LA VENDEMMIA FRA STORIA E TRADIZIONE - di Lorenzo Giusti -

 

 

Quando i ritmi di vita erano ancora scanditi dalle stagioni, ottobre era il mese della vendemmia, uno degli ultimi raccolti prima del lungo periodo invernale. E come tutti i raccolti la vendemmia era certamente un lavoro duro e impegnativo, ma rappresentava anche una occasione di aggregazione festosa tra persone e famiglie, quando non esistendo alternative, tali occasioni necessariamente nel lavoro dovevano essere ricercate. La vendemmia iniziava quella lunga serie di operazioni finalizzate alla produzione del vino.
Dopo il raccolto l’uva veniva trasportata nelle vasche delle cantine, dove avveniva la pigiatura. Da questa e dalla torchiatura si otteneva il mosto che poi veniva messo nelle botti per la fermentazione. Nelle nostre zone spesso il mosto era prima sottoposto a bollitura in grandi “cottore” di rame, per aumentarne la gradazione e allungarne la conservazione. Durante la cottura si formava sulla superficie del mosto una mucillagine che veniva messa a filtrare su un panno di cotone grezzo e in tal modo si produceva la “coletta”, una bevanda dolce che veniva consumata nei giorni seguenti, prima che fermentasse. Un altro particolare caratteristico di questa fase erano anche le grosse chiavi di ferro o il mattone che si ponevano sul fondo delle “cottore”, per evitare l’ossidazione del rame durante la bollitura del mosto. Ma tutta una serie di altre immagini tipiche, ritornano alla mente parlando della vendemmia: le file degli asini che rientrano in paese trasportando le bigonce cariche di uva, la pigiatura fatta a piedi nudi e simile ad una danza rituale, le botti assiepate vicino alle fontane e riempite di acqua per eliminare le perdite tra le doghe. Passeggiando per il paese si sentiva veramente “quell’aspro odor dei vini” e si udiva salire dalle cantine, illuminate da una luce fioca, il cigolio degli ingranaggi del torchio. Oggi ad Assergi non ci sono più vigne: con lo spopolamento delle campagne infatti la coltura della vite è stata tra le prime ad essere abbandonata, sia perché non si presta molto alla meccanizzazione, sia perché la nostra zona, per ragioni geografiche e climatiche, non è particolarmente adatta alla vite. Tuttavia gli anziani del paese raccontano che una volta le vigne erano numerose e producevano anche uva di buona qualità. Una testimonianza sull’importanza della coltura della vite nei secoli passati ci viene da questo breve passo tratto da “Il Medioevo in Abruzzo” di L. Mammarella che dimostra come la stessa vendemmia fosse in quel tempo rigidamente regolamentata dalle autorità:
<<…………..le vigne siano recintate con siepe come anche gli orti e chi per necessità dovesse passarvi è tenuto a riparare il varco fatto. Ma in tempo di maturazione delle uve nessuno può passare per le vigne se non accompagnato da custode. Il custode deve essere installato in loco dal primo d’agosto. Se qualche proprietario dovesse rifiutare la mercede al suo custode, che sia multato; e fintanto che il custode non sia stato pagato ch’egli non faccia vendemmia. Chi detenga uve in casa e non possegga vigne sia tenuto a dimostrare la provenienza di siffatte uve. Lo stesso custode di vigna non potrà portare a casa più di due grappoli……>>
La possibilità che questa pratica dei custodi di vigne potesse in passato esistere anche ad Assergi ci viene da un proverbio che qualcuno ha tramandato attraverso le generazioni e che dice: “Tra volp, merli e cani la megl’uva è degli guardiani”. Del resto ci sono intere contrade ad occidente del paese chiamate “Vigne dei Colli”, “Piedi le Vigne”, “Capo le Vigne” proprio perché un tempo erano interamente coltivate a vite. Si racconta anche che in queste vigne durante la prima guerra mondiale, forse per la mancanza di manodopera legata al periodo bellico, lavorarono gruppi numerosi di prigionieri serbi che i proprietari prelevavano a L’Aquila. Come già accennato, queste vigne producevano uva di buona qualità, forse perché provenienti da viti a maturazione precoce come il norcino, la malvasia e altre con caratteristici nomi dialettali come la “Froscia Tonna” e “l’Ogl’Mocca”. Dopo che alla fine degli anni trenta, un parassita chiamato filossera distrusse gran parte dei vigneti, furono invece innestati in prevalenza vitigni a maturazione tardiva, come il montepulciano, quindi non particolarmente adatti a una regione montana come la nostra. Un altro tipo di vite utilizzata fu quella cosiddetta “francese” che aveva il vantaggio di non richiedere la zolfatura, ma produceva un vino di non eccelsa qualità.  A questo proposito un aneddoto divertente racconta che a due turisti in visita ad Assergi che chiedevano vino buono che fosse prodotto da uve locali, un nostro compaesano candidamente rispose: “io ne ho un po', ma è francese!”.
La necessità e il piacere di produrre il proprio vino faceva sì che le nostre genti continuassero a coltivare la vite anche in montagna, su una terra aspra che per dare i suoi frutti richiedeva una somma ingente di fatiche e sacrifici. Tuttavia per gli uomini che vi abitavano quella era la loro terra e quello il loro vino, l’unica bevanda alcolica allora disponibile, consumato nella vita di tutti i giorni e nelle grandi occasioni, per dissetarsi d’estate e riscaldarsi d’inverno. Negli ultimi anni la possibilità di acquistare l’uva o il mosto ha certamente contribuito al progressivo abbandono delle vigne. Per chi nelle vigne lavorava e sudava questo significava evitare quella fatica e quel sudore, ma purtroppo finiva anche la poesia della vendemmia, di quel mondo fatto di piccole cose che le ruotava intorno, quella poesia che anche noi avvertivamo quando, bambini portavamo a scuola una foglia di vite con i colori dell’autunno.

Lorenzo Giusti



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