LA TRANSUMANZA, STORIA DI PASTORI, DI SOLDATI E DI MARE

- di Angelo De Angelis -
 
 
Ventinove settembre: una data come un’altra per chi vive nel XXI secolo, che al più fa pensare ad un grande poeta, che ne ha fatto il titolo di una delle sue stupende canzoni.
Fino a settant’anni fa quella data, per chi è nato in Abruzzo e Puglia, era legata ad uno dei maggiori eventi dell’anno; il ventinove settembre è dedicato a San Michele Arcangelo e gli abruzzesi più vecchi associano quel giorno alla transumanza ed alla partenza delle greggi verso i pascoli invernali del tavoliere delle Puglie. Un popolo di uomini organizzati secondo una rigida gerarchia partiva a piedi dai monti dell’Abruzzo: il garzone, il pastore, il buttero, il caciaro, il massaro, ognuno con i suoi compiti da svolgere, ognuno con il suo povero bagaglio a mano riposto dentro un sacco di vello di pecora ed ognuno col suo bagaglio di esperienza, di fatica, di sacrificio e di speranza. Provenivano dalle vallate di Roio, di Lucoli, di Scoppito, di Barete e dell’Alta Valle dell’Aterno, di Campotosto: si ritrovavano sotto la basilica di Collemaggio proprio il 29 settembre: venti persone per duemila pecore; le pecore erano milioni e l’umanità al seguito era formata da un esercito di decine di migliaia di persone.
Lungo il cammino si univano a loro altre legioni di migranti stagionali dalle vallate ai piedi della catena del Gran Sasso, della Maiella e degli altri monti dell’Abruzzo interno, percorrendo una rete di tratturi la cui antichissima origine va ricercata nella protostoria e nella storia delle antiche tribù italiche. Una lenta processione che durava oltre un mese, dove erano preghiera le azioni semplici di condurre il gregge, mungere il latte, fare il formaggio, cucinare alla “cottora” e mangiare la pecora vecchia che non ce l’avrebbe fatta a raggiungere la meta, ascoltare l’ululato del lupo che di notte tendeva imboscate alle bestie che si erano attardate staccandosi dal gregge; una lenta processione dove era preghiera la gioia di una bella giornata di sole, la carezza degli ultimi raggi estivi, la bestemmia per il primo freddo autunnale e la pioggia che bagnava il volto e la mantella, che raggelava il corpo ed il cuore.
Un fenomeno politico, sociale e culturale che aveva un significato economico enorme: a partire dal XIV secolo il bilancio del Regno di Napoli ebbe come voce più importante quella delle entrate fiscali legate alla pastorizia ed alla transumanza gestite dalla “Regia Dogana per la Mena delle Pecore in Puglia”, che aveva sede a Foggia. C’era poi la “Doganella degli Abruzzi”, che si occupava della tassazione delle greggi che restavano in Abruzzo, anziché transumare verso la Puglia. Ma trassero linfa da quel fenomeno già i Romani a partire dal 290 A.C., e poi i Normanni, gli Aragonesi, gli Spagnoli, i Francesi, i Borbone: ciascuno con le proprie leggi ed il proprio metodo di riscossione delle tasse. Con i proventi della pastorizia furono erette meraviglie come il paese di Pescocostanzo, le basiliche di Collemaggio e di San Bernardino a L’Aquila, palazzi meravigliosi impreziositi da affreschi ed opere d’arte. Diceva il prof. Alessandro Clementi, storico medievalista, mentre passeggiavamo per le strade ed i vicoli del centro storico dell’Aquila: ”senti, senti, annusa queste pietre … profumano di pecora”.
Il culto di San Michele, un Arcangelo rappresentato con la spada in pugno, di diffuse in Abruzzo e Puglia a partire dal V secolo; poco dopo spodestò definitivamente, nella devozione popolare, Ercole, che per oltre duemila anni era stato invocato a protezione dei pastori e dei soldati.
Il ventinove settembre dell’anno scorso, il giorno di San Michele Arcangelo, ho voluto rivivere l’esperienza bimillenaria della transumanza: sono partito dalla basilica di Collemaggio ed in dieci giorni ho percorso a piedi il Regio Tratturo Magno dall’Aquila a Foggia: dieci giorni di fatica e di sacrificio, di nuove amicizie cementate dal comune sforzo, dieci giorni di piena immersione in quel mondo agropastorale vissuto dai miei avi paterni, che da Roio annualmente calpestarono quei sentieri.
Di loro non conosco che qualche nome e, solo per alcuni, la data di nascita o di morte; di qualcuno conosco il mestiere, pastore. Quel mio peregrinare mi ha fatto carpire un po’ della loro vita e della loro anima. Tra tutte le sensazioni e le emozioni vissute, una in particolare mi ha commosso e segnato: la vista del mare in tempesta quando, nei pressi di Casalbordino, il tratturo lascia la direttrice più breve e meno faticosa per fare una deviazione fino alla spiaggia e poi, lungo un litorale selvaggio, fin’oltre San Salvo. Gli occhi miei di bambino, quando a cinque anni per la prima volta hanno visto la terra affogare in un mondo fatto di acqua senza confini, non hanno eguagliato lo stupore di me, ormai quasi vecchio, che per la prima volta ho visto le onde del mare infrangersi su scogli e spiagge conosciute, ma ora deserte, che sembravano mai calpestate da bagnanti festosi e caciaroni. La fatica e la stanchezza accumulata nei giorni precedenti è svanita alla vista di quel mondo fatto di austero splendore dove la natura prende il sopravvento sull’uomo e lo soffoca con la sua semplice bellezza e la sua forza selvaggia. Ho pensato ai miei avi che all’età di quindici anni, poco più che bambini, vissuti fino ad allora in un piccolo mondo circondato da aspre montagne, hanno raggiunto il mare: ho capito e rivissuto la loro emozione ed il loro stupore; ho parlato di queste sensazioni con il mio amico Pierluigi, mentore ormai da quattordici anni dell’esperienza comunitaria del tratturo, profondo conoscitore del mondo pastorale e guida in questa avventura; mi ha detto: “è per vivere questa emozione che un tempo ci si allontanava dal tratturo principale e si allungava il cammino di tanti, faticosi passi. La maggior fatica era ripagata da questo spettacolo ed i più vecchi ci tenevano a rivivere essi stessi e far vivere le tue stesse sensazioni ai ragazzi che per la prima volta affrontavano il tratturo”.
Tutto questo hanno provato i miei avi paterni; e nonno Eliseo, mio nonno materno?
Nonno Eliseo faceva il contadino, e contadini erano i suoi antenati, fino a sette generazioni prima. Di loro ho parlato nella storia “Il Mito delle Origini”. Mai nessuno di loro aveva avuto modo di ammirare lo spettacolo del mare: nonno Eliseo fino all’età di diciannove anni, poi…
Siamo in piena prima guerra mondiale; ho già narrato le sue vicende del 1915 sul fronte italiano e quelle del 1918-1919 sul fronte occidentale, in Francia. La “Grande Guerra” di nonno Eliseo del 1916/1917 si è svolta su un diverso scacchiere, al confine tra Albania e Grecia. Li si combatteva tra gli eserciti degli Imperi centrali, contro la Serbia, alleata di Italia, che aveva mire imperialiste sull’Albania. Quando, a ottobre del 1915, la Serbia subì dure sconfitte ad opera dell’Austria- Ungheria, l’Italia inviò un corpo di spedizione al fine di proteggere il porto di Valona, punto di accesso dal mare alla Albania, nazione amica di Italia e Serbia.
Il 15° reggimento Cavalleggeri di Lodi, quello di nonno Eliseo, raggiunse il Corpo di Spedizione Italiano imbarcandosi il due novembre 1916 da Taranto.
Lo stupore di nonno alla vista, per la prima volta, del mare, fu filtrato dai finestrini di un treno che lo accompagnò da Padova fino a Taranto. Il vero battesimo dell’acqua non fu il bagno purificatore e liberatorio dei miei antenati pastori transumanti, ma avvenne di fronte al porto di Taranto. Il bastimento sul quale cavalli, cavalleggeri e masserizie dovevano imbarcarsi aveva un pescaggio troppo profondo e non poteva attraccare alle banchine del porto; si tenne quindi al largo e furono allestiti zatteroni che a forza di remi trasbordarono i cavalleggeri dalla banchina al bastimento. E qui il racconto di nonno Eliseo lascia trasparire stupore, rabbia e rassegnazione.
La breve traversata appare subito densa di pericoli: paura del mare da parte di rudi contadini che hanno visto e toccato finora ben poca acqua, la più per bere, non molta e con tanta parsimonia per lavarsi; paura di perdere le masserizie e le armi, così necessarie per una campagna militare; paura della reazione dei cavalli, abituati all’acqua ancor meno dei loro cavalieri. Ebbene la soluzione dei comandanti militari è quanto mai singolare. Al centro delle zattere i cavalli, difficili da rimpiazzare in caso di perdite; intorno ai cavalli le masserizie e le armi, essenziali per fare la guerra; tra masserizie ed il mare i soldati, i meno importanti, trattati come carne da macello perché facilmente rimpiazzabili. Comunque, nonostante la rabbia, lo stupore e la paura, va tutto bene ed il trasbordo si completa con l’imbracatura sotto il ventre dei cavalli che suscitano divertimento e riso in nonno Eliseo e nei suoi commilitoni, sgambettando per l’insolita avventura, mentre sono issati con una gru sul bastimento.
Arrivati in Albania, lo squadrone di nonno è schierato in seconda linea e svolge funzioni di collegamento e ricognizione che gli sono state e gli saranno proprie per l’intera durata della guerra. Sono ragazzi, nient’altro che ragazzi, anche se provati da quasi due anni di guerra. In una delle tante operazioni di pattugliamento del territorio quei ragazzotti si trovano a trottare su una lunga prateria tagliata a metà da una fitta macchia di arbusti. Con spirito goliardico ed all’unisono parte la gara, spronano tutti il proprio cavallo in una corsa sfrenata per saltare l’ostacolo: l’oltrepassano senza difficoltà e con stile ma… con la coda dell’occhio vedono un veloce movimento dietro la macchia: una postazione di mitragliatrice con tre soldati austro-ungarici che, presi di sorpresa dall’inaspettato squadrone nemico, si muove velocemente per riposizionare l’arma; con repentino cambio di direzione i cavalleggeri tornano indietro, saltano nuovamente l’ostacolo e galoppano veloci verso un luogo riparato e fuori tiro; non fanno però in tempo: nonno sente intorno a se il fischio dei proiettili della mitragliatrice. Un colpo si infila sotto la sella e procura un profondo taglio sulla groppa del cavallo.
Era un bel cavallo pezzato color bianco e cuoio, racconta nonno Eliseo, era veloce, robusto, agile ed avvezzo alla fatica: glielo portarono via. “E poi?” chiesi io bambino carico di ansia per quel povero animale che, benché ferito, riuscì ugualmente a portare in salvo il suo cavaliere… “E poi non lo so”, disse nonno con un filo di tristezza nella voce…, “mi consegnarono un altro cavallo e di quello non ho saputo più niente”. Sapeva bene, nonno, che gli animali feriti in guerra si trasformavano in stufato per i soldati, servendo fino all’estremo sacrificio la causa dei loro cavalieri.
Non furono molti gli episodi di guerra combattuta che nonno dovette affrontare in Albania; ma ci fu un subdolo nemico comune a chi era di qua e di là del fronte: la malaria. La zona era umida e paludosa; le zanzare colpirono più delle pallottole nemiche: i resoconti militari di entrambe le parti in guerra documentano che ci furono più soldati fuori combattimento per la malaria che per fatti d’armi. Anche nonno ebbe febbri altissime, attacchi di brividi e spossatezza. Fu mandato all’isola di Corfù per riprendersi, Ma di chinino ce n’era poco e le febbri non passavano. Venne allora in aiuto una vecchia contadina greca, che fornì a nonno ed ad alcuni suoi commilitoni un intruglio di erbe e peperoncino sapientemente miscelate e pestate in un mortaio di pietra. Il rimedio, dal sapore amaro e piccantissimo, fu efficace per la febbre malarica, ma bruciò l’esofago e le corde vocali di quei poveri cavalleggeri, che persero l’uso della parola per oltre un mese.
Nonno Eliseo era un attento osservatore del cielo. Fu lui a farmi riconoscere per la prima volta la stella polare, il "gran carro" (l'orsa maggiore), il "piccolo carro" (l'orsa minore), Cassiopea ed Orione. A Corfù, lontano dalle preoccupazioni del fronte, poté attardarsi la sera ad osservare stelle e costellazioni. Aveva una predilezione particolare per la luna. Gli piaceva guardarla al tramonto: tanti anni dopo, ormai vecchio, mi confidò che in quel periodo, a sera, amava volgere lo sguardo a ovest, verso la luna che stava per tuffarsi nel mare e pensare che in direzione di quella luna, sotto lo stesso cielo, c'era il suo paesello, Santa Maria. E sospirando pensava "chissà se questa guerra mi darà in regalo il ritorno a casa". Nonno Eliseo tornò dopo sette anni di vita militare e dopo tante campagne su tutti i fronti, e visse ancora tante primavere, fino all'età di 98 anni.
Nonno Eliseo era appena guarito dalla malaria, quanto arrivò Caporetto e due mesi dopo, il 5 gennaio del 1918, fu imbarcato al porto di Valona per raggiungere nuovamente Taranto, per poi partire per il fronte occidentale, in Francia… e questa è un’altra storia.

 



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