LA FIERA DI PAGANICA E L’ASINA DI PEPPEVERDE
Posted by Antonio Giampaoli | 2018-11-01 | Commenti: 3 | Letto 988047 volte
- di Giuseppe Lalli -
Ci ricorda Raffaele Alloggia, appassionato cultore di storia locale, che la Fiera di Ognissanti a Paganica ha origini assai remote. Se ne trova traccia sul Libro Mastro della Parrocchia di Paganica fin dal 1678. In origine la manifestazione si svolgeva nel solo giorno del 1° novembre e coincideva con altre simili iniziative che avevano luogo nel territorio aquilano, come quella di Capestrano. La grande affluenza di commercianti ed animali, nonché la ingente quantità di prodotti della terra che si vendevano nell’occasione, indussero i responsabili dell’organizzazione a prolungare di ben due giorni l’annuale evento paganichese. La proposta della proroga fu avanzata dal Decurionato (organo municipale che equivale all’attuale Consiglio comunale) e approvata con Regio Decreto del 17 gennaio del 1826. Si stabiliva così – è sempre Alloggia a ricordarlo - “che nella piazza principale si commerciassero varie merci come cuoiami, fagioli, zafferano, mandorle e cereali vari, mentre tutti gli animali rimanevano dislocati nelle varie aie in località Sant’Antonio”.
Nel secolo scorso la fiera si svolgeva nei giorni 31 ottobre e 1° novembre, e riguardava principalmente gli animali (ovini, vacche, cavalli, asini). La manifestazione è ancora viva nel ricordo delle genti della valle del Raiale. La concomitanza della manifestazione con l’inizio della stagione fredda, forniva ai nostri nonni l’occasione per compare le scarpe ai figli. Non si trattava però, in tempi - fino agli anni sessanta - in cui la nostra società era ancora prevalentemente contadina, di acquisti dettati dalla moda: le scarpe venivano comprate come le maglie, “a crescenza”, con misure abbondanti, tali che dovevano durare per i successivi due o tre anni. In questo periodo si usava anche acquistare il maiale per l’anno successivo (“u purchìtt”).
Alla fiera di Paganica un poeta di Assergi, Angelo Acitelli, ha dedicato una breve poesia, dove l’uso geniale dell’idioma locale, insieme alla fantasia, rende il senso di un’atmosfera e di un’epoca molto più di un saggio. Il titolo della poesiola è “SCURA MEA”, espressione assai idiomatica, e diffusa, con qualche variante, anche in altre zone d’Abruzzo come il Chietino.
Sta ad indicare sorpresa e sconcerto per un avvenimento improvviso e inaspettato, o di fronte a una notizia dolorosa. Equivale a “Mio Dio!!!”, ma con una maggiore forza espressiva. Deriva con ogni probabilità dall’espressione latina “obscura me“. Esprime il desiderio di non vedere e non sentire, scomparire, pur di non accettare una dura realtà.
Nel linguaggio comune, tuttavia, l’espressione ha perso molto del suo originario senso drammatico, divenendo un semplice e colorito intercalare. Con questo significato la usa l’autore dei versi che seguono.
SCURA MEA
Ngànna m’ sallìa la paura
runènn’ dalla fiera quela sera,
l’ombr’ correan’ p’ ji muri
co’ vént, lambi, tonnti e ranzori,
a scura mea...Quanti remori !
L’ombrèlla m’ ss’èra revotata,
‘na scarpa piena… eppùr era resolata,
a scura mea...Che nottàta !
Finarmént’, cant u foch co’ la ronza,
la mnestra càlla déntr u bronz,
a scura mea, s’ m’ ci repènz !
( A. Acitelli )
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