EMIDIO, AMICO MIO - RICORDO DI EMIDIO DE SIMONE -

L'unico svago è la nostalgia

 Toni Servillo

 

- di Fernando Acitelli -

 

Quante confidenze, quanti racconti, quante carezze interiori, Emidio, ci siamo scambiati nel corso degli anni. Quante aperture verso di me, quante attenzioni hai avuto. E poi: quanta gioia di apprendere avevi, dall’episodio alto, clamoroso, fino alla narrazione bassa che però conteneva un forte retrogusto morale. In quei momenti vedevo che tu, scuotendo la testa, riflettevi. Un lungo silenzio tradiva tutto questo mettendo in luce la tua sensibilità. Quante notti insieme dopo che tutti se n’erano andati (giustamente) a nanna. E tu che dopo l’ennesimo racconto mi dicevi: «Me denga i a durmì…peque me denga rizzà prest…» Ma un sorriso ti macchiava lo sguardo ed era come se mi stessi dicendo: «Non ti posso lasciare qui…» E allora rimanevi al tuo posto, volendo portare ai limiti estremi quel giorno che s’era archiviato col sopraggiungere della notte. E rimandavi il tuo ricongiungerti con la casa e questo perché non avevi terminato di espormi gli ultimi accadimenti clamorosi e gli aggiornamenti con venature amorose. Ricordo una notte nel tuo splendido monolocale che era la Fiat 500: non ce la sentivamo di finire in branda e così la cassetta dei Pink Floyd The dark side of the moon andò spedita per ore e ore nel registratore: e noi parlavamo sopra le note perché con la musica in sottofondo pareva che le nostre confidenze fossero ancora più vere, più liriche. Si faceva sempre più tardi ma io ero in vacanza mentre tu eri in servizio permanente effettivo con il lavoro. La macchina era parcheggiata alla salita dei Frati dove c’è uno spazio per svoltare a destra, verso la bottega di Marietta. Ora io capivo che eri contento di respirare la mia figura. E lo stesso potevo dire io per te. Mi mettevi a disposizione tutto il tuo cerchio di amicizie legate allo sci e di ogni personaggio, dopo che me lo avevi presentato, stilavi una mini biografia in cui c’era rappresentata tutta la vita di quel tuo amico. Avevi una capacità di sintesi fuori del comune: con quattro pennellate a base di parole mi dipingevi quell’uomo, quel maestro di sci, quel tuo amico de L’Aquila, quella tua amica di Roma. Di quest’ultima, da te conosciuta a Campo Imperatore, mi ricordo mi dicevi che a Roma abitava in via Cavalier d’Arpino. Me lo ripetevi sempre e anche in questo caso subito partiva la tua mini biografia per lei e per i suoi famigliari. Eri d’animo lieve, cioè buono, e quello che a te interessava era stabilire da subito un trattato di pace con la serenità: era proprio questo che io avvertivo ogniqualvolta mi parlavi de gli petalucc mi, che stava a Roma e che avevi appena sentito telefonicamente. Ricordo una sera che a lei telefonasti dalla cabina del bar, che stava fuori, sullo stesso lato dell’entrata. Uscivi fuori dalla cabina sempre sereno ogni volta che c’era stato il contatto e che avevi di nuovo ben posizionato la tua figura ed il tuo animo su quelle coordinate lontane. All’interno del bar e anche fuori c’era l’onda giovane della gioia, le fragranze dei nuovi arrivati, le sfilate involontarie delle nuove leve della sensualità, e poi la francese da sballo, l’australiana tutta curve, e si respirava in molti la felicità di non avere ancora vent’anni e poi d’un lungo agosto da trascorrere tra le gite al fiume (con il mitico taglio del cocomero), a Campo Imperatore, al Vasto e all’Acqua di San Franco. Ebbene, tu ti sentivi placato e versato in quella gioia che risarcisce, e questo grazie alla telefonata che aveva Roma come ultimo punto della traiettoria. Tutta l’esposizione della gioventù che vedevi intorno ti interessava da diversi punti di vista: come aggiornamento generazionale, per l’aspetto coreografico e per poter dire la tua su chi si posizionava in bella mostra e chi, invece, rimaneva nelle retrovie. Ne avresti stilato successivamente quelle microstorie a timbro De Simone e così con poche frasi avresti riassunto delle esistenze che pensavano (giustamente) a vivere non immaginando che dei ricami lirici s’erano composti tutt’intorno. In questo ci intendevamo a meraviglia e i nostri schizzi pittorici erano pungenti ma gioiosi. Oggi posso dire che la bellezza e la forza della nostra amicizia si basavano per lo più sulla distanza. Ci vedevamo ad agosto e in qualche weekend durante l’inverno: questo evitava che quell’intesa si logorasse. Quella sospensione equivaleva ad un ricamo. Dunque accadeva che di nuovo l’uno di fronte all’altro non dovevamo inventarci discorsi o mandare delle repliche, e tutto si riagganciava spontaneamente sul “dove eravamo rimasti”. Naturalmente c’erano degli aggiornamenti, delle novità, delle variazioni su certe prospettive, un tempo nuovo in rampa di lancio. Avevamo l’agosto davanti, eravamo lievemente spensierati e resistevano i nostri genitori e, nel mio caso, anche i miei nonni materni. C’era soltanto da sottoscrivere quel tuo desiderio di serenità, quel tuo disporti nel tempo con tutti i tuoi amici intorno che avrebbero alimentato con la loro presenza quel tuo sorriso che a volte si macchiava d’una lieve tristezza. Certo la tua vita era già adulta, avevi il lavoro e delle responsabilità ma questo non ti limitava nel coltivare le amicizie: sempre una parola per tutti. C’era l’Emidio gioioso, brillante, efficace nell’esposizione dei suoi progetti e dei ricordi, quindi esisteva un Emidio pensieroso con lo sguardo gettato in terra com’è in una riflessione che stenta a placarsi. In questa seconda attitudine c’era nel suo sguardo tutto il filmato della sua vita (questa era una mia riflessione, ovviamente) e su quei fotogrammi egli insisteva come se fosse necessario che qualcuno di essi si dovesse togliere. Come se in un certo punto della lunga pellicola c’era stata se non una ferita, almeno un’infrazione del senso. Dunque egli avrebbe voluto operare una vera operazione di montaggio, come per il cinema: avvicinare due fotogrammi e magari toglierne altri. Bastava poco perché egli tornasse alla realtà, e questo si poteva verificare con l’improvviso sopraggiungere de du bell coss oppure con una battuta a voce alta, in dialetto romano, che gli faceva subito comporre una fragorosa risata. Il bello era che subito guardava verso di me anche se sapeva benissimo che quella battuta non era stata una mia performance. Il fatto era che guardarmi significava chiedere cosa pensassi di quell’irruzione, di quell’involontario e improvviso aforisma. Io condividevo la sua risata perché sapevo dove voleva andare a parare: l’essenza ce la saremmo svelata successivamente, quando saremmo rimasti soli. Ma entrambi già la conoscevamo. L’evento pirotecnico dell’interpretazione sarebbe giunto altrove, a luci spente. Accanto a questi due aspetti di Emidio, ce n’era un altro, crepuscolare, per così dire. Era l’Emidio nella luce blu/rosa dell’imbrunire: un Emidio che rientrava nella casa in quel bel ritaglio di mondo poco prima della caserma. «Se vedeme dapo’.» - mi diceva al principio del vialetto. Era un Emidio un poco preoccupato ma non era dato sapere cosa si muovesse a quell’ora nei labirinti della sua mente. Ma nel dopo cena era tutto evaporato e incontravo nuovamente l’Emidio scherzoso, frizzante, con giudizi ironici sui personaggi che animavano il palcoscenico del bar. E c’era in lui un senso di pieno, di soddisfazione: tutto si superava anche se gli ostacoli sulla pista della vita erano molti, proprio come in uno slalom sulla neve.

 

***

 

Nei ricordi accade spesso che un’immagine s’impone sulle altre e chiede strada. Noi la ritenevano secondaria, non di primo piano e invece è da essa che si deve partire e ce ne accorgiamo iniziando a ricordare e dunque a scrivere. Almeno questo succede a me. Si tratta di un fotogramma apparentemente sfuocato, ma è su di esso che ci appoggiamo e con il procedere nella scrittura esso diviene l’architrave della narrazione ed anche un luogo interpretativo. Gli altri ricordi possono risultare indubbiamente importanti ma non posseggono quella luce misteriosa che ci fa sospirare e riavvolgere la pellicola del tempo fino a quel giorno dissolto. Dunque: è la festa dei Santi e ad Assergi il tempo mantiene (per quella ricorrenza) la sua scenografia usuale, ovvero grigia tendente alla pioggia: un novembre della fine degli anni Sessanta. La scena si svolge in Piazza, l’orario è poco prima del tramonto. Stiamo giocando a pallone e le porte sono una tra le due entrate della chiesa e l’altra  dopo la fontana.  Il mio fronte d’attacco è verso la fontana. E insomma quell’immagine che s’impone assomiglia ad una antica moneta romana che riemerge alla luce. Nel catalogo d’una esistenza sta a chi rimane sotto il sole frugare nella mente e passare in rassegna tutti quei filmati che altrimenti rimarrebbero sepolti. Emidio proviene dalla Strada Ritta ed è in sella al suo destriero, ovvero la Vespa di colore rosso. Visto che una partita è in svolgimento, egli accosta fermandosi sulla destra poco dopo la discesa e di lato alla casa di Flavio: commenta le fasi di gioco non tralasciando battute ai meravigliosi lisci, alle svirgolate e alle irruenze di Franco Scarcia o alle figure nello spazio di Gianni Sansoni che, con le sue lunghe leve, mi pare adesso, non allora in contemporanea, una disegno futurista in preda al mito della velocità. Con le gambe divaricate, a compasso, in pose sgraziate, avrebbe voluto raggiungere la palla in punti incredibili dello spazio, lungo coordinate previste solamente dal suo istinto aerodinamico: è lui il pericolo vero per il muro della chiesa. E il fratello Giulio in porta che commentava quelle performance con frasi come: «Guardau un boche…cert che te nné te!...» E poi: «A do è che revà?!... E ci refà… Bi lentala!» Dunque non risparmiava neanche suo fratello e di certo si può dire che Giulio sia stato il primo opinionista in diretta di Assergi con quel suo disincanto che ha un’origine stoica. Ma c’erano anche altri fanciulli: Franco Sabatini che aveva nel repertorio la finta come momento sommo e poi insisteva nei dribbling ma sapeva anche coprire bene la palla, quindi Renzo, geometrico e ragionatore ed eterna promessa di centrocampo, Dino Lalli che, a ragione dell’eccessiva velocità, giungeva molto (molto) in anticipo sulla palla e così doveva anche aspettarla, mentre a baluardo di una delle due difese  (non della mia squadra) s’ergeva, come ultimo uomo, l’immacolato Mimmo. Ora questi fanciulli m’appaiono nel ricordo, per gli altri non vedo che figure sfuocate e non so indicarne l’identità. Come detto, una delle porte era situata dopo la fontana e diciamo che i pali – con quel poco di rami recuperato sotto gli arboretti – stavano a una decina di metri dalla casa di Giovanni De Luca e Costanza Rapiti. Quel luogo diventava così occasione di fragore e di esultanza e la palla arrivava a lambire la porta di quelle due persone. Il chiasso dilagava ed io come prendevo palla mi voltavo e calciavo a rete malgrado Franco Scarcia osasse su di me una marcatura a uomo. Ma a quel tempo ero pungente e disinvolto con il pallone tra i piedi. Giovanni De Luca aveva sopportato abbastanza e giustamente non ne poteva più: ad un certo punto, ruzzolando il pallone nei pressi della sua porta, sbottò, e quel ritaglio della Piazza divenne per me molto triste perché capivo che quell’uomo aveva ragione ma allo stesso tempo mi ripetevo che anche noi fanciulli fossimo nel giusto. Fu a quel punto che Emidio si mosse e raggiunse un Giovanni De Luca giustamente furioso dicendogli che i ragazzi se ne sarebbero andati via subito da lì e che poteva loro tranquillante restituire il pallone. La mediazione ebbe un esito positivo e a Giovanni De Luca l’arrabbiatura lentamente s’attenuò. E fu un bene quell’intervento di Emidio perché nessuno di noi fanciulli avrebbe avuto il coraggio e neanche un poco di autorità per parlare con quell’individuo saggio. Emidio era già un uomo, già responsabile nella vita, e la sue parole non erano come le nostre, tutte impregnate di gioia e fantasia, e indubbiamente avevano un valore. In breve la faccenda si ricompose, Giovanni De Luca si placò e la Piazza tornò ad assumere il suo carattere metafisico. Di nuovo tra noi, Emidio ci disse di chiudere la sfida dicendoci che Giovanni De Luca era veramente al limite della sopportazione e che, se avessimo continuato, sarebbe andato subito dai carabinieri. Il pallone, frattanto, era tornato tra noi, ed era un successo questo a livello simbolico. Di colpo la partita si dissolse, i commenti su quel fatto iniziarono ed Emidio incominciò a parlare con me, chiedendomi quando ero arrivato. Colui che veniva da fuori era sempre oggetto di curiosità ma si trattava d’un sentimento buono come per riannodare tutti i fili della comune origine. Io poi con Emidio parlavo tanto anche perché avevo saputo da mio padre che la madre di Emidio, Elena, aveva parentela con il mio genitore. E questo me lo aveva confermato Elena un giorno che ci eravamo incontrati e poi avevamo iniziato a parlare. Il luogo di quell’incontro: la Porta del Colle, davanti la rete di recinzione della proprietà di Mario Acitelli.

 

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Io credo che in questo ritaglio ora descritto vi siano degli elementi importanti da valutare che chiariscono forse come questa immagine della Piazza, di Emidio e della partita a pallone sia sempre viva in me: il primo elemento è che si tratta della festività di novembre e dunque c’è da una parte la santità e dall’altra il ricordo dei nostri morti. Già questo distingue il momento: ad agosto sarei stato molto più allegro, spensierato, ed invece quando raggiungevo Assergi a novembre ero più cauto, spesso anche triste e le immagini mi rimanevano nitide. Il secondo elemento a cui penso è il divenire, il tempo che asfalta ogni cosa e contro il quale gli umani hanno sempre tentato di erigere qualcosa che potesse ostacolarlo. In quella sfida a pallone nella Piazza c’erano nello scenario due forme del Tempo: la vecchiaia e la fanciullezza. La prima che si mostrava con tutto l’affresco delle erosioni, la seconda che faceva della gioia il suo vessillo. La partita a pallone era l’elemento di disturbo, ciò che faceva riportare alla mente (nelle persone in avanti con l’età) i disastri del Tempo, esattamente il contrario di ciò che nella partita si sollevava, vale a dire la forza ed il vigore. La domanda era: ma se quella casa fosse stata abitata da un uomo di trent’anni, che forse si sarebbe fatto sentire a quel modo? Io credo che davanti al chiasso ogni persona può reagire e quindi non ne farei necessariamente una questione d’età. Nel caso di Giovanni De Luca tutto s’amplificava ma di questo, in quella nostra stagione fanciulla, non avevamo esperienza e ce ne saremmo resi conto soltanto con il passare degli anni e diventando anche noi discretamente adulti. In più quello “scontro generazionale” s’era verificato durante la ricorrenza del Santi e dei Morti e non era da sottovalutare questo aspetto visto che la riflessione, il ripiegamento su di sé erano forti in quelle due giornate. E questo io lo pensavo veramente: come io tenessi alla salute dei miei nonni, allo stesso modo volevo che tutti i nonni di Assergi mantenessero a debita distanza, per quanto era possibile, fastidi e tormenti. Non esagero dicendo che in quelle grida di Giovanni De Luca io rividi mio nonno. E se fosse accaduto proprio a mio nonno un episodio del genere che io, forse, non sarei intervenuto a placare le acque? Quel giorno si chiuse con quelle immagini: le grida e la successiva quiete ed Emidio che s’allontanava, si dissolveva  in salita, come in film di Charlie Chaplin.

 

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Fu un bene che la partita si fosse chiusa a quel modo, dunque con una pace non scritta ma concordata grazie ad Emidio. Se così non fosse stato, magari abbandonando la scena imprecando, noi saremmo stati sempre in dissidio con colui che aveva interrotto la nostra gioia. E allora si può dire che avevamo compreso anche il Tempo degli altri, di coloro che erano nati molto prima di noi. Con quella conclusione lineare tutto si placò e in quel punto della Piazza le sfide a pallone divennero sempre più rare forse in virtù di quella Duplice Intesa che s’era raggiunta e di cui aveva avuto subito notizia Assergi.

 

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Da ultimo un paio di carezze per te, Emidio: don Ermanno Morelli, parroco di Assergi, celebrante le nozze ed invitato anche al pranzo di Elena e Riziero, ad un certo punto di quel convivio tenne un breve discorso e così emerse anche la frase: «…E Riziero che da Collebrincioni è venuto fino ad Assergi per cogliere questo splendido fiore…Elena!» E intorno: «Evviva gli sposi!»  «Evviva!»  «Evviva!» E anche su quel giorno, ad una certa ora, calò il buio.

 

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Dagli sci alla bicicletta, dal campo di calcio della Co.Ge.Far alle piante di susine lungo la strada e prima del curvone sotto la tua casa. Una vita nella natura: a volte penso all’esilio del tuo sguardo non soltanto dai tuoi affetti ma anche dalla natura: al verde che circondava la tua casa, all’azzurro ammirato da Montecristo, al manto bianco della neve sia in piano che ai Tre Valloni, al gelo/acciaio della primissima alba, al tuo consiglio prezioso al quale da quarant’anni non mi attengo perché non vengo sulla neve: «Per prima cosa bada alle mani e ai piedi, sono quelli i punti ai quali si deve prestare attenzione contro il freddo.» Me lo dicesti nel gennaio del 1977, discendendo verso le 14 da Campo Imperatore: la carrozza ondeggiava e la bufera era una prova generale della fine del mondo. Il fatto che t’impressionasti anche tu non che fosse rassicurante per me. Il padre di Franco Pino che era in carrozza tranquillizzava i presenti dicendo: «Se continua così, quando giungeremo ai cavalletti, dovrò aprire la portiera  e con il piede in fuori badare che la carrozza non urti quella struttura…» Insomma, un affare lieve, da rimanere tranquilli mentre ondeggiamo nel vuoto.

 

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Ti vedo venire al bar, con i doposci e gli occhiali Cebé a montatura bianca con le lenti a specchio: sei abbronzato, hai le labbra un poco bianche da burro di cacao protettivo. Sei sorridente: entrambi speriamo ancora nella vita. Ti piace tanto la canzone Alessandra dei Pooh. Sei sempre in me. Sempre tuo, Nando



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