabora la meccanica ondulatoria, che egli stesso dimostra equivalente, dal punto di vista matematico, alla meccanica delle matrici. Nel 1927: Heisenberg formula il principio di indeterminazione che sottintende che di una particella non si può conoscere contemporaneamente la sua energia, la sua posizione e altre grandezze. Con il deprimente corollario, che qualsiasi sperimentazione altera quanto oggetto di sperimentazione. L’uomo corrompe! La conoscenza dell’universo quantico, in cui il tempo non esiste, l’universo quantico, in cui tutto è contemporaneo, dove tutto è un eterno presente, Il futuro, o i futuri sono o saranno schiavi e compiacenti dell’induzione ipnotica dell’osservatore? Così come nelle indagini del mondo quantistico, dove è gratificato lo sperimentatore e viene palesato quello che si vuole e dove lo si vuole rilevare. Non sto adombrando visioni fantascentifiche, o peggio dementi, è quello che la fisica ha già dimostrato. Che, inalterate le condizioni sperimentali, cambiando solo il punto di osservazione dell’occhio umano, anche se in forma mediata dalle protesi scientifiche, il risultato cambia. Come fosse l’uomo a dover essere compiaciuto. Che sia l’uomo a giustificare la direzione della creazione e il suo procedere verso l’infinito, depositario del rovello infinito di doversi creare radici plausibili?  L’uomo schiavo, con la palla al piede, dell’assoggettamento termodinamico, che con il suo procedere altera e sposta imperituramente l’inizio delle colpe o delle liberazioni? Ogni inizio di libertà ci è data con la  schiavitù che perpetuiamo ogni giorno, così come siamo chiamati, ogni giorno, al giornaliero atto della creazione, se non di un mondo, della nostra sempre riedificabile giustificabilità, con le mani sempre sporche di creazione e senza sperare nel riposo al  settimo giorno. Per le ragioni, ancora inconosciute, che reggono il mondo, ogni volta che all’universo quantistico si pongono domande e si cerca di determinare quale direzione esso prenderà, la risposta ci è data dove siamo appostati per averla. Per compiacenza totale? Perché l’uomo giustifica l’universo? O perché le nostre domande hanno risposta circoscritta nella nostra relegata realtà, tra le infinite possibili. Perché siamo inconsapevoli scultori dell’informe limbo quantistico, ed ogni scelta determina l’attribuzione di un universo parallelo, dove è giustificata quella scelta. Ogni volta che s’interroga il destino quantistico, esso è ad un bivio escatologico, e anche noi, siamo inconsapevolmente scissi attribuiti a quell’universo che giustifica le nostre domande, con una rideterminazione retrograda che giustifica gli atti ultimi. Per quel che ci concerne, tutto senza coscienza rivendicabile e senza coscienza di ciò che potevamo essere e non siamo stati, né potremo mai essere. Abitiamo l’universo che ci giustifica e che giustifichiamo, senza coscienza di giustificarlo. Inquinati  sempre, se non quando s’avvertono inquietudini in attribuibili, dalle strategie del destino, che per riscontri empirici illusivi giuriamo essere deterministiche, perché così ci sembrano davvero, che fanno incontrare gli uomini, corrompersi reciprocamente, magnificarsi reciprocamente, assurgere a verità transeunti, ad interrogazioni irrisolvibili, per scontare e dare, quotidianamente conto, della perdita, o dello  scampo del paradiso, tutto perpetuato per l’incontro degli uomini, che è soggetto a volontà rette da probabilità binomiane o  poissoniane. Figli del caso! Non figli di un dio? Figli del caso che gioca a dadi con i dii dell’uomo? Figli del caso che comprende e non giustifica nessun dio? Figli del caso che è padre del caso, senza forma e inizio? Ecco la vertigine leopardiana: e naufragar m’è dolce in questo mare. La perplessità pessoiana: mi duole la testa le idee e il cappello. Che non si abbia un cappello che ci sostanzia e se le intemperie ce lo impongono, che non si abbia tema di mostrare la calvizie che è sotto.


 



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