Borgo di Santa Maria - Miti, leggende e racconti di altri tempi

- di Angelo De Angelis -

 

Il piccolo borgo di Santa Maria, sicuramente ve ne starete rendendo conto, è stato patria di persone eccezionali nella loro normalità, di donne di ferro da temere e da amare, di grandi vecchi racconta storie che hanno tramandato a noi miti, leggende e racconti di altri tempi oltre che di ciarloni grafomani come me e mio cugino Paolo; ma è stato anche patria di più umili esistenze anch’esse artefici, con le loro gesta, della storia del paese: gil animali di ogni specie.
Il Gallo e la Gallina della comare Iduccia ne sono un esempio calzante, ma ci sono anche l’Ariete di zia Emma, Menatucca, soprannome della mucca “Roscetta” e non serve che vi spieghi il perché del soprannome; andando più indietro nel tempo il cane Dragone, un bell’esemplare di pastore abruzzese strenuo difensore di greggi e di persone, il somaro di zio Checchino che, tutt’altro che paziente un giorno disarcionò il padrone facendogli rompere un braccio.
Mitico per la sua pazienza fu invece un Somaro di nonno Angelo, capace di trasportare in groppa mio padre bambino ed un nugolo di suoi fratelli e cugini, alla stregua di come facevo con i miei amici: ci stipavamo in sette o otto dentro una minuscola seicento bianca, che poi stentava, per il peso, a partire. Zio Elia, che era il più piccolo, ottavo passeggero del ciuchino, poté occupare l’ultimo posto in groppa, vicino alla coda ed al primo accenno di trotto cadde di faccia per terra rompendosi il naso che poi, fin quasi al compimento del suo novantanovesimo anno, gli rimase orientato verso l’angolo estremo della bocca, diventando un chiaro indicatore dell’umore; gli regalava infatti un aspetto simpatico e fascinoso quand’era di buon umore, un aspetto truce quand’era arrabbiato.

Tra gli animali passati agli annali di Santa Maria c’è un’altra Gallina, anche qui la indico con la iniziale maiuscola, che come nelle citazioni precedenti, è stata guadagnata sul campo. Faceva anch’essa parte del pollaio della comare Iduccia e si rese protagonista di una impresa che oggi, al tempo del coronavirus, le darebbe un’aureola di santità, al pari degli infermieri e medici che lavorano con abnegazione ed alto senso del dovere negli ospedali.

La comare Iduccia aveva una figlia, Antonietta, di parecchi anni più grande di me. Me la ricordo adulta quando io ero bambino e giocavo con Paolo ed altri miei cugini e coetanei sulla piazzetta del paese, dove ancora il fondo stradale era di brecciolino e dove il traffico di vetture era un evento eccezionale, mentre normale era il transito di mucche, asini e pecore che si recavano all’abbeveratoio posto vicino alla Chiesa.
Avvenne un giorno che Antonietta, mentre tornava dalla fonte con la conca piena d’acqua in testa, scivolò sul brecciolino e strusciò violentemente col ginocchio per terra: si procurò una vasta escoriazione. Tornata a casa la ferita fu pulita, disinfettata con un po’ d’alcol denaturato e coperta con un fazzoletto che fu legato dietro al ginocchio.
L’igiene dell’ambiente, come potete immaginare, lasciava molto a desiderare, per la presenza di tanti animali: e se oggi siamo terrorizzati dalla CO2, dalle polveri sottili, dagli NOx che appestano l’ambiente e causano l’effetto serra, allora si era assediati da altri agenti patogeni, come le deiezioni degli animali e le mosche che di quelle deiezioni si nutrivano.
La ferita al ginocchio di Antonietta, o per una insufficiente pulizia, o per un ambiente non proprio sterile, diventò purulenta, il fazzoletto si incollò alla crosta in via di formazione, il ginocchio si gonfio' ed il dolore divenne insopportabile impedendole di piegare la gamba e facendola camminare con difficoltà. La povera comare Iduccia sacrificò il fazzoletto tagliandone tutto il bordo non appiccicato alla ferita. Provò a bagnare con l’alcol per staccare il resto della stoffa, ma gli urli di Antonietta non le permisero di terminare l’opera. Non sapendo che fare chiamò il medico condotto, il dott. Biasini allora quasi all’inizio della sua lunga professione. Si sedettero all’interno della cucina di casa, intorno al tavolo, ed il dottore iniziò ad osservare quella brutta ferita. Descrisse le operazioni che avrebbe fatto, ovvero rimuovere quel che restava del fazzoletto e medicare con maggior cura la ferita, ma Antonietta si guardò bene dal far mettere le mani sul suo ginocchio. Mentre il medico cercava con i suoi modi signorili e con infinita pazienza di convincere Antonietta, la nostra Gallina entrò di soppiatto in cucina e si mise a razzolare, inosservata, sul pavimento. Fu attirata dallo strano odore che emanava la ferita che anziché schifarla l’attirava e, stando nascosta sotto il tavolo lanciò una beccata violenta al bordo della stoffa, serrò con forza il becco e strappò via dalla ferita quel che restava del fazzoletto. In un attimo risolse una situazione critica che si protraeva ormai da giorni! Quel gesto la fece assurgere agli onori della cronaca di santa Maria, anche se, tempo dopo, non la salvò dalla sorte comune a tutte le galline.

IL GALLO DELLA COMARE IDUCCIA - di Paolo De Angelis

Dopo lo struggente racconto di Zio Berardo di Venerdi Santo, (https://www.facebook.com/paolo.deangelis.7792/posts/2829428303759284) oggi voglio invece raccontarvi una cosa più allegra che ha a che fare con le uova, ma molto lontanamente. Come in tutti i paesi, anche nel meraviglioso borgo di Santa Maria, sulla piazza c’era una pietra ben squadrata, anzi, due, una più grande ed una più piccola. Era “LA PIETRA” per antonomasia. Erano gli “assettaturi”, cioè delle posizioni che servivano come luoghi di ritrovo per gli stanchi contadini di ritorno dai campi. La sera, davanti ad ogni casa, dove non c’era un “assettaturo” , si tiravano fuori le sedie e alla fioca luce di rari lampioni, i contadini si godevano il meritato riposo perché si sa, i contadini erano restii a rimanere in casa. I pipistrelli volavano attorno alle flebili luci in cui si aggiravano nuguli di insetti. Le stelle sembravano dipinte nel cielo come quadri di Van Gogh e si confondevano con le lucciole degli antistanti prati. Di lontano si udiva il gracidare delle rane del lago di Marrocchi confuse con le grida acute dei giochi di noi bambini. Ma c’era una guerra all’ultimo sangue per la conquista del posto sull’assettaturo principe, "LA PIETRA",quello della piazza di Santa Maria ,davanti la casa di Angelo. LI uno stuolo di bambini si accapigliava per il posto sulla pietra più grande, relegando i meno aggressivi alla pietra laterale, più bassa e meno “capiente”. Alla fine dopo una guerra all’ultimo sangue, si stilava una momentanua tregua e ci ritrovavamo in venti su una pietra che poteva ospitarne a malapena 5. Ma c’era un ma…. Sulla piazzetta si affacciava anche la casa della comare Iduccia,una sorta di Maria di Filippi di 60 anni fa e la cui storia, se volete leggerla, già l’ho raccontata qui. (https://www.facebook.com/paolo.deangelis.7792/posts/2637767036258746. La parte laterale della casa della Comare Iduccia era direttamente a contatto con “la Pietra”. Era un muro chiuso dove faceva bella mostra di se un magnifico fico e una piccola piantagione di fiori, per lei preziosissimi e che coltivava con cura maniacale. A guardia dei fichi e dei fiori, si aggirava un animale aggressivo, una vera belva, un titano che la mattina la comare Iduccia scatenava, come si conviene ad un Titano. Questa belva era un malvagio Cerbero che graffia e scuoia con i suoi artigli gli spiriti dannati dei golosi, con occhi rossi, il muso nero, il ventre largo e le zampe artigliate. Già, un custode insuperabile, una vera guardia invincibile per arrivare ai succosi e dolcissimi fichi.(…i dannati golosi eravamo proprio noi). Era un GALLO !!!!. Passi pure che non ci facesse avvicinare al fico, ma forse ci leggeva nel pensiero ed allora ci aggrediva “ad reprimendam aquilanorum audaciam”, cioè prima che potessimo passare dall’ideazione ai fatti. Era il terrore che aleggiava sulla piazza. Era un animale magnifico, camminava fiero avanti e indietro sulla piazza come un guardiano di Birmingham Palace e non c’era gallina che potesse passare inosservata e non sfuggisse ai suoi insaziabili appetiti sessuali. Per noi era il terrore, ci inseguiva con le ali aperte, con gli affilati artigli davanti al suo corpo, il becco come una piccozza alpina, una vera e propria disgrazia. Un periodo eravamo arrivati al punti di stare sempre almeno in due per proteggerci dagli assalti. Poi urlava e richiamava la comare Iduccia, che accorreva mandando imprecazione e maledizioni verso chi si era solo avvicinato ai suoi fiori e ai suoi fichi. Ma nessuno nel paese osava farlo, perché le maledizioni della comare Iduccia erano particolarmente temute perché tutti sapevano che “coglievano” e in più nessuno osava sfidare il GALLO. Un giorno si fermò una macchina di sconosciuti ed ignari “romani”. Scesero dalla macchina e una signora colse un fiore. Io ero seduto sulla pietra e mi sistemai per godermi la scena. Il GALLO accorse, aggredì la signora, poi passò all’uomo che si diede coraggiosamente alla fuga. La signora si rifugiò nella macchina, fu raggiunta dal marito, e si allontanarono sgommando, inseguiti dal GALLO e dalle maledizioni della comare IDUCCIA. Sicuramente quell’equipaggio non arrivò indenne a Roma. Era un gallo immortale, ognuno di noi si chiedeva quanto mai campasse un gallo. Ogni estate lo ritrovavamo li, sempre più atletico ed aggressivo. Qualcosa si doveva fare. Intanto eravamo cresciuti ed iniziammo a meditare vendette sempre più terribili, che crescevano con la nostra statura. Lo attiriamo in un’angolo e lo lo finiamo a bastonate, gli aizziamo contro FRIDA, il cane di zio Elia, facciamo in modo che ci aggredisca quando passava una macchina…. Ma le macchine non passavano, FRIDA forse era troppo intelligente per sfidare la fiera e noi non avevamo abbastanza coraggio. Tra il gallo della comare IDUCCIA e un’ariete di Zia EMMA che ci faceva a “tucca” e che si aggirava libero nel paese, non avevamo più pace. Poi chissà, forse la sorte ebbe pietà di noi, forse la sorte fu tirata per giacchetta, ma un bel giorno il GALLO scomparve. Noi avevamo sempre delle ferite sulle gambe e sulle ginocchia, i rovi, le erbe e le ortiche dei prati ci lasciavano i loro marchi. La sorte ci aiuto? Non so, so solo che alcuni di noi, un giorno di settembre, dovevano essere caduti in un rovo di more..



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