«IL GIOVANE FAVOLOSO» E «LA GINESTRA», modeste riflessioni di Enrico Cavalli


di Enrico Cavalli

- Nota introduttiva di Giuseppe Lalli -

Lo scritto che segue, più che un articolo, è un saggio breve che ha per oggetto la figura e l'opera di Giacomo Leopardi ( Recanati 1798 - Napoli 1837), colui che, dopo Dante Alighieri (Firenze 1265 - Ravenna 1321) si può considerare il nostro   massimo poeta.
Autore dello scritto è Enrico Cavalli, insegnante e storico aquilano noto ai nostri lettori e al mondo culturale della nostra città per le sue accurate ricerche locali, l'ultima delle quali, pubblicata da poco, ha consistito in un opuscoletto dedicato alla storia dell'Aquila Rugby, libretto in cui la puntuale e competente  ricostruzione storica della vicenda sportiva si sposa con un sincero attaccamento alla città.
Nello scritto che segue, Cavalli, prendendo lo spunto da un film di Mario Martone dedicato a Giacomo Leopardi dal titolo "Il giovane favoloso", esamina l'opera del grande recanatese dal punto di vista del significato filosofico, cogliendo con grande acume quegli aspetti che rappresentano dei punti di snodo nella complessa vicenda culturale italiana tra il  Settecento e l'Ottocento.
L'autore ci mostra, con dovizia di temi e con documentata argomentazione, la complessità di quell'irripetibile epoca in cui si delineò tanta parte della modernità. Basti pensare allo stretto e spesso conflittuale  rapporto tra l'illuminismo, con la sua fede nella ragione, e il Romanticismo, con il suo   accarezzato ritorno a quel passato in cui il "mithos" spesso si confonde con il "Logos", per capire quanta importanza ebbe per il futuro della nostra penisola la temperie culturale che caratterizzò l'epoca in cui visse e operò quel " giovane favoloso" , figlio del conte Monaldo, fedele suddito e funzionario dello Stato Pontificio e "reazionario colto", come lo ha spesso definito una pigra pubblicistica laicista.
Il professor Cavalli ci mostra come nella figura del poeta di Recanati (poeta e filosofo, vale a dire umanista a tutto tondo) agiscano entrambe le richiamate correnti (Illuminismo e Romanticismo): l'una a dare senso alla storia e valore alle opere dell'uomo, l'altra a correggere la cieca fiducia nel progresso e a soddisfare l'inappagata sete di assoluto che, con esiti in apparenza lontani dalla religione, alberga nel cuore generoso del giovane Giacomo. Significativa a questo riguardo è tutta l'opera di Leopardi, emblematica e riassuntiva ne è quella "Ginestra o fiore del deserto" in cui il suo pessimismo cosmico sembra cedere il passo al fervente auspicio di una cooperazione del genere umano contro una natura a volte matrigna (e ne sappiamo qualcosa noi aquilani...).
Enrico Cavalli, scrive così una bella pagina letteraria e filosofica. La scrive con rigore filologico e con la passione del credente (se mi è consentita questa rivelazione del suo vissuto esistenziale)  che sa che, quale che sia l'argomento che si tratta, se si parla di umanità (e quale umanità si esprime in Giacomo Leopardi!) bisogna non spegnere lo Spirito, esaminare tutto, ritenere ciò che è buono.


Dal 2015, l’anno di uscita al cinematografo, diverse volte sul piccolo schermo e recentissimamente, è stato riproposta la pellicola «Il giovane favoloso»1, dove ricostruisce, parzialmente, la vita di Giacomo Leopardi.

La scelta filmica, sarebbe stata di rappresentare la storia dell’anima Leopardiana, focalizzandosi nel periodo recanatese e fiorentino, cioè, quello schiettamente adolescenziale, intellettualistico e poi sentimentale.

In questa versione, però, sorvolando sul poeta delle domande esistenziali, della ‘meraviglia’ per il Risorgimento italico e della fase dei «Grandi Idilli», tra il 1828-30, soprattutto, che mette in sordina l’idea della sua personale introspezione.

Non competendoci di entrare nel giudizio estetico e di sceneggiatura dell’opera cinematografica (va rispettata la immaginazione del regista, qui e...altrove!), ci pare suscettibile di diverse riflessioni, una certa collocazione dell’incommensurabile poeta, per ciò stesso, che traspare dal film, nel filone di un’intellettualità se non organica, almeno, dialettica del più generale contesto illuministico, e, che ci sia consentito, in questo scorcio di Terzo millennio, viene riproposto come base, della cultura occidentale, insomma, in una disinvolta emarginazione di due millenni di cristianesimo, a parte lo sviamento nei libri di filosofia delle questioni ratzingeriane sulle radici cattoliche del secolo dei lumi2.

La sconfinata erudizione, che sin dalla fanciullezza al borgo natio di Recanati, allora, nello Stato Pontificio, manifestò Giacomo Leopardi, non sarebbe andata oltre una esibizione dotta di un sapere pedante, se non si fossero via via sviluppata nella sua mente, quella lucida e razionale capacità di portare il pensiero alle estreme conclusioni filosofiche, e, le sue composizioni poetiche ad un livello di indagine intimistica, disconosciuta, nel mondo letterario italiano di inizio secolo XIX.

Nella lirica Leopardiana, è possibile avvertire la dialettica culturale prima ancora che politica, attraversante la società europea ed italiana: il passaggio traumatico, dai principi della Rivoluzione francese del 1789 al ritorno dei motivi dell’Ancien Regime del 1815, nel mentre della disillusione napoleonica, in molte frange della intellettualità nella penisola, su tutte, l’altro corno della metrica italica fra XVIII e XIX secolo, quella di Ugo Foscolo (si pensi, alla tragedia «Aiace» del 1811).

Che dire, altrimenti, della parabola del padre del poeta, il conte Monaldo Leopardi che da Gonfaloniere marchigiano, fu antesignano fautore nello Stato Pontificio, del vaccino antivaioloso dell’inglese Edward Jenner (1749-1823); il funzionario papalino, nonostante le ritrosìe degli abitanti recanatesi, anzi, non esitante a dispetto del ‘suo ambiente retrivo’, alla sperimentazione della panacea, sui propri figli (Carlo e Paolina oltre a Giacomo), del resto, in recepimento delle istruzioni sanitarie di papa Pio VIII del 1822, vieppiù, da talune storiografie positiviste, bollato d’oscurantismo.

Vero è che, Giacomo Leopardi, satireggiante coi «Paralipomeni della Batracomiomachia» del 1831, gli alfieri idealisti della Rivoluzione napoletana del 1820 e moti risorgimentali del 1830-31, come il clima spiritualistico portato dalla Restaurazione3, nel suo celebre soggiorno a Napoli del 1836, dunque, un anno prima dalla scomparsa, ospite degli amici e nobili Ranieri, alle pendici del maestoso scenario del Vesuvio ai cui piedi sono le rovine di Pompei, ebbene, compose «La Ginestra» o «Canto del Fiore del Deserto», apparso nel 1845 nella prima edizione dei «Canti».

In tale penultima lirica, si riprendono i temi esistenziali di una vasta poesia, che possiede un ancoraggio nella cultura del secolo dei lumi, di primo acchito, da farsi risalire alla versione francese, sebbene, non immune dalle coloriture scozzesi o scettiche, per dirla ad una fortunata interpretazione del variegato e non monolitico illuminismo4.

Vi sono esposti, la sfiducia nella Provvidenza divina ed immortalità dell’anima, così in respingimento della visione ottimistica della vita offerta da un titanismo in stretta simbiosi al Romanticismo imperante e che puntella la esaltazione Positivista.

Questo rifiuto del sentimentalismo, conduce Giacomo Leopardi, a dire che l’uomo non può uscire dalla sua condizione di essere vivente, in un mondo costituito dallo spazio e tempo precari ed ingannevoli (forse, perché fissi nella rigidità kantiana, ma bisognerebbe virare su Henri De Bergson, e, magari, ne riparleremo!), e, per poi perdersi definitivamente, nell’infinitudine la cui concezione simbolica, il poeta aveva delineato in uno dei maggiori canti della lirica di tutti i tempi.

Sarebbe in questo solenne testamento spirituale della «Ginestra» un Giacomo Leopardi, tutto proteso alla adesione verso la concezione materialistica e ipercritica della vita.

Siamo in atmosfera Positivista che si erge a filosofia del progresso senza inutili fantasie e superstizioni, a giudizio di Auguste Comte, e, in parallelo, della incipiente ‘infelicità universale’, anticipando la filosofia del nulla oltre il cielo e terra di Friedrich Nietsche.

Come non vedere in questo brano, invece, che per il grande poeta della introspezione, la realizzazione storica dell’uomo, è solo una fragile e fugace astrazione?

Tuttavia, resta in questo componimento elaborato prima dei centoundici «Pensieri» fra il 1831-‘35, di una larvata fiducia nelle nobili facoltà dell’uomo, proprie della nascente borghesia liberale e patriottica non nazionalista; un senso latente religioso per la solenne citazione del Vangelo di Giovanni («E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce», III, 19) e che rasenta quasi un omaggio alle in divenire, aperture moderniste dentro della Chiesa; un’ammirazione della Natura selvaggia che libera fluisce oltre le miserie di un’antropizzazione che sconvolge il paesaggio; un contegno di venerazione per la grande tradizione italica in auspicio del Risorgimento montante, in un contrasto tra le aspirazioni politico-civili dei grandi popoli alla Francois R. De Chautebriand, che hanno fatto la Storia e le nuove gabbie della ‘Santa’ Alleanza e che paradossalmente, rasentano le integrazioni-globalizzazioni odierne calate dall’alto.

Sebbene, il cielo come nella visione del nichilismo, non sia albergato da divinità cui non ci si può rivolgere e difatti, la ginestra non supplica, altrettanto, è vero in identità di termini col testo dei «Pensieri», che così come il fiore del deserto consola anche l'opera del genio è di consolazione.

Pur nel senso di abbattimento, al limite dell’ontologico che può derivare per la condizione dell’uomo, quindi, c’è una implicita chiamata a dei valori trascendentali, a loro volta facenti da guida per la nascita di una cultura e prassi umana al tempo stesso, autenticamente terrena e spirituale e che in Italia passa felicemente per la vulgata di Alessandro Manzoni e che resisterà ai gusti estetizzanti di fin de siecle.

L’atteggiamento leopardiano respira, certo della corrente culturale Settecentesca, che mirò ad opporre i lumi della ragione alle supposte tenebre della ignoranza e superstizione dei secoli trascorsi (non rade volte affiora nei format tv e chiassosità politiche come un epiteto’medievale’!),

Alla luce della ragione umana, si posero anche giustamente, al vaglio le precedenti conoscenze filosofiche, religiose, politiche, intendendo di segnare un progresso nella storia dell’umanità.

La ‘Dea Ragione’ andava a discapito di altre nobili espressioni dell’animo umano, come il sentimento e la intuizione considerate un esercizio della immaginazione pura o al massimo di una fantasia intellettuale.

La critica si appuntava sulla metafisica aristotelica (che scorgeva l’essenza ultima della cose oltre le apparenze) ed alla religione naturale (contro cui si affermerebbe un teismo e deismo), ma la indagine della realtà fenomenica e sociale solo tramite la specola dei sensi, determinò a lungo andare degli eccessi e reazioni in campo non solo culturale: si pensi alla lunga risposta al Kantismo dell’Idealismo da Johan G.Fichte a George Wilhelm F. Hegel.

Già alla fine del secolo XVIII, i principi rivoluzionari, vennero gradualmente respinti dai popoli europei attaccati alle proprie tradizioni nazionali e spirituali e di questo Leopardi, consapevole delle dinamiche storiche, si crucciò formalmente.

Il movimento del Romanticismo nel senso del recupero dell’antichità classica e dello slancio libero dell’uomo verso il trascendente, può dirsi come un atteggiamento filosofico e letterario antitetico alla ragione ed infatti ispiratore della stessa Restaurazione post napoleonica del 1815.

Riemersero forme di una religiosità popolare, sebbene la Chiesa in parte, stentasse a concepire le esigenze portate avanti dalla modernità, e, si rifugiasse in diverse sue componenti in atteggiamenti fideistici, fino al Concilio Vaticano I del 1869-70, in fortunata accezione tomistica.

Il Positivismo come credo imperante di coloro che guardavano alla oggettività delle cose e che a volte Leopardi, rivendicò, appariva dalle nuove invenzioni e scoperte tecniche.

Tuttavia, pure che l’uomo “più” sapeva anche ”meno”conosceva la realtà tutta, al di là dello studio”matto e disperatissimo”.

Infatti, ogni nuovo esperimento deve essere verificabile, ripetibile, controllabile (e falsificabile) da tutta la comunità scientifica, che allora adottava per comunicare un linguaggio e regole comuni e tali da indurre alla teoria che sintetizzava un “fatto-esperimento”, ma che poteva essere superata da un'altra più predittiva, e, dalla quale poi, potevano uscire dei problemi presto o tardi ed insolubili, mettendo in crisi il sistema scientifico.

La scienza non era più quel modello indagatorio semplice ed in grado di spiegare tutto, come sembrò all’irrompere del discorso illuministico.

Dal tardo Romanticismo sorgevano correnti Estetiche e Decadentiste e che al pari della filosofia irrazionalista, mostravano la difficile accettazione della visione di un uomo ragionevole, nel mentre delle teorie darwiniane strumentalizzabili sul piano dei rapporti fra i gruppi umani, stando agli scientismi sulle razze, dei Joseph De Gobinau e Houston S. Chamberlain, ovvero, sorti in Illuminismo!

In questa angolazione, quasi il contrario di quello che diceva un primissimo Leopardi, per il quale la irrazionalità era di chi affermava le ubbie religiose a favore dell’evoluzionismo.

Invece, l’uomo era fortemente attraversabile da esigenze di spiritualità e pulsioni mitizzanti, esprimibili dalle arti estetiche, quanto oggetto di studio della moderna psicologia del profondo.

A cavallo fra’800 e’900, la dialettica fra il tardo sensismo e quanti reputano che l’uomo debba indagare con tutte le proprie facoltà il mondo, trova un nuovo fronte di discussione prettamente ideologico; l’onda lunga di un materialismo come solo sostrato della realtà, porta in alcuni paesi europei all’avvento di modelli totalitari fondati cioè sui miti dell’uomo nuovo perché impersonificante una razza o classe sociale (quella proletaria, perché sempre nel ’giusto’ e perciò libera di agire come vuole per il ‘Sol dell’Avvenir’), entrambi i punti di vista (peraltro, politicamente, è noto, confliggenti), considerati meglio evoluti rispetto ad altre forze e ceti e perciò legittimati alla Weltanschaung (concezione del mondo), sulla base dello stesso possesso di conoscenze tecnologiche, razionali, posto che quei regimi sono crollati sotto il peso delle proprie drammatiche ed inevitabili incongruenze.

Eppure, il materialismo che sottostava alla ‘natura matrigna‘5, va a conoscere dall’ambito delle più recenti scoperte fisiche, dalla quantistica alla relatività, dei pesanti colpi, perché nel subatomico, ci sta pure la energia della non-materia.

In campo filosofico e culturale, c’è la espressione di una umanità che ha esigenze di trascendenza, oltre la mera razionalità, che però a volte incontra problemi di coscienza, ad esempio, sulle questioni bioetiche, in specie, sul tipo di significato da dare alla vita sin dal suo nascere.

Per finire, con tutto questo discorso non si vuole, minimamente, sottacere della importanza della ‘ragione’ per ogni tipo di avanzamento passato presente e futuro dell’umanità, tantomeno, che le questioni dell’effimera condizione umana posta dalla lirica leopardiana siano da stigmatizzare.

Solo che la complessità della realtà, va compresa attraverso un approccio multidisciplnare, e, quindi, non entro delle facoltà sensibili reputabili da una traiettoria culturale, le uniche degne di attenzione (si badi che un conto è l’empirismo altro il razionalismo!).

Se vogliamo è la stessa lezione Illuminista tanto predicata da Leopardi ad andare in questa direzione.

Così come una società non va giudicata da un solo punto di vista, ma confrontando differenti visuali onde individuare punti oggettivi, da dove muovere per un progredimento, in nome di valori trascendenti e sempre validi, ebbene, l’universo-natura, bisogna interpretarlo, non già da un unico criterio di valutazione, ma da basi teoriche pienamente umane, e, cioè, che considerino l’essere uomo in modo completo, quanto al suo sentire ed avvertire l’universo in cui si trova (e non da lui creato!), sia nel senso della mera apparenza che di ultima essenza.

A mo’ di conclusione, laa frase di un intellettuale, non lontano dall’Illuminismo, e, dal gusto per un nichilism, in senso lato, quale il tedesco Bertold Brecht che nel suo celebre e discusso «Vita di Galilei» del 1943 (vero, smontato dal marxista Paul Feyerabend e pro Roberto Bellarmino!), proprio, allo scienziato pisano, tanto ammirato da Leopardi nello «Zibaldone» del 1827, fa dire che: «una delle cause della miseria delle scienze, sta nella loro pretesa di essere ricche (…)».

Da «La Ginestra», si evidenziano una serie di temi culturali, sociali, scientifici anche complessi e su cui si è snodato il secolo XIX e che arrivano fino ai nostri giorni.

Anzi, il dibattito fra gli studiosi leopardiani è stato a più voci, per rintracciare l’autentico significato del canto e che forse, è nella fiducia verso il genere umano di contro a quelle che il poeta chiama sterili e fantasiose visioni umane, sebbene, apparentemente, sembri tutto ciò in virtù di quanto propugnasse in riferimento al versettsulle «magnifiche sorti e progressive»6.

Tale espressione, divenuta sarcasticamente proverbiale, la ricavò Leopardi dalla «Dedica degli Inni Sacri» scritta nel 1832, dal suo cugino e patriota risorgimentale Terenzio Mamiani (1799-1885), che confidando nel valore formativo della religione nell’Italia dei secoli XII e XIII (...nel Medioevo!), accreditò di un incremento spirituale dell’umanità.

Nelle note di suo pugno ai «Canti», tuttavia, Leopardi, precisava circa gli slanci del Mamiani: «Parole di un moderno, al quale è dovuta tutta la loro eleganza», ad implicito riconoscimento dei più alti valori soggiacenti la pure effimera condizione umana.

La fede costitutiva dell'Occidente, la fede nel divenire, è sia credere in un valore trascendentale, sia nel progresso umano; entrambi gli aspetti, non possono cedere al dogmatismo, scientismo, irrazionalismo, nazionalismo, ideologismo e che tante svolte traumatiche hanno innestato nella storia del mondo, non solo dell’Occidente. L'esigenza stessa di un rimedio, sia esso rappresentabile dalla filosofia, dalla religione, dalla tecnica, dalla poesia o dal civismo, è possibile solo a partire dalla fede nel divenire, in un progresso7 che origina dal termine ‘prokopoe’ del NT., (Fil 1,25;1Tim 4,15), che indica di una marcia lenta e difficoltosa nella fede per il ‘Regno di Dio’.

Prendere in considerazione Giacomo Leopardi, ci pare importante, anche e nella misura in cui è necessario vedere se esiste un'alternativa alla storia dell'Occidente, perciò, alle sue stesse radici culturali e che non possono sfociare nell’effimero, seppure, questo intendimento possa derivare dalla immersione, magari, filmica ed in chiave ideologizzata, nella magnifica e suggestiva lirica del grande poeta, se per l’appunto, tanti geni, quel siffatto sistema di significato formatosi sulle ‘due ali della fede e ragione’, nel corso dei secoli, deve aver prodotto.

Ci sovviene, il solenne giudizio di Giovanni Paolo II, nella enciclica «Sollicitudo Rei Socialis» del 1987, per cui, Dio ha permesso il progresso umano, perché ha reso «partecipe l’umanità della gloria salvifica di Cristo»8.

1 Film di Mario Martone, Italia, 2015.

2 Marcello Pera-Joseph Ratzinger, Senza radici, Mondadori, Milano, 2004.

3 Cfr., “I Nuovi Credenti”, in Giacomo Leopardi, Poesie e prose, a cura di Rolando Damiani e Mario Andrea Rigoni, Mondadori, Milano, 1987.

4 Giovanni Reale e Dario Antiseri, Storia della filosofia dalle origini a oggi, volume 2, L’Illuminismo, Bompiani, Milano, 2010.

5 Di questo topoi leopardiano, in specie, ”Dialogo della Natura e di un Islandese”, in Giacomo Lepoardi, Operette Morali (1827), Firenze, Sansoni Editore,1969.

6 Giacomo Leopardi, Canto La Ginestra, verso n.51, 1836.

7 Il coniatore del termine progresso, in fase illuminista, fu Christlob Mylius, Der freygest, 1750.

8 Giovanni Paolo II, Enciclica Sollicitudo Rei Socialis, n.31, 1987.

 



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