LA GRANDE GUERRA DI NONNO ELISEO - LA CAMPAGNA DI FRANCIA

- di Angelo De Angelis -



Hai ammazzato nemici in guerra?
In un momento di quiete, seduti una sera sulla grande pietra posta al margine della piazza di Santa Maria, io bambino trovai finalmente il coraggio di porre questa imbarazzante domanda a nonno Eliseo. Pronunciai le poche parole di corsa e con un filo di voce, diventando rosso come un peperone per l’emozione, con la paura nel cuore per la risposta che forse sarebbe venuta.

Nel corso degli anni successivi la stessa domanda provammo i miei amici ed io, a porla ad altre persone che avevano vissuto l’esperienza della prima, della seconda guerra mondiale, o di una delle guerre coloniali della grande storia d’Italia. E sempre ho colto il grande imbarazzo dell’interlocutore. Quelle giovani anime appartenenti ad uomini semplici e buoni non riuscivano ad accettare, neppure a distanza di anni, il ricordo di una esperienza tragica e drammatica: furono comandati di uccidere e farsi uccidere, di incrociare baionette, puntare fucili e cannoni contro altri ragazzi come loro, ancora acerbi e pieni di voglia di vivere e di nostalgia per la loro famiglia. Il peso delle cose fatte in guerra riemergono in tempo di pace e diventano l’incubo costante di chi sente addosso il peso di aver spento una vita. Alcune di quelle persone avevano sepolto nell’angolo più recondito della loro mente i ricordi di morte che, riaffiorando, li portava a chiudersi in un angosciato mutismo: ma la tristezza che traspariva dagli occhi persi nel vuoto raccontava più di mille parole.

Nonno Eliseo si aprì in un tranquillo sorriso esclamando “pe’ grazia deju Padreternu non so’ tenuto mai spara’ a nnisciuno!”.
Stentai a crederlo, ma i suoi racconti ed i documenti che poi sono riuscito a raccogliere hanno confermato la semplice verità affermata dalla sua serena reazione, ancor più che dalle parole.

Nonno Eliseo, nato e vissuto in campagna, nello sperduto borgo di Santa Maria, al centro di un anfiteatro di monti, abituato alla cura di mucche, asini e cavalle che erano l’aiuto indispensabile al duro lavoro dei campi, fu arruolato nel 1912 dal Regio Esercito in un reparto di Cavalleggeri; alto poco meno di un metro e sessanta, leggero come un fuscello, dal fisico agile e forte, con una spiccata attitudine al dialogo con gli animali ai quali parlava come a persone e dai quali veniva ascoltato e compreso, fu considerato la persona giusta per prestare il servizio militare e poi quattro lunghi anni di guerra, dal 1915 al 1918, in simbiosi con un cavallo. E raccontando le storie di quel periodo ha conquistato l’accesso al mito come maestro di filosofia di vita, al pari del centauro Chirone, che fu maestro di Achille, Asclepio ed Eracle.
I nostri libri di storia e la retorica post unitaria, parlando della “Grande Guerra” evocano immagini di trincea, di uomini ingoiati dal fango, di cariche di fanteria infrante contro muri di proiettili di mitraglia e recinti di filo spinato, di cadaveri lasciati marcire al sole o nella melma di sangue e terra, di giovani vite cristallizzate nel ghiaccio eterno delle Dolomiti; parlano di un teatro di guerra compreso tra il Piave, fiume sacro per eccellenza ed il Tagliamento; parlano delle città irredente di Trento e Trieste.

Nessuno di questi racconti è mai uscito dalla bocca di mio nonno; la sua storia si svolgeva in terre straniere, parlavano di Albania, di fronte occidentale, di regione dello Champagne, del Generale Peppino Garibaldi… tanto da lasciarmi confuso ed incredulo… ma andiamo con ordine cominciando dalla fine.

Nonno Eliseo si trova in Francia; ha seguìto, con il battaglione dei Cavalleggeri di Lodi, il II Corpo d’Armata Italiano che è partito da Brescia ad aprile 1918 con ottantasette convogli ferroviari. Dopo la disfatta di Caporetto, a fine ottobre 1917, l’Italia ha avuto il supporto di truppe straniere, soprattutto francesi, accorse per consentire allo sbandato esercito di riorganizzarsi dietro la linea difensiva del Piave.
Nella primavera del 1918 l’Italia, stabilizzata la nuova linea di difesa, ricambia il favore alla Francia inviando un contingente di 60.000 uomini; fanno parte di questo piccolo esercito il 7° e 8° squadrone Cavalleggeri di Lodi, che vengono schierati tra la città di Reims e La Marna con compiti di collegamento e ricognizione.
Reims, nella regione dello Champagne: nel 1976 visitai quella zona con il mio amico Agostino. A bordo della sua modaiola A112 Abarth 70HP color celeste metallizzato percorremmo per lungo e per largo quella ed altre regioni della Francia e della Germania. Al ritorno raccontai a nonno del nostro vagabondare. Aveva ottantasei anni ed ancora ricordava i nomi dei compagni, delle città e dei paesi dove aveva soggiornato sessant’anni prima; nomi che io stentavo a ricordare, nonostante fossero trascorsi solo pochi giorni dalla fine della vacanza. “Gente strana” esclamò; “mittu a fracicà gli cauli entro alle butti e ‘po seji magnano” (mettono a marcire i cavoli dentro alle botti e poi li mangiano)! Nonno in Francia aveva scoperto i crauti, che in quel viaggio del 1976 avevano costituito il pasto preferito da me e da Agostino, insieme a wrustel e un buon boccale di birra. A parziale discolpa della strane usanze alimentari francesi, nonno Eliseo concludeva con un “…però faceano ‘nu vinareju biancu che era propriu bbonu!”; oltre ai crauti aveva anche scoperto lo Champagne, che al confronto con l’acitella che tirava fuori dalla sua vigna di Santa Maria doveva sembrargli un nettare degli dei.
I compiti di collegamento e di ricognizione che il nostro cavalleggero doveva svolgere consistevano nel portare ordini ed informazioni da un luogo all’altro e nell’esplorazione di territori al fine di verificare numero e consistenza di truppe nemiche; non prevedevano battaglie sanguinose ed assalti a nemici trincerati nel fango; erano compiti da svolgere con discrezione e prudenza, senza clamore e senza supporto d’artiglierie, compiti in cui non si doveva sparare al nemico, ma che lo mettevano nella condizione di fare da bersaglio come l’orso della giostra.
Un giorno fu mandato, in perfetta solitudine, ad esplorare un territorio recentemente abbandonato dalle truppe tedesche, che avevano arretrato le loro linee di difesa di alcuni chilometri, per preparare un contrattacco contro i francesi. Siamo nel pieno della Seconda Battaglia della Marna.
Nonno, in groppa al suo cavallo, si trovò a percorrere territori sconosciuti alla ricerca di indizi sulla presenza di truppe nemiche. Non c’erano droni, e nemmeno biplani da ricognizione. Ci si affidava all’occhio attento e vigile del cavalleggero. Entrò in una stretta gola priva di qualsiasi riparo con ripide pareti a destra ed a sinistra. Fu pervaso da una strana inquietudine: se sulle alture circostanti ci fosse stata presenza nemica sarebbe stato un bersaglio fin troppo semplice da colpire. Per farsi coraggio nonno, nipote di Don Domenico, zi’ Prete, intonò un canto di chiesa in latino, il “Te Deum”:
TE DEUM LAUDAMUS:
TE DOMINUS CONFITEMUR …
più cresceva la paura, più la voce cristallina aumentava di volume, ed il canto sacro duettava con il suo eco nella stretta valle:
TE AETERNUM PATREM,
OMNIS TERRA VENERATUR…
Più si inoltrava, guardingo, nella gola, più il disagio cresceva;
TIBI OMNES ANGELI,
TIBI CAELI ET UNIVERSAE POTESTATES…
vide improvvisamente affacciarsi dal margine delle creste circostanti centinaia di elmetti chiodati, con volti che, meravigliati, si misero ad ascoltare il solenne canto gregoriano in latino, così fuori contesto in quei luoghi;
TIBI CHERUBIM ET SERAPHIM,
INCESSABILI VOCE PROCLAMANT…
Nonno riuscì a mantenere il sangue freddo, continuando a cantare l’inno sacro e facendo voltare indietro, con gesto leggero e disinvolto il cavallo. Poi, al grido di:
SANCTUS, SANCTUS,
SANCTUS DOMINUS
DEUS SABAOTH…
piantò gli speroni stellati ai fianchi del destriero, con una forza mai osata, e con galoppo impetuoso guadagnò la via del ritorno prima che, attoniti e quasi ipnotizzati dalla melodia, in uso anche presso le loro chiese riformate, i soldati tedeschi si rendessero conto di chi fosse quel piccolo soldato italiano e cosa stesse facendo.
Raccontava Nonno, non senza un punto d’orgoglio, che all’alba del mattino seguente iniziò un bombardamento a tappeto sui luoghi indicati, che certo risparmiarono alle truppe alleate non poche perdite quando la fanteria attaccò quelle postazioni.

Il Generale Peppino Garibaldi: quando nonno Eliseo mi parlò per la prima volta di quell’uomo pensai che fosse ormai vittima delle tante primavere vissute, per aver cominciato a confondere nella sua testa avvenimenti di epoche differenti. Provai a fargli capire l’assurdità della presenza di quel generale in un luogo ed in un tempo che nulla avevano a che fare con l’Eroe dei due mondi, ma Nonno Eliseo emise un borbottio, quasi un grugnito che significava “so bene quello che dico, non mi sono mica rincoglionito”.
Ed aveva ragione: in quell’epoca non esisteva il signor internet al quale chiedere informazioni e le enciclopedie spesso non trattavano in maniera approfondita gli argomenti di interesse. Così passai un intero pomeriggio dentro la biblioteca provinciale “Tomassi” a consultare testi di storia della prima guerra mondiale… ed il Generale Peppino Garibaldi, che però non era generale ma “Colonnello Brigadiere” esisteva davvero. Era figlio primogenito di Ricciotti Garibaldi e nipote dell’Eroe dei due mondi. Era vissuto nel mito del famoso nonno e come lui fu un impareggiabile avventuriero che svolse mille mestieri tra Italia, Nord e Sud America, Sud Africa e Grecia; combattè i Turchi in Grecia, dittatori in Venezuela, Guayana e Messico, combatté contro i Boeri in Sud Africa. Ovviamente fu un interventista sfegatato e non seppe aspettare l’ingresso in guerra dell’Italia: con un corpo di volontari “garibaldini”, nel 1914 andò volontario in Francia, sul fronte delle Argonne, salvo rientrare in Italia l’anno dopo dove militò con i Cacciatori delle Alpi”. Dallo spirito inquieto ed indipendente, fu non a caso spedito dal regio esercito in Francia con il II Corpo d’Armata nel 1918, dove combatté nella zona di Reims e qui, il giorno 11 novembre 1918 ebbe la fortuna di incrociare mio nonno Eliseo.
A nonno fu consegnato un dispaccio segretissimo in busta chiusa da mille sigilli, da recapitare, a costo della vita, al Colonnello Brigadiere Peppino Garibaldi in persona. Nonno partì al galoppo lungo il fronte dove da anni si continuavano a spegnere centinaia di migliaia di giovani vite, e riuscì alla fine a raggiungere l’obiettivo. Salutò in maniera marziale il mitico Colonnello e rimase sull’attenti ad attendere ordini. Peppino apri la busta, estrasse il dispaccio, lo lesse, guardò nonno fisso negli occhi e gli chiese “Caporale, che pensa di questa guerra, finirà prima o poi?”.
Erano tempi strani, quelli. I disfattisti venivano fucilati senza troppe formalità; la censura era terribile perché non dovevano trapelare le atrocità del fronte.
Nonno rimase in imbarazzo: non voleva fare la figura del guerrafondaio che proprio non gli si confaceva, ma neppure voleva dire quello che nell’intimo pensava. Poi il buon senso contadino prevalse e sorridendo sornione rispose “signor Generale, per noi questa guerra è diventato un mestiere… Se perderò questo lavoro, tornerò a fare il contadino in Abruzzo”. Peppino Garibaldi dette delle calorose pacche sulla spalla di Nonno, manifestando la sua simpatia per quel piccolo caporale Cavalleggero, e di rimando, con tono solenne, esclamò “CAPORALE, LA GUERRA E’ FINITA!”
Nonno Eliseo aveva recapitato al Colonnello Brigadiere Giuseppe Garibaldi l’ordine del cessate il fuoco a seguito dell’armistizio di Compiegne tra Francia e Germania, firmato alle ore 5,00 dell’11 novembre 1918.
Ma la sua guerra non finì con questa ultima missione: mentre gran parte del suo battaglione si imbarcava il 31 gennaio e via mare raggiungeva Napoli, il suo 8° squadrone restò in Francia insieme ai “Cacciatori delle Alpi” ed al neo promosso Generale Garibaldi. Furono dislocati nei pressi di Compiegne, dove a bordo di un vagone ferroviario era stato firmato l’armistizio e svolse mansioni di pattugliamento del territorio fino al 31 marzo 2019.
Il ritorno in Italia fu via terra, con tappa a Torino, dove i militari rimpatriati riempirono tutte le caserme disponibili e gli ultimi arrivati furono ospitati da famiglie che, dietro compenso, davano vitto e alloggio ai militari. E nonno Eliseo chiuse in bellezza i sette anni regalati alla Patria, non solo per l’ottimo trattamento che la sua famiglia ospite gli riservò, ma soprattutto perché in quella casa c’erano “tre belle fije jovinotte…”. Nonno non ha raccontato mai nulla di più di questo gioioso rientro in Italia, ma a me è sembrato intendere qualcosa di più, ma è solo una supposizione e per questo non ne parlo!
Restano da raccontare ancora i primi tre anni di guerra, che nonno Eliseo passò in parte in Italia ed in parte in Albania: ma queste sono altre storie!



Condividi

    



Commenta L'Articolo