CRONACHE DA UN TEMPO DI MEZZO

- di Angelo De Angelis -

 

Oggi è il 25 aprile, festa della Liberazione e ci sta proprio una lunga storia del tempo che precedette quella data. Proprio perché troppo lunga ne posto una metà oggi e l'altra metà domani, così chi vuole leggerla si annoierà a rate!

Ci sono eventi nella vita di un uomo o nella storia di popolo che dividono il tempo tra un prima ed un dopo e ciascuno di noi, quando affiora un ricordo, è portato a collocarlo temporalmente al di qua oppure al di la di quello spartiacque.
Per noi aquilani c’è stato il terremoto; oggi stiamo tutti vivendo un periodo che molti chiamano “tempo sospeso” perché si sa come era il prima, ma c’è l’incertezza su quello che sarà il dopo; se quel dopo sarà diverso, anche questo tempo sospeso potrà a tutti gli effetti chiamarsi “tempo di mezzo”.

Il più importante TEMPO DI MEZZO vissuto dal Borgo di Santa Maria è stato il periodo della seconda guerra mondiale. In paese vivevano non più di cinquanta persone, e la maggior parte erano giovani: in un periodo in cui non c’erano assistenza sanitaria e pensione e c’era prevalenza di manodopera nel lavoro dei campi, i figli costituivano la ricchezza della famiglia e l’assicurazione per la vecchiaia; i bambini venivano considerati una benedizione del cielo ed erano sempre, quando possibile, in gran numero.

A cavallo degli anni quaranta del secolo scorso tutta la meglio gioventù del paese si ritrovò con una divisa addosso ed uno zaino ed un fucile sulle spalle.
Mio padre, militare nella Polizia, visitò luoghi per lo più di confine, dove gli fu dato incarico di garantire l’ordine pubblico: un periodo a Roma, poi a San Remo, vicino alla frontiera francese, poi alle isole Tremiti, a guardia di internati politici oppositori del regime condannati al “confino”; infine a Messina. “Bella guerra ha fatto tuo padre”, direte voi! Beh, in effetti a casa si conservavano fotografie di quel periodo dove erano prevalenti immagini assimilabili a vacanze al mare o in montagna. La montagna era il Terminillo, dove Mussolini andava spesso d’inverno a sciare e mio padre, sci ai piedi, pattugliava sulle piste perché non ci fossero inconvenienti di sorta per il Duce. Delle spiagge della Liguria o delle Tremiti è inutile che vi parli; parlano però le fotografie, rigorosamente in bianco e nero, che non riescono a nascondere un’abbronzatura perfetta.
Ebbe la sventura di trovarsi a Messina allo scoccare dell’ora zero dell’operazione Husky, a luglio del 1943, quando due armate alleate, una americana l’altra inglese, sbarcarono nella Sicilia sud orientale. Mio padre fu ripetutamente bombardato – non solo lui, ma tutta la città di Messina - ed una di quelle volte un proiettile gli cadde a meno di dieci metri di distanza: si ritrovò indenne, ma quasi sepolto vivo dalla terra sollevata dall’esplosione, all’interno di una cunetta dove si era gettato a peso morto; e quel ricordo riempì spesso e per un lungo periodo di tempo i suoi incubi notturni. Due mesi dopo successe il caos. Mussolini destituito, arrestato e tenuto prigioniero all’albergo di Campo Imperatore. Il Re, fautore dell’armistizio dell’otto settembre, fuggito con Badoglio lungo la via Tiburtina verso Ortona e poi per mare fino a Brindisi, Mussolini liberato dai Tedeschi.
Riecheggiò il grido SI SALVI CHI PUO’ per i militari italiani rimasti orfani di una qualsiasi guida regale o politica.
Mio padre cucì all’interno delle pieghe dei pantaloni i pochi soldi che aveva da parte e tornò a Santa Maria precedendo di poco gli alleati, che furono fermati per tutto l’inverno sulla linea Gustav, lungo la direttrice da Cassino ad Ortona.

Il fratello minore di mio padre, zio Elia, ed un cugino, zio Mario, entrambi finanzieri, fuciletto in spalla, si ritrovarono in Grecia a cantare la strofetta dell’osteria numero dieci. Zio Elia era in licenza a Santa Maria quando fu firmato l’armistizio e passò i mesi successivi, fino allo sfondamento della linea Gustav a passeggiare per monte Calvo di giorno ed a dormire a casa di notte, cercando di non farsi beccare da qualche pattuglia tedesca.
Anni dopo passai un lungo periodo di vacanza in Grecia con moglie e tre figli piccoli, percorrendo oltre duemila chilometri trainando con la macchina una roulottina azzurra. Il viaggio itinerante mi fece conoscere la vita vera di quella gente e mi trovai a parlare con persone dell’età di mio padre e dei miei zii che avevano anche loro vissuto l’esperienza della guerra. Mi stupii molto del fatto che gli italiani, nemici del popolo greco al pari dei tedeschi, erano però ben voluti e ben considerati da quei vecchi.
Raccontai al mio ritorno questa mia impressione a zio Elia il quale non si stupì affatto. Da bravo esercito occupante, anziché saccheggiare e depredare quelle povere famiglie già vittime delle privazioni della guerra, portavano il rancio ancora caldo alle persone che vedevano particolarmente bisognose, arrivando persino a patire la fame pur di aiutarle.

Una sorte peggiore toccò a zio Mario, che si ritrovò, dopo la Grecia, in Jugoslavia e poi deportato in Polonia in un campo di concentramento tedesco. Guardò più volte negli occhi la morte, che però fu clemente con lui, forse rabbonita da quel Sant’Antonio che si era già molto prodigato per il padre Checchino in terra di Libia e nelle trincee del Piave e del Tagliamento: tornò praticamente a piedi, quasi un anno dopo la fine della guerra, e persino la mamma stentò a riconoscerlo, essendosi più che dimezzato il suo peso forma.
Anche zio Italo, cugino di mio padre e fratello di zio Mario passò un periodo di vacanza in prigionia ed io conservo una lettera dalla Sicilia di mio padre che, scrivendo alla famiglia, si rallegra per la notizia appena ricevuta del suo ritorno a casa.
Zio Antonio, il maggiore dei cugini di mio padre, ebbe il suo bel da fare come pompiere dopo il bombardamento della Zecca a L’Aquila; questa vicenda l’ho già narrata in un’altra delle mie storie.

Andò peggio a zio Paolo, che portava il nome del padre, altro fratello di nonno Angelo e di zio Checchino, morto pochi mesi prima della sua nascita: partì da Napoli per la Cirenaica come giovane ufficiale carrista e nell’autunno del 1942 vide volare in cielo la sua anima durante la battaglia di El Alamein, insieme ai pezzi del suo piccolo carro, centrato da un poderoso Sherman inglese. Il suo corpo non fu ritrovato e non si sa se le sue ossa giacciono ancora insepolte tra la sabbia del deserto o sono all’interno di uno dei tanti loculi del sacrario dove la pietà dei sopravvissuti ha posto la scritta IGNOTO, accanto ai fortunati commilitoni che hanno una lapide con incisi il loro nome, cognome e grado militare.

Zio Italuccio, fratello di Paolo, combattè in Abissinia e fu fatto prigioniero dagli Inglesi. Facendo di mestiere il pittore, portò indietro una stupenda collezione di disegni a matita di uomini e di donne Abissine, Somale ed Eritree, che da ragazzo ebbi la fortuna di ammirare con mio padre, in una mostra da lui allestita nella sala EDEN, ai quattro cantoni.
Anche i giovani di altre famiglie del paese dovettero partire, Tonino, Amerigo, ma non conosco per nulla le loro storie, se non qualcosa di Amerigo, che ricordo da sempre con una mano in tasca; quella mano era coperta con un guanto nero ed aveva una strana rigidità lignea: la vera mano aveva incontrato una scheggia di ferro in battaglia e si era persa nella polvere.

CRONACHE DA UN TEMPO DI MEZZO (seconda parte)

Il triste TEMPO DI MEZZO del Borgo di Santa Maria degli anni della guerra non vide solo lo spopolamento di tanta bella gioventù: ci furono anche delle “new entry”, o meglio dei ritorni a casa.

Zio Luigi, fratello di zio Paolo e di zio Italuccio, lavorava come geometra a Pescara, dove sovrintendeva all’attività di produzione dell’energia idroelettrica. Il 31 agosto1943 ci fu un primo bombardamento strategico su Pescara: fortezze volanti americane sorvolarono la città scaricando tonnellate di proiettili che colpirono ovunque, anche sulla spiaggia piena di bagnanti, ma non la stazione. Così gli alleati ci riprovarono il 14, il 17 ed il 20 settembre. Quell’azione “strategica” causò un numero indefinito di morti, tra tremila e seimila, oltre che la distruzione o il danneggiamento di cinquemila edifici, che rappresentavano l’ottanta per cento delle abitazioni della vecchia Castellammare. Alle prime avvisaglie zio Luigi prese la moglie Maria e i figli adolescenti Luciano e Vittoriano e li portò al paese di origine. La maggior parte dei sopravvissuti di Pescara, crca 30.000 persone, cercò rifugio a Pianelle ed a Chieti, poco dopo dichiarata città aperta per volere del Padreterno, che si servì della voce e delle opere dell’arcivescovo Venturi. Questi, per tramite del Papa, contattò un tale Padre Pfeiffer, amico del maresciallo Kesserling; anche gli alleati furono sollecitati, e la causa fu forse perorata dallo stesso Re Vittorio Emanuele, al quale fu spianata la fuga da Roma attraverso l’Abruzzo dal medesimo vescovo Venturi, questa volta probabilmente a insaputa del Padreterno.

Dunque dopo l’armistizio dell’otto settembre 1943 la spopolata Santa Maria si ritrovò con due giovanetti in più che fecero gruppo con i giovani Balilla locali che, essendo stati addestrati solo con fuciletti di legno, non erano ancora pronti a partire per le varie campagne di Francia, di Grecia, d’Africa o di Russia.

Il triste TEMPO DI MEZZO non fu solo vissuto dai giovani guerrieri, che ogni giorno si ponevano il grosso problema esistenziale del ritorno a casa. Santa Maria si trovava a sessanta chilometri in linea d’aria dalla linea Gustav; costituiva quindi uno dei punti di retrovia funzionale ai rifornimenti della prima linea. Oltre che essere presidiato, come le altre frazioni del comune di Scoppito, da forze tedesche, sul suo territorio furono dislocati magazzini di merci pronte per essere utilizzate sul fronte. In particolare zio Ugo mi indicò, quand’ero ragazzo, una località presso “il Fossato”, contrada dove erano la quasi totalità dei terreni di famiglia, dove era stato collocato un grosso deposito di carburante, ben mimetizzato tra gli alberi, nei pressi del quale lui, zia Nunziata sua sorella e a volte anche nonna Cesira, transitavano quotidianamente per andare a lavorare nei campi, non senza una buona dose di timore.

Un giorno nonno Eliseo, insieme con mia madre appena diciottenne, fu sorvolato in aperta campagna da un bombardiere alleato che, forse danneggiato, scaricò il suo carico di bombe prima di invertire la rotta verso sud. Mia madre ne fu terrorizzata ma nonno Eliseo, con la sua calma serafica, la tranquillizzò indicando l’aereo e dicendole “fijia me, ji alla guerra ci so statu, vé ecco e allunghemoci ‘n terra e aspettemo che se nne revà”.

Mia madre, insieme con le cugine Elena, Mafalda e Maria dedicavano molto tempo alla tessitura; il telaio e gli altri attrezzi del mestiere stavano in una stanza, “il salone” posto tra la casa di nonno Berardo e la casa di nonno Eliseo, e giorno dopo giorno realizzarono, come si conveniva allora, il loro corredo. I fili di lino, di cotone e di lana per loro non avevano segreti e con anni di lavoro, si erano trasformati in lenzuola, strofinacci da cucina, tovaglie da tavola e soprattutto in bellissime coperte colorate che avevano come elementi cromatici dominanti il rosso ed il blu. Su tutti c’era un piccolo ricamo in un angolo in caratteri gotici con le iniziali; quelle di mia madre erano A C, e le ho viste girare per casa sua finché è vissuta.
Quei corredi erano considerati un piccolo tesoro, simbolo delle virtù e dell’accortezza di quelle ragazze, oltre che prova della agiatezza della famiglia.
Cominciarono a correre voci, durante il periodo della campagna d’Italia, di razzie da parte dei soldati tedeschi in ritirata e quel bene fu nascosto in tutta fretta.
Circa quarant’anni dopo trovai, nella soffitta di casa di nonno Eliseo, una vecchia cassapanca ricoperta, negli anni, con tre o quattro strati di vernice a smalto. Grattai un po’ in un’angoletto e mi accorsi che il legno era di castagno e che le tavole erano state segate a mano, cosa che faceva presumere un certo valore legato all’epoca sicuramente remota della costruzione.
Dissi quindi a mia madre dell’intenzione di restaurare quel mobile: “ma que sta’ di’, mettila ajiu focu, che quessa ancora puzza de rencausu” disse mia madre. Non riuscii a capire il senso di quella esclamazione, furono necessarie spiegazioni: in quella cassa, all’inizio del 1944 fu riposto il corredo di mia madre e delle cugine; il tutto fu sotterrato e “rencausatu”, rincalzato, nel cortile dietro casa di nonno rivedendo la luce solo a guerra finita; la puzza di quella cassapanca, ormai dissolta nell’aria, ancora resisteva nel cuore e nei ricordi di mia madre!

In quel TEMPO DI MEZZO le donne di Santa Maria si resero protagoniste di atti di grande umanità e solidarietà mettendo a rischio anche la vita. Zia Ernestina era una ragazzetta di 16 o 17 anni ed andava spesso lungo le pendici di monte Soffiavento conducendo al pascolo alcune pecore. Portava con sé un paniere con la colazione e tornava al tramonto. Un giorno, al di sopra della chiesetta di Santa Brigida, vide un uomo che da lontano la fissava spaventato. Ne fu incuriosita, si avvicinò un poco e notò che indossava una strana divisa, diversa da quella dei giovanotti del paese. L’uomo disse qualche parola in una strana lingua; riuscì a capire solo “fame” e “inglisc”: era un soldato inglese riuscito a fuggire da un campo di prigionia tedesco. Zia Ernestina gli cedette la sua colazione, scappò di corsa e, giunta a casa, raccontò tutto a zia Domenica, sua madre. Ovviamente ci fu un consulto tra le donne del paese e si discusse insieme sul da farsi. La più convincente fu la madre di Tonino, partito per la guerra. Disse: quel soldato ha pure lui una mamma che è preoccupata come noi lo siamo per i nostri figli; noi dobbiamo aiutarlo e magari da qualche altra parte del mondo ci saranno mamme che aiuteranno i nostri figli. Le donne del paese, ben più sagge dei governanti che scatenarono o si fecero trasportare in quel terribile massacro di massa che fu la guerra, presero così l’abitudine di ammassare un paio di uova di pasta in più ogni giorno e zia Ernestina insieme al suo piccolo gregge, diventò una staffetta vivandiera che continuò a portare da mangiare a quel prigioniero fin quando questo non prese altre strade.

Restano da narrare, di quel periodo della storia del mio Borgo nativo, le gesta di quei giovinetti la cui età aveva loro risparmiato la coscrizione obbligatoria. Un sodalizio particolare si creò tra zio Domenico, il più giovane dei figli di zio Checchino, fratello di nonno Angelo, e suo cugino Luciano, profugo da Pescara. Le loro gesta sono state raccontate in un bel libro di memorie scritto tanti anni dopo da Luciano, medico e scrittore, dal titolo “Un anno particolare”, che è pure un importante resoconto storico dei bombardamenti di Pescara. L’episodio che più mi ha colpito mi ha riportato alla mente fatti di 15 anni prima, raccontati dalla cugina Cesira sulla mia pagina Facebook, quando zio Elia prese di nascosto in prestito la pistola a spillo del padre e, insieme ad una masnada di cugini e amici, mise in allarme l’intero paese riunito all’interno della chiesa per la funzione domenicale. Attinente ai fatti del 1943 è anche l’attività di bombaroli mia e dei miei cugini Paolo e Francesco, a metà degli anni sessanta, anch’esse raccontate sulla mia pagina facebook da Paolo. Con una differenza non da poco: zio Elia, io e Paolo dovevamo rendere conto ai nostri genitori; i due adolescenti del 1943 corsero il rischio di impattare con le leggi di guerra tedesche, che tenere non erano. Proprio in quel periodo ci fu il triste episodio della fucilazione di nove giovinetti aquilani che, impossessatosi di armi quasi inoffensive, fecero partire qualche colpo contro una pattuglia tedesca nei pressi di Collebrincioni.
Mentre i due bighellonavano lungo le strade di campagna che univano Scoppito con Cese di Preturo si imbatterono in un mezzo tedesco all’interno del quale era stata lasciata incustodita una Lugher, pistola militare d’ordinanza. L’azione fu più veloce del pensiero: sgattaiolarono all’interno della cabina del camion, presero la pistola, la infagottarono con un loro maglione e via di corsa verso casa dove la nascosero ben bene per poi riprenderla ogni tanto per “esercitarsi” e progettare brillanti azioni militari per difendere l’onore dell’Italia contro il nemico occupante tedesco.
Ma i segreti a Santa Maria non sono mai durati troppo e zio Elia, che come detto si trovava più o meno clandestinamente a Santa Maria, reduce dopo l’armistizio dalla campagna di Grecia, fece ai due ragazzi suoi cugini una bella ramanzina, sequestrò loro l’arma della quale fece sparire ogni traccia. Per una strana legge del contrappasso, zio Elia, che da adolescente si era reso protagonista di una analoga storia, divenne il castigamatti di quei novelli mariuoli che volevano giocare a fare i grandi.

Quando quel triste TEMPO DI MEZZO di Santa Maria finalmente finì, nulla fu come prima. I ragazzi partiti per la guerra tornarono e si allontanarono dalla spensierata vita di campagna che li aveva visti crescere. I più trovarono tra le ragazze del medesimo Borgo le compagne di vita: mio padre sposò mamma Cristina, zio Mario sposò zia Ernestina, sua stella polare durante i lunghi anni di guerra e di prigionia, zio Domenico sposò zia Maria; altri ancora le trovarono in paesetti vicini; zia Elena sposò zio Angiolino, originario di Tussio, tornato dopo una lunga prigionia in India.
Quasi tutti cercarono altrove il lavoro del quale vivere ed il paesetto si è spopolato ancor più di come lo era stato a causa della guerra.
Le tradizioni e la memoria di quei tempi sono stati però coltivati e rinvigoriti dai racconti dei vecchi che tutte le estati, nelle fresche notti serene, riempivano le orecchie ed il cuore di noi ragazzi che tornavamo con i nostri genitori nel luogo di origine.

Oggi è un giorno particolare che per noi Italiani significa la fine della guerra e la riconquista delle libertà democratiche. Non è retorica raccontare questi fatti ai nostri figli ed ai nostri nipoti; è giusto che loro comprendano quale grande valore hanno la pace e la libertà. Quel periodo della nostra piccola e grande storia ha significato la completa negazione di quei valori: che la memoria di quei fatti sia loro di monito per vivere ed agire perché quanto accaduto allora non si verifichi di nuovo!

 

 



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