MARIO DE LEONARDIS, UNA VITA IN SILENZIO

- di Fernando Acitelli -

Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie
               Giuseppe Ungaretti

 

Esiste (resiste!) una sola foto di Mario De Leonardis. Ad osservarla ho la stessa sensazione di qualcosa riferibile ad un tempo remotissimo, medievale, e certamente così funziona oggi il mio rapportarmi al passato. Divento all’improvviso uno studioso di carte medievali, di fogli inauditi riferibili magari all’età di Dante Alighieri, o d’un neoplatonico. Così funziona per me. Sono rari gli individui che per tali improvvise riapparizioni si stupiscono facendo nuovamente ripartire il filmato della propria esistenza fino ai giorni di quella fotografia. A dire il vero, in quella foto non c’è soltanto Mario ma tutta un’epoca, un modo di pensare, un diverso stupore, e poi i nostri genitori, i nostri nonni. Foto dunque come risarcimento, come medicazione dagli oltraggi del Tempo e inoltre possibilità che, ripensando all’esistenza di Mario De Leonardis, noi tutti si finisca nuovamente tra i nostri affetti dissolti.  L’Età della Tecnica ha fatto sì che il mondo odierno consideri come eventi rari (straordinari) delle foto e degli oggetti anche solo di vent’anni fa. Degli affetti già bene archiviati non se ne parla se non nelle “ricorrenze ufficiali” perché la sintesi “tutto ora e qui” è divenuto uno dei fondamenti del nichilismo. Comunque: è grazie a questa foto che si può gridare all’eternità anche l’esistenza di Mario De Leonardis. «Confesso che ho vissuto», scrisse il poeta cileno Pablo Neruda, ed è quel titolo che serve ora a me, a noi. Quella frase l’avrebbe potuta sussurrare anche Mario, magari ripeterla soltanto a se stesso in quei pomeriggi di quiete durante i quali egli sognava di chiudere, con un’improvvisa intuizione, l’Universo. Ecco, noi adesso siamo a questo, ad aggiornare la lista delle “Partenze e degli Arrivi” e per fortuna che esiste ancora qualcuno che s’impegna in tal senso. Vedendo quel viso, qualcuno forse rintraccerà quell’esistenza nel ripostiglio della memoria, mentre a qualche altro il suono Mario De Leonardis smuoverà dentro qualcosa: «Certo! Come no! Me lo ricordo!...» E allora con la mente sorvolerà la Strada Ritta, ed anche quella solenne solitudine che fu un valore ed una distinzione per Mario De Leonardis. E con la sua ricomparsa tra noi se ne gioveranno tutti: dalla comunità a tutti coloro che lo conobbero. E poi, in una lirica operazione a ritroso, compariranno anche i suoi familiari, dai genitori Enrico e Marietta, ai fratelli Giuseppe, Delia e Giovanni. Le brusche accelerate del tempo danno da pensare: in un’epoca che ha fatto della foto in proprio, dei selfie e dell’invio immediato, transoceanico, una ragione d’essere ed uno status, mi conforto ancora (ed è uno spettacolo che manda in aritmia il mio cuore per la gioia) sapere che con quelle poche, piccole cose ritrovate qua e là io possa distinguermi per far riemergere un’esistenza. E tra queste briciole c’è anche quella fotografia riemersa chissà da dove e chissà perché, forse per transennare queste mie parole conferendogli vigore mentre s’allineano nella scrittura. Da quale cassapanca colma di lenzuola e di coperte della Fara, è sbucata quella foto? E ancora: da quale cassetto ripieno di rocchetti senza filo, sbriciolature di tabacco e lettere di chi partì per l’America o il Venezuela? Dunque la foto: essa è riferibile alla fine degli anni Sessanta. Da ricordare che Mario De Leonardis morì il 21 febbraio 1972.

Deve essere un giorno di festa perché nella foto superstite egli compare con la giacca, dunque non nei panni di chi, abitualmente, tratta con arte il legno o conversa con i misteri della tecnica indagando tra moto perpetuo e studi sull’aliante. E poi in quella fotografia egli è fuori della sua “area sacra” compresa quasi totalmente sulla Strada Ritta, dal civico 16 (sua abitazione) fino alla casa di Giuliano, vale a dire una quarantina di passi in discesa, verso la Piazza. Prima della casa di Giuliano (Giulianett), e cioè fino al 30 aprile 1957, il laboratorio di falegnameria Mario l’aveva avuto negli ambienti seminterrati del convento dei frati.

La location di quella foto è la trattoria dei Cellari, lungo la statale 17 bis, ed è proprio da questo dato che possiamo presumere che si tratti d’un giorno di festa, magari San Franco, magari Ferragosto. Ma in quale punto dell’Universo sarà adesso quel giorno? Archiviato dove?

Malgrado sia festa e dunque una sospensione dai giorni feriali, Mario è tutto preso ad “investigare” su un oggetto che stringe tra le mani. Cos’è? Forse la protezione dell’obiettivo della macchina fotografica che si vede sul tavolo? Egli è tutto preso da quell’oggetto e per lui, in quei momenti, pare non esista il mondo circostante, preso com’è dall’osservazione accanita su quel dettaglio di realtà. Egli pare un fisico sovietico ai tempi della Cortina di Ferro, un “dissidente” che ritrova la serenità soltanto nel “rovistare” nella realtà incomprensibile. Figura solenne il dissidente, voce critica anche nel suo silenzio privato: è un po’ come un eretico nel tempo medievale, in una Chiesa tutta esposta alla simonia e alla vendita delle indulgenze. Furono proprio gli eretici ad indicare alla gerarchia ecclesiastica un ritorno al Vangelo delle origini e ad invitarla a mettere da parte la sfrenata mondanità.

Protetto da quel verde di natura che gli sta alle spalle, Mario non ne ha per nessuno e in quei momenti l’unico interlocutore serio è quell’oggetto, i misteri che racchiude che sono poi, in piccolo, quelli dell’Universo. Che, forse, è più importante e fortificante parlare con gli oggetti? Dare del tu a meccanismi ed ingranaggi? È possibile, se non altro gli oggetti non danno risposte fuori luogo e rimangono impassibili nella loro serietà.

Istantanea prodigiosa perché in essa c’è tutto Mario De Leonardis. Innanzitutto: egli, seduto accanto al tavolino, è solo, nessuno che lì si domanda su cosa egli stia investigando. È anche vero che la postura non è di chi potrebbe anche disporsi ad una conversazione che lui (beninteso) non negherebbe, ma gli occhi così gettati sull’oggetto consigliano gli altri a rimanere a distanza come se riconoscessero quell’azione come qualcosa di puro, di inattaccabile, pena il frantumarsi di quegli istanti di serenità.

Da quella fotografia si può cogliere tutta la traiettoria esistenziale del nostro eroe. Le notizie più importanti è suo nipote Elio a fornirmele e nella “scarsità delle fonti”, come si dice, c’è comunque la possibilità di tratteggiare un profilo perché a me la sua andatura non fu ignota e d’estate lo vedevo spesso entrare e uscire dal laboratorio sulla Strada Ritta. L’ultima immagine che di lui mi ricordo: sto procedendo verso la Piazza e si è attorno alle 13. Egli esce dal laboratorio/rifugio e sta avviandosi verso casa. È abbigliato come tutti gli uomini di Assergi: camicia di cotone a quadrettini, gilet, pantaloni d’un cotone adeguato alla stagione e poi quel basco in testa un po’ inclinato e che a me ad Assergi ricordava sempre quello in uso nei pittori. Attorno a lui si percepisce come un magnetismo e questa sensazione la ebbi tutte le volte che lo incrociai. A quel tempo, mentalmente, procedevo con l’istinto e fu sempre quel mio impulso naturale a porre in risalto certe figure che ancora oggi vivono in me. Dunque il magnetismo è una parola che adesso tiro in ballo ma che a quel tempo ancora non mi apparteneva: componevo delle sensazioni, certamente, ero spontaneo come ogni fanciullo, ma adesso posso dire che quelle percezioni erano giuste. A proposito delle volte in cui lo incontrai: egli era vestito come sogliono abbigliarsi gli artisti ma questa sua attitudine era autentica e c’era purezza in tutta la sua figura. In altre parole egli non doveva interpretare un ruolo, calarsi nei panni del “maledetto”, del maudit che crea in disparte e ascolta con diffidenza il palpito del mondo. Tutto in lui era spontaneo e quel suo “andare oltre” con il pensiero aveva radici nell’io profondo. Adesso a ripensare a lui mi chiedo cosa s’agitasse nella sua vita, quali fossero le sue ricognizioni interiori, i progetti a breve e a lungo termine, insomma la sua visione della vita.  Ci incrociammo con lo sguardo e quasi cedette al saluto…Un saluto per un fanciullo neanche di quel luogo. Incredibile! Ma forse da me risaliva ai miei genitori. Quel suo sguardo tuttora lo conservo.

Subito dopo la guerra fu in Venezuela con suo nipote Dino e lì, oltre al lavoro, s’ingegnò in audaci creazioni e tra queste spiccò la realizzazione d’un fucile semiautomatico a cinque colpi: si caricava il colpo in canna col sistema “bolt action”, come quello del moschetto in uso durante la prima guerra mondiale. Quella sua creazione fu “intercettata”, per così dire, dalle autorità locali ed egli passò guai seri e brutti momenti che ebbero termine soltanto con il ritorno in Italia assieme al parente Franco Scarcia. «Ho fatto tutto con le mie mani.» - confidò al parente riferendosi al fucile semiautomatico che aveva realizzato. Ma quello che stupiva in quella sua creazione fu l’aver realizzato degli elementi fondamentali, costituitivi d’un fucile e difficilissimi da ricreare come ad esempio l’ottutatore e la camera a scoppio. E perché, la rigatura interna della canna? Ecco, al di là del fucile, in questa creazione va sottolineata la genialità che Mario mise in tutti questi passaggi. A lui di certo non interessava l’arma ed i suoi compiti ma piuttosto il vedere realizzato concretamente tutto quanto gli si era composto nella mente. Si trattava per l’appunto di vari passaggi e tra questi si distingueva ciò che poteva definirsi “semplice” da situazioni incredibili da realizzare con pochi mezzi e gli strumenti disponibili.

Comunque anche Mario ebbe il suo momento di sogno. Fu una stagione interamente dedicata alla favola bella del volo. L’idea sublime di costruire un aliante lo tenne impegnato per molto tempo. Dopo la risalita dei tedeschi verso il Nord della penisola, rimasero incustoditi gli alianti usati nel 1943 per la liberazione di Mussolini. Mario trovò in quell’abbandono nuovi significati di studio e creazione e piano piano raccolse tutto quanto gli fu possibile a Campo Imperatore e dintorni. Recuperò il sublime nel verde e tra la roccia e così pezzi di carlinga, leve di comando, cuscinetti. Le diverse parti dei velivoli furono smontate e poi con quella sana pazienza che appartiene a coloro che confidano soltanto in se stessi portò tutto a valle con un traglione in legno lungo i Tre Valloni. Quel tesoro fu poi stipato nella falegnameria. Mi racconta Elio: «Conservo ancora alcuni di questi reperti tra i quali spicca un ammortizzatore collegato tra la carlinga e le slitte di contatto con il suolo.»

Quel sogno dell’aliante accarezzò la mente e l’animo di Mario per molto tempo e si può dire che gli migliorò la vita perché è proprio il sogno che allevia le tristezze dell’esistenza.  «Il disegno di quel progetto è conservato da mio figlio Giovanni.» - continua Elio. «È realizzato a matita con una chiarezza ed una precisione proprie di un ingegnere. Sono evidenti i richiami a qualche testo con, in più, le specifiche della realizzazione. Quel testo che indubbiamente doveva averlo aiutato, purtroppo non esiste più. E pensare che dopo la morte di zio Mario ho avuto tra le mani proprio quel quaderno, scritto per più della metà delle pagine, che riportava una lunga sequenza di numeri, ognuno seguito da una parte descrittiva. Ricordo alcune voci che citavano “tiranti”, “longherone”, “slitta”, “tela” e di tutte quelle voci veniva indicato il peso a metro quadro. Qualche anno dopo (altro stupore!) venne alla luce il disegno del progetto.»

Il mondo interiore di Mario era una sfera impenetrabile ed egli soltanto tra sé si avvertiva sereno. Comunque, il suo continuo fantasticare prevedeva sempre un ancoraggio a terra, cioè una soluzione pratica, e quella che poteva sembrare una condizione di ozio era in realtà una continua sete di sapere, il lieto vagabondare tra i silenzi della realtà in cerca di quel “qualcosa” che sfuggiva continuamente.

Quello che nella bottega di falegnameria considerava lavoro ordinario, in un certo senso lo impressionava, e questo perché da quell’opera non ne sarebbe uscito uno stupore e una sensazione di benessere interiore. Infatti la meraviglia sorge quando la creazione che è “venuta alla luce” discende direttamente dall’animo. Dunque meglio occuparsi di bassorilievi lignei e poi di credenze e cassettoni dove s’avvistava il tocco, l’ardire dello strumento sulla materia (sapienze queste ereditate e apprese dal padre Enrico) e lasciare al fratello Giovanni i lavori della comunque sana e giusta quotidianità. E così la situazione era questa: Giovanni con l’opera di ebanista s’impegnava per mandare avanti la famiglia mentre Mario aveva necessità d’un guadagno più contenuto e quelle somme più lievi gli servivano per finanziarsi negli studi di autodidatta e poi per le diverse attività di studio e ricerca che portava avanti. Grande lettore, i suoi guadagni li spendeva per lo più in libri e riviste. I suoi interessi riguardavano l’arte, l’ingegneria, la storia, la letteratura, la pittura e la fotografia. Poi c’era spazio per i libri della Selezione Readers Digest e quindi per una grande raccolta di settimanali, e tra questi, La Domenica del Corriere. Insomma, un passo diverso di concepire l’esistenza, un altro modo di attraversare i giorni curando soprattutto gli universi del sapere.

Ma sentiamo ancora Elio e alcune sue schegge di sublime in merito allo zio Mario: « Ricordo che davanti alla sua casa avevo sentito già da alcuni giorni una sorta di cigolio, come di pulegge in movimento che facevano attrito. La mia curiosità diveniva sempre più forte e alla fine, complice la porta socchiusa, bussai. Non sentendo risposta, varcai la soglia: zio Mario non c’era. Gettai uno sguardo su quell’ambiente e poi vidi che su quelle che potevano essere le basi di un telaio da filatura, mio zio aveva realizzato un marchingegno con un motore artigianale collegato ad una presa elettrica. Diverse pulegge erano in movimento e, grazie ad una serie di demoltipliche, il moto circolare imposto dal motore con buona velocità veniva ridotto fino a far ruotare lentamente un piccolo cerchio in legno, rivestito, mi parve di capire, con un pezzo di stoffa che pensai fosse stata ricavata da un cappello maschile, uno dei classici copricapo da contadini per intenderci. Il movimento circolare del pezzo di cappello terminava il suo lavoro meccanico andando a sfregare un pezzo di vetro chiaro, trasparante, oliato o deterso con gocce di un liquido che scendevano ripetute a breve distanza di tempo. Andai via prima che zio tornasse e lasciai la porta socchiusa così come l’avevo trovata. Mi sentivo quietato perché avevo scoperto il segreto di quel cigolio. Zio Mario stava levigando il vetro per farne delle lenti d’ingrandimento. Mio padre poi mi svelò che stava costruendo un cannocchiale con il quale poter osservare la luna. Non ho avuto la fortuna di vederlo realizzato.»

Ma le febbrili intuizioni di Mario non finivano qui ed in ogni suo atto si sentiva il suo desiderio di voler cogliere i segreti della natura: il vivere con simili pensieri, indubbiamente lo sosteneva nello svelto procedere degli anni, lungo il crudele assalto del Tempo sull’esistenza. Ma ascoltiamo ancora Elio:«Un giorno, in falegnameria, aveva posto sul banco delle matasse di sottilissimo filo di rame raccolte intorno a delle piastre in ferro a forma di U. Mi ricordo quanto impegno mettesse nell’avvolgere il filo di rame affinché le spire si adagiassero strette, una aderente all’altra. La sera chiesi notizie a mio padre: “Boh, starà facendo gli avvolgimenti per trasformare la corrente da 220 a 125…” – rispose mio padre ma non ne era molto convinto.» 

Va da sé che con questo modo di coinvolgersi nella vita c’era poco spazio per mettersi di buona lena a realizzare opere in legno, per lo più senza una ricaduta di meraviglia. Insomma doveva realizzarsi la situazione in cui l’elemento artistico fosse preminente sulla creazione lineare, scontata per così dire.

Di nuovo Elio con le sue rievocazioni: «Ricordo che mio padre mi fece vedere quello che restava di un tentativo di realizzare, a suo dire, un moto perpetuo. A me parve più propriamente uno studio sul moto circolare dei corpi. Mio padre mi mostrò un piatto di giradischi con sopra, adagiati nei solchi, dei pallini di piombo, forse quelli delle cartucce da fucile e di grandezza diversa ed in numero decrescente man mano che dai cerchi esterni del piatto si procedeva verso quelli interni…»

Ecco in breve la vita, le opere ed il tempo di Mario De Leonardis, uno dei più geniali e, credo, più tormentati uomini che Assergi abbia mai avuto.

È un bene per me ricreare quell’atmosfera che si respirava sulla Strada Ritta: il silenzio era un valore alle tre del pomeriggio. Sulla Strada Ritta s’era giunti ad un’intesa sulla quiete. Chi era affacciato e vedeva un conoscente in strada non lo chiamava di modo che potesse perpetuarsi quell’atmosfera sospesa. Addirittura in quel segmento di tempo parevano più lievi le dipartite dei propri cari. A quell’ora si pensava ai trapassati con meno dolore, ma questo sentimento della lacerazione degli affetti si sarebbe riproposto di nuovo intenso di lì a qualche ora.

Le tre del pomeriggio sulla Strada Ritta e un tempo metafisico che si sollevava. Era anche il tempo in cui lievemente faceva ritorno alla sua bottega Mario De Leonardis. Una quarantina di passi, poco più dalla sua casa prima dell’arco di Felicetta fino alla casa di Giulianette. S’era allontanato dal suo buen retiro poco prima dell’una, dopo una mattinata intensa di verifiche sulle sue intuizioni tutte mentali, tutte rivolte all’universale. A casa per un pasto, e lì l’essenzialità della tavola, le screpolature del tempo sul soffitto e nella cornice del focolare. E quell’interno che subito rimandava ad una tela di Giorgio Morandi: il paesaggio fuori, dall’orto dei Massimi alla curva de gliu Brigant. Tutti i monologhi di Mario si mantenevano in vita tra le pareti della mente e nessuno poteva risalire ai suoi pensieri. Egli si custodiva con le parole necessarie ed i suoi pensieri erano un sistema difensivo notevole. Egli incarnava perfettamente l’essenza del silenzio. E il sentimento del Tempo che era in lui si poteva cogliere proprio rispettando le regole del silenzio. Dunque ognuno nasceva con una fragilità ma era da questa che si doveva partire per elaborare il proprio sistema filosofico. Se nella bottega Mario De Leonardis avesse tenuto un libricino e in esso avesse appuntato tutte le quotidiani osservazioni, ora potremmo contare veramente su una Storia inaudita delle sensazioni. Sì, i diari si sarebbero potuti intitolare proprio così. E tali pagine sarebbero state scritte con il lapis – proprio come Marino Moretti e il suo libro Poesie scritte col lapis - perché nella bottega, con tutta quella strumentazione che incantava, sarebbe risultata non poco stonata la presenza d’una penna. Tra quelle carte, quegli schizzi (vere prove d’artista) e quegli strumenti, era espressamente richiesta la presenza d’una matita, anzi, un mozzicone di essa, dopo essere stata molto sfumata in punta con il temperamatite.

Di volo un ricordo per tutti i famigliari che gli vissero accanto nel corso della sua vita: dal padre Enrico nato nel 1879 e morto nel 1955, raffinatissimo artigiano, amico dei notabili come dei contadini e amante del buon vivere fino alla sbronza solenne da condividere con gli amici. Di Marietta, la madre, so soltanto che morì nel 1968 e di lei conservo un ricordo di gentilezza: ero bambino vagante d’estate da un punto all’altro di Assergi e una volta, vedendomi nei pressi della sua casa e forse risalendo alla mia famiglia, mi invitò ad entrare e lo fece con una grazia che, malgrado fossi un bambino, mi rimase dentro. Ricordo l’entrata in quella casa con il focolare posto proprio di fronte. Una scena della quale non ricordo i dialoghi ma ci sono soltanto immagini con Marietta che parlava con la sua voce che pareva situarsi nelle regioni del sogno. Di Delia, non posso che riportare quanto appreso e cioè che era una giovane bellissima rapita dalla morte. Quindi di Giuseppe (Peppe), padre di Maria, e poi Giovanni, padre di Elio e Anna Agostina, e sua moglie Lucia.

Qui s’interrompe la narrazione lirica e si è finalmente in pace: abbiamo ricordato un uomo buono, in disparte, straordinariamente geniale.



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