Rilettura di ”Epistolario Collettivo” G.Piccioli, 1973

INTRODUZIONE DI GIUSEPPE LALLI

   Lo scritto che segue è a firma di Enrico Cavalli, storico aquilano assai noto ai lettori di “Assergi Racconta”. Si tratta della recensione di un romanzo di Gian Luigi Piccioli dal titolo “Epistolario collettivo”, presentato in riedizione all’Aquila il 19 settembre 2019 presso l’Auditorium della Fondazione Carispaq.

   Il libro, il terzo romanzo dell’autore, romanzo epistolare, quando si era presentato al pubblico per la prima volta, aveva ottenuto, come era stato sottolineato dai curatori della manifestazione, tra i quali la Dottoressa Angela Ciano e il Professor Carlo De Matteis, un buon successo di critica e di pubblico, con recensioni sui maggiori quotidiani nazionali. In esso l’autore ripercorre un secolo di storia post unitaria - dal 1860 al 1973 - del meridione, attraverso le testimonianze epistolari degli abitanti di un paese dell’Abruzzo aquilano, Navelli, che è anche la terra d’origine della famiglia dello scrittore. Le lettere sono immaginarie ma verosimili, al punto da sembrare vere, poiché storicamente fedeli agli eventi narrati e all’ambiente socio-economico rappresentato. Le voci narranti sono anonime, ma l’identità dei mittenti si intuisce dal contesto, ed appartengono ai vari ceti sociali del territorio, ma anche a personaggi provenienti da altre parti d’Italia (funzionari dello stato militari professionisti). Attraverso le loro corrispondenze passano gli eventi decisivi della storia d’Italia: l’occupazione “piemontese” del territorio, la lotta al brigantaggio, la prima emigrazione in America di fine Ottocento, la Grande Guerra, i conflitti politici del dopoguerra, l’avvento del fascismo, la seconda guerra mondiale, il miracolo economico, il declino della civiltà contadina. Insieme a questi eventi, che, pur giungendo nel paese di riflesso, ne determinano il destino, ci sono i mille eventi della quotidianità paesana. Ne viene fuori un affresco vivissimo di vita reale fatto di mille voci che s’intrecciano in una accorta variazione di toni e di registri anche linguistici, in un contrappunto sapiente di punti di vista e di ragioni che affascina e fa riflettere sulla nostra storia e sulle vicende delle nostre piccole comunità di campagna.(G.L.)

Rilettura di ”Epistolario Collettivo” (G.Piccioli, 1973), c/o Fondazione Carispaq., settembre 2019.                                                             

                                                                     di Enrico Cavalli

   Questo “romanzo storico” dal suo eponimo di genere epistolare (scelta Autoriale peculiare, essendo quella partizione letteraria, sorta nell’Illuminismo, perciò, antitetica a recuperi del passato in senso progressivo), pose Navelli e zona a ridosso della nuova provincia Pescarese dal 1927, come case study dell’Aquilano, non solo più per la leggenda dello zafferano-oro rosso, ma anche nella contemporaneità, fermo che per Benedetto Croce il “passato” è sempre “contemporaneo” .

   “A specchio” del “romanzo storico” in esame, che ebbe su “RAI 2”, nel 1987, un adattamento televisivo con consulenza storica del docente dell’Università dell’Aquila Umberto Dante, chiedendo a mo’ del filosofo György Lukacks “cosa ci sia di vero in ogni siffatto (romanzo) prodotto letterario”, allora, ci si dispone sui tasselli tematici stesi dall’Autore: Unità, moti sociali, due guerre mondiali e fascismo in mezzo, Liberazione, Boom anni’60… tutte congiunture “contra” Navelli.

   Insomma, si è chiamati a discettare dell’arco temporale che segna la nascita dell’Italia fino (se vogliamo) ai giorni nostri ed entro la specola di una “periferia” destinata a subire le scelte del “centro”, sebbene non sempre sia andata così: le ”capitali”, invero, molto sensibili alle istanze delle provincie stando alla lettura, ad esempio, dei dispacci prefettizi fra le due guerre mondiali nel Paese (in comparazione storiografica, potremmo citare le ricorrenti preoccupazioni della Parigi rivoluzionaria, circa l’essere isolata rispetto ai dipartimenti “vandeani” nel 1789-95 e legittimisti nel 1870-71).

   Gian Luigi Piccioli pare consapevole di affrontare questioni storiografiche cruciali dell’Italia, ciò che costituisce una “questione storiografica” prima ancora di essere “espressione geografica”, come da definizione legata alla memoria del cancelliere asburgico Klemens von Metternich. Alla vigilia della controversa Unificazione, anche per l’”Epistolario” serve un approccio alle tematiche che deve sempre evitare i rischi della memoria “Adulterata, Frammentata, Manipolata”, come ammonisce l’allievo di Renzo De Felice, Paolo Mieli. D’altro canto, lo stesso storico marxista Luciano Canfora dice che, dinanzi a migliori documenti e mutamento culturale dei tempi, il revisionismo non è ideologico.

   L’opera piccioliana rasenta le monografie crociane (Pescasseroli e Montenerodomo, 1919-22) per assonanza di gerarchie sociali fra centri montani, ma scorre sullo scontro di classe (perdurante fino all’arrivo degli Americani nel’44, nel senso che il loro portato morale e materiale riprodurrebbe nuove subordinazioni sociali e non liberazioni), già all’iniziale crudissimo ratto di un infante da parte dell’aquila-animale, usata a metafora della ricorrente L’Aquila-città repressiva (si pensi alla famigerata Legge del marchese aquilano Giuseppe Pica per debellare il “brigantaggio”!) del ribellismo di Navelli-campagna. Fiume carsico dell’opera è il dualismo fra urbe e ruralità, tipico dell’umanità, dalla Bibbia sino agli Annales francesi, passando per le jacqueries e per il sanfedismo: qui, il periodico corto circuito del magistero progressista circa le masse, parteggiandosi per il giacobinismo del 1799, contro i “lazzaroni”, ma parteggiandosi per i “briganti” post unitari e contro chi se non la modernizzazione che sarà certamente fatta di leva ed imposte, ma anche di istruzione ed ”acquedotto” (la promessa ricorrente ai contadini, l’altra metafora da sviscerare nell’”Epistolario”)?

   Coraggioso appare l’Autore, che “denuncia”, in piena “solidarietà nazionale”, nei difficili anni’70 e a 12 anni dal centenario dell’Unità d’Italia, una “guerra civile” nel Risorgimento, tanto più coraggioso in quanto, in quegli anni post sessantottini, l’idea di una contrapposizione fra italiani non si si poteva usare nemmeno in riferimento alla Resistenza. Nel libro si descrive la violenza dei sabaudi sugli abruzzesi, cioè, di italiani su italiani, sdoganando in ambito dell’Aquilano (attraversato da un ribellismo secolare, insito nella fondazione stessa della città-territorio nel 1254), il termine “brigantaggio” e che di recente viene ricondotto, a seconda delle chiavi di lettura privilegiate, al borbonismo-meridionalismo piuttosto che al populismo-socialismo ecc.

    Insigni studiosi in orbita INSMLI, su tutti Salvatore Lupo, sulla scorta delle recriminazioni di Francesco De Sanctis, letterato e ministro della Pubblica Istruzione in età post unitaria, ci dice che la vessazione delle genti sudiste non fu tanto ”nordista”, come dall’oleografia patriottica a targhe alterne o da un “mezzogiornismo” fine a se stesso, anzi, la si armò perché gli intellettuali sfuggiti dalle maglie borboniche, “incitarono” i generali piemontesi a non avere riguardo verso “genti irragionevoli e superstiziose”. Quest’ultima annotazione, di tenore culturale, ci porta a considerare che, in linea con un certo materialismo dialettico che aleggia nell’Epistolario, la religiosità è vista come sovrastruttura; eppure, ci preme rammentare che fu l’Autore dirigente ENI sotto Enrico Mattei, partigiano cattolico e in area navellese, e non mancarono preti risorgimentali e resistenziali.

   Nella anabasi delle famiglie di Navelli, ai diseredati tocca emigrare, ma non sradicandosi, una lezione per il fenomeno odierno che invece vede le intellettualità giudicare la necessità di avere un futuro migliore quale traguardo bastevole per i migranti, prescindendo dalla integrazione nei Paesi di arrivo, in quanto, allora, furono le rimesse a fare dell’Italia un late comer della rivoluzione industriale; incomincia una comparazione in stile siloniano, sulle condizioni di chi combatte il padronato a Milano e Torino, le capitali del sistema-fabbrica rispetto agli oppressi in Russia, America, Cina (forse, non i Boxers nazionalisti menzionati nell’opera) :  il tutto, a riproporci della lotta fra città e campagna, essendo gli operai ex contadini catapultati nel sistema capitalistico, cui non sfuggono nemmeno i “neri” pur liberati dalla schiavitù, insomma, un giudizio “mondialista” che annuncia la imminente ”rivoluzione” quando sarà “capita” anche a Navelli.

    Quanto al destino dei maggiorenti navellesi, che sono per definizione reazionari, si dirigono a Roma, Napoli delle rendite parassitarie, contro cui tuona il sindacalismo socialista, non soltanto, si pensi al cattolicesimo; i maggiorenti, di ogni latitudine, hanno sola cura per le agiatezze secondo la impronta della letteratura decadente di Gabriele  D’Annunzio e che sbarcherebbe in veste paternalistica nelle macchie navellesi in epoca dei Grand Tour di scoperta degli Abruzzi: le mitologie del Vate, viste come legittimatrici culturalmente del nazionalismo ed arcaicità agro-silvo-pastorali che relegherebbero a subalternità la periferia di un Paese che punta ad essere potenza europea, senza risolvere le sue tare ataviche; ci vengono a chiosa in mente le parole del filosofo ed amico Dott. Giuseppe Lalli, che proprio ad un convegno sul Navellese del 2018, osservò di “una tendenza meridionale a coltivare virtù private e pubblici vizi, da cui nascerebbe quello scarso senso dello Stato di cui tanto si è parlato fino ai nostri giorni”.

    La pax giolittiana, causante divisione fra aristocrazie sindacali e base operaia (visibili nei vicini stabilimenti di Bussi), quanto sollecitando i contadini anelanti alla terra per una locale fallace ripresa dello zafferano, sembra preludere a ribaltamenti sociali, una palingenesi riformista spezzata dal sisma marsicano del 1915, che non scongiura l’altra assurdità delle “XI battaglie dell’Isonzo” e ferrei codici di fabbrica, ribaltabili col fare in Italia “come in Russia nel’17” e ciò scatenando la reazione dei fautori della IV Guerra d’Indipendenza (questione storiografica, attualissima, si pensi alle polemiche per il centenario Fiumano), al netto del reducismo (qui, sottovalutato) ma che vilipeso funge da catalizzatore coi ceti dominanti, del fascismo (Renzo De Felice docet) e che il riformismo liberale, pensa di moderare, così come la Chiesa, almeno, sino al lento distacco dell’ ”aspersorio dal littorio”, nel 1931.

    La ruralità resta refrattaria al regime e visioni dei rivoluzionari (risuonano i ritmi sociologici della trasformazione della working class in ruling class), a dirla pasolinianamente, nella crisi del 1929, che annienta il capitalismo per l’economia mista, sicché ai fascisti come ai precedenti liberali (e post Resistenti), tocca fare da ministerialisti (l’”acquedotto” dietro l’angolo ed imminente!).

   Per Valerio Castronovo e Giovanni De Luna, in questa precipua e discussa fase c’è pure modernizzazione, nazionalizzazione delle masse, emancipazione femminile, albergando nelle classi in urto (lo dice il “decostruzionismo”, da accettare non in base alle convenienze ideologiche), variegate tonalità e da ricondurre alla specola della libertà non sganciabile dai doveri e da mai assoggettarsi alla giustizia sociale, ferma la condanna alla dittatura delle discriminazioni, guerre anacronistiche, neocolonialismo, però, da valutare pure in contesti inusitati e totalitari altri.

   La II Guerra Mondiale e carico suo per l’Italia (con l’Abruzzo in prima linea) è questione tacita, altro il dibattito sulla defascistizzazione, la vittoria democristiana sul fronte popolare il 18 aprile 1948, ma la Repubblica che esce dal partito-unico, istituzionalizza i partiti-sistema in un Paese dell’attaccamento alla piccola e sentita (sic) patria familiare e municipale.

    L’interventismo keynesiano della Cassa per il Mezzogiorno e Partecipazioni pubbliche, agevolato dall’atlantismo italiano nella”guerra fredda”, proiettano l’Abruzzo nel “Miracolo Economico”, non senza i costi della disunione degli antagonisti  nella contestazione generale al sistema, del salvataggio “della democrazia dalla democrazia”, nuova emigrazione e che grazie alle comunicazioni stradali (la ferrovia, il costante vulnus dell’Abruzzo interno), porta alla locale crescita turistica e che al pari delle aspettative della montagna centromeridionale, non può disgiungersi dal recupero delle antiche vocazioni produttive.

   Mancando la leva fiscale per le infrastrutture agrarie ed esaltandosi trasversalmente la industrializzazione, ora la terra non più alletta i contadini rispetto al passato (ma, l’accademico francese Pierre Vitte esalta gli“openfield”d’area) e con la frontiera ecologica (chance per l’Abruzzo che”ricco”esce dagli aiuti UE, che però non sanno spendere i burocrati sindacalizzatisi), l’Autore in “uscita di sicurezza” siloniana, aspira alla “casa navellese ordinata e luminosa”, intravista nell’”Epistolario”, ora ridiscussa dai nuovi “dominatori” e che chissà non siano le logiche di integrazione UE e globalizzazione, che limitano il Welfare State (di cui testimone-operatore è l’Autore), a merito di statisti e travets pubblici: si pensi alle maestre/i dei mille borghi italici che educano al senso dello Stato generazioni di italiani instillando memorie identitarie, tipo questa opera.

   Hegelianamente o vichianamente, la tradizione non è da contestare a prescindere, poiché essa stessa è ”innovazione che ce l’ha fatta” come l’”Epistolario”spezzone di un microcosmo che al di là di una “sua” narrazione che all’epoca confidava nella palingenesi delle forze subalterne, ci riporta alla persona e  persone protagoniste di contro all’individualismo e grandi collettori ideologici, insomma, alla patria fatta di piccole patrie, l’una, e, le altre, inscindibili, se vogliamo trovare il senso identitario e finalmente condivisibile dell’Italia.



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