LA FIERA DI PAGANICA E L’ASINA DI PEPPEVERDE

- di Giuseppe Lalli -

Ci ricorda Raffaele Alloggia, appassionato cultore di storia locale, che la Fiera di Ognissanti a Paganica ha origini assai remote. Se ne trova traccia sul Libro Mastro della Parrocchia di Paganica fin dal 1678. In origine la manifestazione si svolgeva nel solo giorno del 1° novembre e coincideva con altre simili iniziative che avevano luogo nel territorio aquilano, come quella di Capestrano. La grande affluenza di commercianti ed animali, nonché la ingente quantità di prodotti della terra che si vendevano nell’occasione, indussero i responsabili dell’organizzazione a prolungare di ben due giorni l’annuale evento paganichese. La proposta della proroga fu avanzata dal Decurionato (organo municipale che equivale all’attuale Consiglio comunale) e approvata con Regio Decreto del 17 gennaio del 1826. Si stabiliva così – è sempre Alloggia a ricordarlo - “che nella piazza principale si commerciassero varie merci come cuoiami, fagioli, zafferano, mandorle e cereali vari, mentre tutti gli animali rimanevano dislocati nelle varie aie in località Sant’Antonio”.

Nel secolo scorso la fiera si svolgeva nei giorni 31 ottobre e 1° novembre, e riguardava principalmente gli animali (ovini, vacche, cavalli, asini). La manifestazione è ancora viva nel ricordo delle genti della valle del Raiale. La concomitanza della manifestazione con l’inizio della stagione fredda, forniva ai nostri nonni l’occasione per compare le scarpe ai figli. Non si trattava però, in tempi - fino agli anni sessanta - in cui la nostra società era ancora prevalentemente contadina, di acquisti dettati dalla moda: le scarpe venivano comprate come le maglie, “a crescenza”, con misure abbondanti, tali che dovevano durare per i successivi due o tre anni. In questo periodo si usava anche acquistare il maiale per l’anno successivo (“u purchìtt”).

Chi scrive ricorda che il 31 ottobre, ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Ognissanti, le strade del quartiere Sant’Antonio, a Paganica, brulicavano di animali e uomini. Si poteva assistere a scene assai gustose di vita paesana, come quando qualcuno degli acquirenti, interessati magari all’acquisto di un asino, con fare all’apparenza disinteressato, chiedeva al padrone, riferendosi al prezzo: “Quanto ne vo’ p ss’asen?” (quanto vuoi per questo asino?). Il padrone della bestia sparava una cifra, al che il primo replicava: “Eh...co’ sa tossa...” (come a dire: se non abbassi il prezzo non venderai). Altre volte il padrone tesseva platealmente le lodi della bestia e chiamava a testimone perfino il Padreterno a garanzia della sua sincerità (“M’ tea créd paesà, s’ tu ju compr – riferito all’asino – m’ tea rengrazià p’ tutta la vita, quant’è vér Ddì” – Mi devi credere, paesà, se tu lo compri mi devi ringraziare per tutta la vita, quanto è vero Iddio).
 
Si racconta, a questo riguardo, anche di colossali buggerature, come quella di un tale che, dopo aver pagato un asino e aver constatato che zoppicava, si sentiva rispondere dal venditore: “Ma nen te' preoccupà: quess' l' fa sole quann' camina” (non ti preoccupare, zoppica solo quando cammina). Ricordo una volta che mio nonno vendette una mucca, e tornando a casa riportò una saporitissima porchetta, come da tradizione. Sembrava una piccola festa, con la nonna che si faceva raccontare per filo e per segno come era andata la trattativa. Un’altra volta, avendo deciso di rimpiazzare il vecchio mulo, che alla mia fantasia di bambino appariva come il cavallo nero di Zorro, comprò un’asina, destinata a servire per molti anni a venire. L’asina era tranquilla e robusta, come certe vecchie contadine del mio paese, e molto più mansueta del vecchio mulo, la cui dipartita mi era sembrata segnare la fine di un’epoca. Il proprietario dell’asina era di Camarda, ed era soprannominato Peppeverde. Mio nonno ne parlava come di una persona onesta, che, vendendogli il ciuco, gli aveva fatto fare un buon affare. Ancora un anno dopo, Peppeverde, ce lo vedemmo entrare a casa mentre eravamo a pranzo: trovandosi di passaggio era venuto a sincerarsi che fossimo rimasti soddisfatti dell’acquisto. Era il vecchio mondo contadino che proiettava sulla modernità i suoi ultimi bagliori...

Alla fiera di Paganica un poeta di Assergi, Angelo Acitelli, ha dedicato una breve poesia, dove l’uso geniale dell’idioma locale, insieme alla fantasia, rende il senso di un’atmosfera e di un’epoca molto più di un saggio. Il titolo della poesiola è “SCURA MEA”, espressione assai idiomatica, e diffusa, con qualche variante, anche in altre zone d’Abruzzo come il Chietino.
Sta ad indicare sorpresa e sconcerto per un avvenimento improvviso e inaspettato, o di fronte a una notizia dolorosa. Equivale a “Mio Dio!!!”, ma con una maggiore forza espressiva. Deriva con ogni probabilità dall’espressione latina “obscura me“. Esprime il desiderio di non vedere e non sentire, scomparire, pur di non accettare una dura realtà.
Nel linguaggio comune, tuttavia, l’espressione ha perso molto del suo originario senso drammatico, divenendo un semplice e colorito intercalare. Con questo significato la usa l’autore dei versi che seguono.

SCURA MEA

 Ngànna m’ sallìa la paura
 runènn’ dalla fiera quela sera,
l’ombr’ correan’ p’ ji muri
co’ vént, lambi, tonnti e ranzori,
 a scura mea...Quanti remori !
 L’ombrèlla m’ ss’èra revotata,
 ‘na scarpa piena… eppùr era resolata,
a scura mea...Che nottàta !
Finarmént’, cant u foch co’ la ronza,
la mnestra càlla déntr u bronz,
a scura mea, s’ m’ ci repènz !

                                      
 ( A. Acitelli )



Condividi

    



Commenta L'Articolo