UNA CASETTA DI CAMPAGNA


- di Angelo De Angelis -

 

La mia casetta di campagna si affaccia sulla piazza di Santa Maria e fa parte della mia storia. Non è una costruzione importante o di pregio architettonico; è realizzata in pietra e mio nonno e prima di lui non so quante altre generazioni di miei avi, l'hanno utilizzata come stalla e pagliaio; un tavolato in legno sostenuto al centro da una massiccia trave di quercia separava due locali.
Al piano terreno c'era una mangiatoia, che occupava la parete più lunga; realizzata in pietra e calce, era sormontata da un tronco di legno di olmo, solcato da profondi incavi circolari nei punti dove erano ancorate le corde che tenevano legate per il collo le mucche che, per secoli, hanno trovato  ricovero all'interno. Queste, raccogliendo con la bocca il fieno nella mangiatoia, sfregavano con il collo quel tronco consumandolo e lisciandolo, fino a farlo divenire, al tatto, delicato come un drappo di seta.
Per terra la massicciata di pietra calcarea, levigata più dei ciottoli di fiume dal continuo calpestio di zoccoli ferrati, convogliava gli scarichi in una canaletta che sboccava sulla strada bianca e poi, ma solo quando ero bambino, nella fognatura realizzata dal comune.
Da ragazzo, quando l'estate andavo a trascorrere le vacanze in campagna, mi piaceva osservare ed aiutare mio nonno in quei gesti atavici di cura degli animali e di immagazzinamento delle scorte di fieno. Sudore e stanchezza nell'imparare e ripetere quei gesti sono ormai patrimonio dei miei ricordi ed hanno forgiato il mio carattere.
Più di quarant’anni fa, fresco di laurea in Ingegneria, il mio primo progetto fu quello della trasformazione di quella umile costruzione rurale, ormai vuota, in una casa. Del muratore non ricordo neppure il nome, ma parlava sempre dei suoi quattro figli dei quali due, gemelli, si chiamavano come i più famosi gemelli della storia romana.
L'impianto elettrico lo realizzai da solo, nelle mani un manuale della Hoepli,  martello e scalpello per incidere la pietra, per poi murare sottotraccia le canalizzazioni di passaggio dei cavi.
Dopo oltre trenta anni, dodici anni fa, c'è stato bisogno di una nuova ristrutturazione e la casetta è rifiorita, con nuovi impianti, nuovi pavimenti e rivestimenti, pensati, cercati e scelti con cura ed amore. Ho impiegato tutto il tempo libero di un intero inverno e della primavera che è seguita, a restaurare porte, finestre, una scala in legno ed alcuni mobili. Al piano terra i pezzi di una cucina, dismessa dopo un uso ventennale ed adattati con pazienza all’esiguo vano, ha reso funzionale quel piccolo spazio; una vecchia madia che era stata di nonna Apollonia, un tavolo ed un mobiletto a serrandina acquistati al mercato delle cose usate fanno parte dell’arredamento della sala; un divano dismesso e destinato alla discarica è stato recuperato e coperto con tessuto di colore panna e completa l’arredo guardando il caminetto che, anche quando è spento, rende caldo e accogliente l’ambiente.
Alle pareti vecchie copertine incorniciate della “Domenica del Corriere” illustrate da Beltrame, che pure erano state di nonna Apollonia e che raccontano episodi di vita dimenticati oppure passati alla storia e stampe neogotiche tedesche in bianco e nero raffiguranti  paesaggi e persone, acquistate da un rigattiere; lungo la scala che sale alle due piccole camere da letto, dove una volta era il fienile, stampe colorate su un fondo verde che rappresentano i mestieri della civiltà contadina d’altri tempi.
Ho ritrovato, in una vecchia soffitta, due lettiere in ferro di quelle di  cent’anni fa  che, ripulite delle tele di ragno, della ruggine e della poca vernice ancora attaccata a qualche angoletto, fa bella mostra di sé in camera da letto: i montanti e le volute di tubolare di ferro coperte di nuova vernice di colore nero, una fascia della lamiera dipinta con vernice color oro; il resto color sabbia ed al centro due fiori di caprifoglio, riprodotti guardando la pianta che fiorisce a primavera nel giardino.
Il resto dei mobili delle due piccole camere la letto sono semplici, più vecchi che antichi, ma donano all’insieme un’intimità che rende piacevole, rilassante e tranquilla la breve vacanza che di tanto in tanto mi permettevo di passarci.
All’esterno un piccolissimo cortile aperto sulla piazza contiene, addossate alla parete esterna della casa, due grandi pietre leggermente sbozzate, troppo grandi per trovare posto nei cantonali di case costruite in tempi remoti; le ricordo sempre li, sin da quando, bambinetto, passavo l’estate in paese. Quelle pietre erano utilizzate come sedili dai vecchi che godevano della piacevole frescura estiva della sera, per riposare e parlottare tra loro, come oggi facciamo su facebook. E noi bambini, imitandoli, le utilizzavamo come luogo di ritrovo, sedendoci in numero spropositato sopra di esse. Quando, adulto, tornavo sempre più saltuariamente in quei luoghi, provavo grande commozione nel vedere le nuove generazioni di ragazzi continuare a utilizzare quelle pietre come loro luogo di ritrovo: il mondo va avanti, cambiano le persone, ma le usanze comunque resistono al tempo e ripropongono semplici gesti negli stessi luoghi conservando tradizioni centenarie.
Il tempo passato lavorando dentro quella casetta scorreva veloce e laborioso; facevo qualche piccola sosta seduto sul terzo gradino della scala; accendevo mezzo sigaro e guardavo i vortici di fumo che come riccioli effimeri si disperdevano nell’aria; pensavo ai momenti magici passati con nonno Eliseo che, fumando anche lui il sigaro toscano che ogni volta gli portavo in regalo, mi raccontava dei lunghi sette anni di militare passati lontano dalla sua casa.
Puntuale, alle tre del pomeriggio, passava a salutarmi un vecchio che a quell’ora faceva la sua passeggiata per il paese: zio Mario, mitico maresciallo della finanza, testimone e protagonista di quell’enorme tragedia umana che fu la seconda guerra mondiale. Come facevo anche da bambino, lo invogliavo in quei racconti drammatici che avevo ascoltato e riascoltato tante volte. Aveva sempre avuto la capacità di rendere leggero e scanzonato persino il racconto di lui che, dopo aver scavato una fossa , stava in piedi al suo bordo in attesa della scarica di fucileria che lo avrebbe ucciso. Arrivato alla soglia dei novant’anni quella sua spensierata capacità narrativa era stata sopraffatta da una forte emozione che lo portò al pianto. Quando questo accadde lo interruppi, gli offrii un caffè e lo accompagnai, discreto, a parlare d’altro: fu quella l’ultima testimonianza di quei giorni tremendi che ascoltai da zio Mario.
La mia casetta di campagna è umile, semplice, piccola e di poco valore, ma ha fatto sempre parte della mia vita e dei miei ricordi più spensierati. Gli sforzi per ridare nuova vita a dei semplici sassi ed il tempo passato in solitudine a lavorare manualmente su quei vecchi oggetti d’arredo mi hanno fanno raccogliere brandelli di anima delle persone che in mezzo a quei sassi sono vissuti, hanno lavorato, hanno gioito ed hanno sofferto; ed anch’io ho trasferito parte della mia anima in quei luoghi che inanimati non sono.



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