Oggi è Sant'Antonio, particolarmente caro a tante generazioni

- di Angelo De Angelis -
 
 
Oggi è Sant'Antonio, particolarmente caro alla mia famiglia da tante e tante generazioni. Ripropongo qui di seguito un mio racconto che parla di Lui, già pubblicato alcuni mesi fa, dedicandolo a tutti gli Antonio, Antonia, Antonina, Antonietta, Antonella ed Antonello miei amici e non, ai quali faccio gli auguri di buon onomastico.
"La storia di oggi parte dalla chiesetta di Santa Maria Fontepianura passando prima, però, per L’Aquila dei primi anni settanta.
I più anziani di noi ricordano gli stornelli di Sant’Antonio che allietavano le calde serate cittadine quando, di fronte alla quinta meravigliosa della basilica di san Bernardino, si esibivano gruppi folkloristici che partecipavano all’evento principale dell’estate Aquilana, il “Festival delle Regioni”.
Sant'Antonio allu diserte s'appicciava 'na sicarette
Satanasse pe' dispiette glie freghette l'allumette
Sant'Antonio nun se la prende cun lu prospere se l'accende
Sant'Antonio Sant'Antonio lu nemice dellu dimonie.
Sant'Antonio allu diserte se faceva la permanente
Satanasse le' dispiette glie freghette la corrente
Sant'Antonio non s'impiccia, con le dita se l'arriccia
Sant'Antonio Sant'Antonio lu nemice de lu dimonie.
Sant'Antonio allu diserte se cuciva li pantalune
Satanasse pe' dispiette glie freghette li buttune
Sant'Antonio se ne treghe cun lu spaghe se li lega.
Sant'Antonio Sant'Antonio lu nemice dellu demonie.
Sant'Antonio allu diserte cucinava gli spaghette
Satanasse pe' dispiette glie freghette le furchette
Sant'Antonio nun se lagna cun le mani se le magna
Sant'Antonio Sant'Antonio lu nemice dellu dimonie.
Quel Sant’Antonio degli stornelli, un po’ paziente, un po’ guascone e sicuramente ironico, quando viveva in eremitaggio nel deserto, non era soltanto dedito a bisticciare col demonio; ogni tanto interferiva anche nelle cose terrene con qualche piccolo miracolo; ed io ne ho una testimonianza indiretta.
Avvenne nel 1911, nel mese di ottobre. Siamo in Libia, nei pressi di Tripoli, all’interno dell’Oasi di Sciara-Sciatt in piena guerra Italo Turca.
Sant’Antonio meditava in solitudine nel deserto, non lontano dall’Oasi. Vide un uomo barcollante vagare tra le dune. Aguzzò lo sguardo e si avvicinò a lui. Era un soldato italiano, un bersagliere; aveva una profonda ferita al capo ed il sangue gli bagnava la fronte ed il viso. Era frastornato, inebetito, incapace di capire cosa fare e dove andare. Sant’Antonio scrutò il pensiero ed i ricordi recenti di quel povero soldato e vide un piccolo borgo sperduto tra le montagne, una casa, una donna ed un bambino. Poi vide una cruenta battaglia: bersaglieri italiani schierati contro truppe regolari turche, attaccati alle spalle da milizie irregolari libiche. Un massacro; gli italiani si erano difesi fino all’ultimo, ma uno ad uno erano caduti, gran parte morti, alcuni feriti, poco meno di trecento fatti prigionieri. Poi inorridì, il Santo, nel vedere i prigionieri portati nei pressi di un cimitero e qui accecati, decapitati, crocifissi, sviscerati, bruciati vivi o tagliati a pezzi. Infine quel povero soldato semisvenuto a terra: lo vide nascondersi, in uno sprazzo di lucidità, nel mucchio di suoi commilitoni morti, scambiato egli stesso per morto quando i libici diedero il colpo di grazia ai feriti incapaci di muoversi autonomamente dal campo di battaglia.
La mente confusa di quel soldato aveva ripetutamente invocato il Santo. Quando questo gli si parò innanzi lo scrutò in volto, lo riconobbe: gli occhi gli brillarono ed il viso sofferente si distese in un ampio sorriso. Silenziosamente gli disse grazie. Sant’Antonio si intenerì, lo prese per mano e sorreggendolo lo condusse fino al campo italiano.
Quel bersagliere aveva nome Francesco, detto Checchino, ed era il fratello di mio nonno Angelo, a sua volta nonno dei miei cugini Paolo, Annamaria, Francesco, Renzo, Silvana, Anna, Franco, Alfonsina, Maria Pia, Matteo, Berardino,Franca, Maria Teresa, Carla, Mauro, Duilio e Graziella… No, non ne ho dimenticato nessuno, sono tanti. Si, perche zio Checchino, tornato dalla Libia, partì per le trincee della prima guerra mondiale e fu uno dei pochi che, dopo quella “inutile strage”, tornò ferito, ma vivo al suo paesello essendo sopravvissuto quasi indenne a quarantuno lunghissimi mesi di guerra. Guardando le date di nascita dei miei zii suoi figli, otto in tutto e tutti diventati adulti e poi vecchi si può ricostruire il suo foglio matricolare: salta all’occhio come, ad ogni licenza o ad ogni pausa delle sue campagne di guerra, mettesse in cantiere un erede, senza preoccupazioni per il futuro; infatti mai aveva dubitato del ritorno a casa perché era certo della presenza protettrice del suo Santo. Ne aveva viste e vissute talmente tante che, tornato definitivamente alla semplice vita di contadino, non amò mai raccontare le storie di guerra; preferì seppellire quei ricordi nei meandri della sua mente, e quelle esperienze ne condizionarono il carattere, burbero e taciturno.
Anche nonno Angelo aveva una cieca fiducia in Sant’Antonio. Lui, classe 1871, non aveva partecipato né alla guerra di Libia, né alla prima guerra mondiale; ma come ancora oggi accade a tutti noi, aveva dovuto combattere quotidianamente le sue piccole guerre, sicuramente meno cruente di quelle vissute dal fratello Checchino, ma ugualmente pregne di paure e di pericoli.
Accadde che zio Ugo, suo primogenito, all’età di cinque anni - siamo nel 1910 - improvvisamente si ammalò di bronchite. Non era una cosa strana, allora. I bambini vivevano allo stato brado in campagna. Camminavano spesso scalzi portando le scarpe in mano per non consumarle, perché l’unico paio di scarpe doveva durare finché il piede non cresceva troppo. Le case non erano dotate di riscaldamento: c’era solo un camino in cucina ed il letto, nelle fredde notti invernali, veniva riscaldato, a sera, mettendo sotto le coperte “ju prete” un telaio di legno simile ad una sedia, all’interno del quale alloggiava “ju scallalettu”, una sorta di pentola di rame col manico ed un coperchio con grossi fori rotondi, all’interno del quale si metteva la brace del camino.
La bronchite non passava e presto divenne polmonite. E di polmonite si moriva.
Il medico c’era, don Lorenzo Marrone, personaggio intrepido che sfidava anche le bufere di neve per raggiungere, a cavallo, i suoi assistiti, di giorno e di notte. Ma non c’erano le medicine. La penicillina era di là da venire; di antibiotici nemmeno a parlarne; si conosceva appena l’aspirina, sintetizzata nel 1897, ma era cosa da ricchi. Si poteva contare solo sul miele, su tisane e suffumigi a base di erbe sapientemente raccolte nei campi.
Per malattie gravi, come la polmonite, c’era una sola tipologia di rimedio: ognuno ne aveva una variante e mio nonno si affidò a Sant’Antonio che lo esaudì e zio Ugo, classe 1905, è vissuto fino al 1977.
Torniamo infine da dove siamo partiti, dentro la chiesetta di Santa Maria Fontepianura: l’ho già raccontato qualche giorno fa, c’era una madonna lignea con bambino del 1200; “ci sono affreschi dei Padri della chiesa del 1300, un affresco del 1500 della Madonna di Loreto trasportata dagli angeli, brandelli di altri affreschi dei quali non sono mai riuscito a riconoscere il soggetto né l’epoca”.
Sulla parete di fondo, a fianco dell’altare, appeso a mezz’altezza, c’è infine un piccolo, insignificante quadro con una semplicissima cornice di legno che racchiude un pezzo di tela cerata stampata: nessun valore artistico, nessun valore economico: rappresenta Sant’Antonio.
Quel quadro fu donato da mio nonno per ringraziare il Santo per aver salvato la sua creatura e zio Checchino si inginocchiava solo davanti a quell’immagine.
Ancora oggi, quando entro nella chiesetta, il mio primo sguardo è per Lui.

 



Condividi

    



Commenta L'Articolo