STORIE DI CANI E FUCILI NEL PICCOLO BORGO DI SANTA MARIA

- di Angelo De Angelis -

 
 
Frida, un bel cane da caccia, arriva cucciolo nel piccolo borgo di Santa Maria. Sono ancora bambino, lo guardo e me ne innamoro. Zio Elia si è innamorato prima di me di quel cucciolo e, come aveva già fatto per Bobbi e per Cicci, lo prende e lo molla a zio Ugo, che vive in campagna e che può accudirlo meglio di come lui potrebbe fare a Roma, dove lavora.
Orgogliosamente dice che è un cane da caccia di rango, incrocio tra un padre Pointer e mamma Setter, ma per zio Ugo che non è cacciatore, quel cane diviene compagno di lavoro perché, fedele ed affezionato, lo segue giornalmente in campagna. Per noi bambini diviene invece inseparabile compagno di giochi, sempre pronto a scorrazzarci dietro per campi, montagne e vallate, sempre pronto a ricevere le nostre carezze.
Prima c’era Cicci, un simpaticissimo volpino dal pelo lungo e nero, con ciuffi bianchi alle zampe e sotto il collo. Cicci riempiva i racconti di zio Ugo, che aveva una grande considerazione per lui: un giorno dimostrò grande coraggio per aver assalito un tasso che stava facendo razzia in mezzo ad un campo di granturco: saltò in groppa all’animale selvatico mordendogli il collo e cavalcandolo come in un rodeo, con le quattro zampe ben salde contro i fianchi, staccandosi soltanto quando quello, terrorizzato, fu sufficientemente lontano dal campo.
Dopo Cicci venne Bobbi, anche lui cane da caccia. Il legame con lui era assoluto, inseparabile amico, prima ancora che compagno di giochi. Ci legava un affetto esclusivo nato da un piccolo gesto che riservavo a lui ogni volta che andavo a Santa Maria ed entravo nella casa paterna dove abitavano zio Ugo e zia Giovannina. L’ampia cucina era arredata in modo molto semplice con un grande tavolo di legno su cui era posta una spessa lastra di marmo che, disdetta, si era spezzata a metà in un tempo immemorabile ed i due pezzi, mai incollati, erano semplicemente accostati. Intorno tante sedie impagliate, alla parete di fronte alla porta una rastrelliera di legno con ganci di ferro avvitati ed appese una serie intera di pentole, testi e padelle di rame stagnato internamente. Un grande camino che, solo, può raccontare tante storie, occupava buona parte di una intera parete. Il pavimento lo ricordo in mattoni posati a “spina di pesce, alcuni rotti altri consumati dal tempo e dagli scarponi chiodati che si usavano in campagna, poi sostituiti da piastrelloni in graniglia.
Infine una vecchia porta di comunicazione con la casa affianco, che era una volta tutt’uno con quella stanza. La porta fu poi richiusa per separare casa di nonno Angelo da casa del fratello Checchino. Ebbene quella porta, chiusa da un sottile tramezzo, aveva creato lo spazio per una credenza a muro dove trovavano posto le stoviglie e le pentole di uso quotidiano; a metà due cassetti, quello di sinistra per le posate… quello di destra per gli scarti del prosciutto: pezzi di cotenna, ritagli di lardo rancido, parti non utilizzabili dagli uomini, ma vere leccornie per il gatto ed il cane di casa. E’ li che, bambino, mi dirigevo dopo i saluti di rito agli zii per prendere due pezzetti di grasso, destinati uno al gatto, vigile guardiano contro i topolini di campagna ed acerrimo nemico di serpentelli che si avvicinavano troppo alla casa, l’altro al cane che, vedendomi arrivare, di corsa prendeva posizione vicino alla credenza, sedendosi e scodinzolando con le orecchie ben dritte. Il cane, o meglio i cani che in quella casa si sono avvicendati, conoscevano a menadito il rito, che pure è stato raccontato dai miei cugini Paolo e Luciano, che consentiva loro di godere del piacere di quel piccolo pezzo di lardo rancido o di un tozzo di pane secco: una filastrocca imparata da zio Elia a Roma, che rievocava lo sfottò dell’esercito papalino, che oppose una blanda e simbolica resistenza ai bersaglieri che il venti settembre del 1870 irruppero a Roma dalla breccia di Porta Pia, ponendo fine al regno pontificio.
“ALLA GUERRA ALLA GUERRA
SI MANGIA SI BEVE E SI DORME PER TERRA.
SI FA LA VITA ALLA CAGNESCA
PANE TOSTO E ACQUA FRESCA.
CENTO SOLDATI DEL PAPA
NON FURONO BUONI A SPACCARE UNA RAPA
CE NE ANDO’ UNO DEL RE
E NE SPACCO’ CENTOTRE.
ATTENZIONE ALLE TRE BOTTE,
DUE PIANO E UNA FORTE
Bum, bum, BUMMMMM".
Tutti questi cani, dopo un breve addestramento, impararono a stare seduti immobili, occhi fissi sull’indice minaccioso davanti al muso, ascoltando la filastrocca. Si divertivano anche loro, quando veniva urlato il BUMMMM finale, nel lanciare in aria il pezzo di lardo o il tozzo di pane, riprendendolo a volo con la bocca prima che toccasse terra.
Capostipite di questa razza speciale di cani di famiglia fu DRAGONE, cane pastore abruzzese, custode di pecore e di uomini del paese, che non ho mai conosciuto e che per questo è per me un mito, vissuto nei tanti e tanti racconti delle sue prodezze, compiute con una intelligenza e sensibilità più umana che canina.
Ed i fucili cosa c’entrano, direte voi?
Beh, Frida, suo figlio Frido e prima di loro Bobbi erano pur sempre cani da caccia, e zio Elia era pur sempre un cacciatore, ed il fucile ce lo aveva: una bella doppietta “Beretta” calibro 16. Ero affascinato da quell’arma, dalla sua perfezione tecnologica, dalle incisioni floreali sull’acciaio, dalla bellezza del calcio in legno intagliato e lucido, dalla forma dei cani esterni che scattavano veloci azionati da due grilletti che si impugnavano con l’indice e con il medio.
Osservavo quell’arma, la sfioravo con le dita, la imbracciavo col desiderio quando, troppo piccolo, non avevo neppure il permesso di avvicinarla. La imbracciai finalmente quando, all’età di 10 anni, ebbi il permesso di farlo. Traguardai il mirino, poi, fucile in spalla, posai per una foto ricordo con Frida a fianco e chiesi a zio Elia il permesso di andare con lui a caccia.
E qualche giorno dopo così fu; camminammo per ore lungo strade bianche di campagna, il fucile scarico sulla spalla di mio zio, poi in aperta campagna, fino a raggiungere “Ju colle deju ‘Ndreocanu”- il colle di un non meglio identificato abitante di Androdoco, dal quale probabilmente il mio bisnonno Luigi aveva acquistato il terreno. Camminammo lungo rigogliosi filari del vigneto di famiglia fino alla sommità del colle e poi alcuni passi in discesa verso un fosso lungo il cui argine cresceva maestoso un filare di pioppi, alimentati dal rigagnolo di acqua che si esauriva solo al culmine della stagione estiva. Davanti a noi Frida, entusiasta, faceva il suo lavoro di cane da caccia ricercando nell’aria, tra la macchia ed in mezzo all’erba alta, molecole di odori di selvaggina da rincorrere e portare verso il padrone.
Uno stormo di fringuelli ignorava la nostra presenza, svolazzando e cinguettando tra le chiome dei pioppi, inosservati persino dal nostro cane, alla ricerca di ben più soddisfacente selvaggina da levare.
Davanti a quello strabiliante spettacolo della natura zio Elia si fermò, caricò la sua doppietta con cartucce n. 10, mi mise il fucile in mano invitandomi a mirare verso lo stormo di inermi passeri: mi disse “SPARA”… ed io sparai.
Il contraccolpo del botto mi fece quasi cadere indietro e la spalla destra, dove era appoggiato il calcio del fucile, ricevette un poderoso rinculo che mi lasciò dolorante per giorni.
Ma non fu quello il trauma più grande: lo stormo di uccelli, spaventato, si alzò in volo e trovò un lontano rifugio su altri alberi. Solo un passerello, il più sfortunato, tentò la fuga volando con un’unica ala e descrivendo una miserevole traiettoria ad elica, fino ad atterrare pesantemente a terra. Lo raggiungemmo e lo trovai, non ancora morto, che batteva inutilmente al vento la sua piccola ala non toccata dal piombo.
Finì cosi, con una pena infinita nel cuore, la mia carriera di cacciatore. Continuai e continuo ancora a camminare in montagna, continuai e continuo a camuffarmi tra gli alberi per cacciare, ma solo con gli occhi o con la macchina fotografica, la bellezza selvaggia di uccelli ed animali liberi come il vento, continuo a ricercare ed ammirare la grande bellezza della natura; mai più ho alzato un fucile contro una creatura vivente ed ancora oggi ho remore a estinguere la vita fin anche ad una mosca o ad uno scorpione o ad un topolino.
Una volta un piccolo topo di campagna si intrufolò attraverso la canna fumaria del camino nella cucina di casa; eravamo raccolti intorno al tavolo per il pranzo e ci fu trambusto ed una grande battaglia per catturarlo facendolo entrare in una scatola di scarpe; a quel punto mi allontanai di qualche centinaio di metri da casa e con gioia lo liberai, godendo dello spettacolo di quella piccola creatura che, riacquistata la libertà fuggì dal mio sguardo.
Ed i cani… Dicono che i cani, quando sentono le forze abbandonarli e capiscono che la vita fugge dal corpo, si allontanano dal loro territorio. Così quando, tornando in paese l’estate, non vidi più Cicci, Bobbi o Frida corrermi incontro gioiosi, raccolsi addolorato il racconto di zio Ugo e di zia Giovannina che li avevano visti, ormai vecchi e stanchi, allontanarsi a passo lento dalla casa, girarsi, lanciare un ultimo sguardo al luogo ed alle persone che li avevano accompagnati nella breve vita, per poi raggiungere mestamente il loro paradiso. Ed a volte guardo con occhi di bambino bianche nuvole rincorrersi nel cielo, e mi piace riconoscere in qualcuna di quelle i miei cani che, liberi dagli affanni, rincorrono felici il bambino che non sono più, tra gli azzurri pascoli del cielo.



Condividi

    



Commenta L'Articolo