Accensione del tripode Migliaia di aquilani in piazza Palazzo

(Da Il Centro) - Il fuoco di Celestino ha fatto il miracolo. Ha riportato migliaia di persone in piazza Palazzo a due anni e mezzo dal sisma (persino di più delle mitiche giornate della primavera 2010 con la protesta delle carriole). Ha ricreato un clima di concordia che non si vedeva da tempo: nessun fischio, nessuna invettiva, niente striscioni per accusare i politici ma solo qualche mugugno fra la folla quando, dopo l’accensione del tripode avvenuta alle 21,32 a una decina di metri dalla torre, in tanti attendevano i fuochi di artificio. E poi per andare via da piazza Palazzo una calca mai vista nemmeno ai bei tempi pre sisma. Corso Vittorio Emanuele era stracolmo e i pochi locali aperti quasi presi d’assalto. Persino i portici, con i cerotti di ferro sulle ferite, pieni di gente che voleva ritrovare lo struscio. E’ stata questa per grosse linee la serata di avvio della Perdonanza numero 717, la terza dopo il terremoto che ha devastato la città e la tiene in uno stato di precarietà che neanche il buio riesce a nascondere.
 I grandi protagonisti sono stati due: gli aquilani e il sindaco Massimo Cialente. Gli aquilani perché, se serviva una controprova, hanno ribadito che il centro storico era e resta il cuore pulsante da cui non si può prescindere. E hanno dato l’ennesima prova che vogliono vedere una città ricostruita il prima possibile e in sicurezza.
 Il sindaco Cialente ha dato il meglio di se stesso. Sul palco doveva pronunciare il solito discorso istituzionale fatto di enunciazioni scontate e di vuote parole. Invece si è fatto prendere la mano e ha parlato da salvatore della patria giocando sulle emozioni, sulla indignazione per «una città che chiede giustizia», sulla speranza nel futuro. Ha citato a ripetizione Giovanni Paolo II, ha pronunciato per due volte «lo giuro», ha chiesto alla folla di «chiudere gli occhi come io faccio spesso» per ripensare alla Perdonanza del 2008 «una delle più belle che io ricordi» dedicata al tema «verità e giustizia». Ha perfino invitato a pregare per «questa nostra città dilaniata». Indicando dal palco il vicecommmissario Antonio Cicchetti, con il quale il sindaco si scontra un giorno sì e l’altro pure, lo ha definito «l’uomo che lavora per noi». E poi ricordi, sospiri profondi, una ultima parte del discorso pronunciata a braccio quasi per avere un colloquio diretto con la folla che alla fine gli ha tributato un paio di minuti di applausi che lo hanno convinto a rialzarsi dalla sedia come una star alla quale si chiede il bis. La performance del primo cittadino ha oscurato le altre autorità fatte accomodare - con una scelta organizzativa poco felice - in un recinto, quasi uno stazzo di dannunziana memoria, che ne segnavano la distanza anche fisica dalla folla. Il presidente del consiglio comunale Carlo Benedetti, forse insofferente a quel recinto, ha bighellonato per tutto il tempo intorno al palco sul quale a fianco a Cialente hanno preso posto il presidente della Provincia Antonio del Corvo e l’assessore regionale Gianfranco Giuliante (Chiodi assente). Sorvoliamo sulle poche parole pronunciate dai due per dovere istituzionale e andiamo direttamente all’arcivescovo Giuseppe Molinari che nella sua omelia-discorso ha usato toni cupi, come gli capita spesso negli ultimi tempi: «Perché la ricostruzione non parte, quale è il male oscuro che la blocca, aiutaci tu San Celestino come hai fatto oltre sette secoli fa». Poi è arrivata la fiaccola con Floro Panti - alla testa del corteo - il quale stava per chiamare monsignore anche Cialente (e non si sarebbe sbagliato di molto viste le cose dette dal primo cittadino). Il tedoforo ha consegnato la fiaccola al sindaco che ha acceso il tripode con una mano e con l’altra ha salutato la folla osannante.



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