RACCONTI IN QUARANTENA – LE BUATTE DI NINNAO’

- di Mario Narducci -

 

Ninnaò dormiva al lume di candela, si lavava alla fontanella a muro della piazzetta, mondava verdura e frutta alla stessa fontana, alla cui cannella rammolliva un tozzo di pane raffermo e stendeva sull’acciottolato la poca biancheria lavata a freddo, d’estate con refrigerio e d’inverno con dolore per quelle dita diventate ghiaccioli da staccare. Se doveva apporre qualche punto di cucito alla veste sdrucita, aspettava che il sole le entrasse nel vicolo, portava una sedia spagliata sull’uscio, sedeva rincorata al calore che le penetrava nelle ossa e dava di ago con lentezza, perché il sole facesse bene il suo dovere prima di ritirarsi oltre la Porta di Bazzano, dietro la collina di Roio.
Per cucinare le bastava anche meno: metteva nel pertugio della fornacella un pugno di pallottoline di giornale intrise d’acqua e lasciate indurire, accendeva con un “prospero” facendo attenzione a non sprecarlo nello sfregamento, e le erano sufficienti pochi minuti per mandare a cottura un po’ di semolino che sorbiva ristorata dal calore dell’acqua sciapa. Un pugno di cicoria colta per strada e un frutto completavano il pasto che dalla bocca senza denti passava allo stomaco senza fatica alcuna. Abitava in un basso di Sdrucciolo dei Ciuchi, una traversa angusta di Via Fortebraccio e soltanto un portoncino la divideva da un altro sdrucciolo, intitolato questa volta ai Poeti, sensa nesso alcuno se non quello della pazienza che i primi hanno a portare la soma e i secondi ad aspettare un po’ di gloria.
Ninnaò la chiamavano forse così per il sonno profondo che l’avvolgeva per la notte intera. Era una solitaria ma non era scontrosa. Raggomitolata in vesti di fortuna, non le importava quale colore avessero: d’estate s’alleggeriva, ma non abbandonava mai le maniche lunghe che solo tirava un po’ su per le poche e povere faccende di casa; d’inverno metteva addosso più capi fino a stare calda, fuori e dentro il tugurio, dove non c’era riscaldamento alcuno. Appena imbruniva e l’antro diventava buio pesto, lei accendeva una candela posata a goccia di cera sul coperchio di una scatola di lucido da scarpe e si distendeva su un pagliericcio per il poco sonno, attenta a spegnere prima la stearica.
Al mattino era in piedi con la prima luce. Rosicchiava qualche rimasuglio del giorno prima, beveva alla fontanella insieme alla tortora che andava a posarsi sulla conchiglia per lo stesso motivo e a passo malfermo saliva adagio Costa Masciarelli fino alla più agevole Via Ciminelllo per raggiungere Piazza del Mercato, giusto in tempo per la prima Messa alle Anime Sante. Ma Ninnaò non entrava in Chiesa, anche se giunta alla postazione consueta si segnava di croce e baciava le punte riunite delle dita della mano destra, accennando a un inchino verso l’altar maggiore. Qui s’acconciava un fazzoletto lercio sui radi capelli ingialliti dall’incuria, stendeva un braccio, appoggiandoselo al fianco, la mano a mestolo, e aspettava inerte l’arrivo dei devoti che le stendevano l’obolo in carità. Ninnaò viveva di elemosine, senza mai chiedere nulla, ma pronta a un “Dio ti ripaghi” quando una moneta le toccava il cavo della mano. A fine messa raggiungeva l’altra postazione, sulla scalinata della Cattedrale, anche qui si metteva curva leggermente in attesa, accanto al portale e al termine del rito attraversava la Piazza del Mercato già gremita di bancherelle, per sostare davanti al furgoncino spiegato del venditore di salsamenterie, per chiedere in dono buatte vuote di tonno e aringhe che portava in casa, dopo averle lavate alla fontanella accanto. Il giorno successivo, con meticolosità certosina, riprendeva lo stesso tran-tran che l’avrebbe portata dallo Sdrucciolo alla Piazza e dalla Piazza allo Sdrucciolo, carica di buatte che nessuno seppe mai a che cosa servissero.
Ne parlarono tutti i giornali quando il fatto accadde. Un giorno d’estate che il sole tramontava come sempre sopra Roio e che il basso, come sempre, entrava anticipatamente nel buio, Ninnaò mangiò il tozzo di pane come sempre e come sempre si distese sul lettuccio di paglia, duro sulla rete arrugginita, con la candela fissata con le sue gocciole di cera sul coperchio di una scatola di lucido per le scarpe. Ma non la spense perché il sonno la colse improvviso. A notte fonda la candela si staccò dalla precaria bugia e cadde sulla sedia impagliata che prese fuoco generando un incendio feroce che divorò i poveri mobili da rigattiere. Il fuoco aveva già attaccato rovinosamente le pareti che divampavano anch’esse in alte fiamme, quando lei si destò. I Vigili del fuoco la trovarono carbonizzata, supina e a braccia spalancate, come a proteggere qualcosa, sopra il lettuccio spoglio e rovente ancora. Quando pietosamente la rimossero, apparve sotto il letto una serie infinita di buatte. Ciascuna pesava tanto da essere sollevata a fatica. Erano piene rase di moneta sonante. Quella ricevuta in carità durante tutta una vita di stenti e di miseria.



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