Finalmente le sculture dell’artista Giovanni de Paulis trovano una sistemazione decorosa

- di Cludio Panone –

Le opere d’arte di Giovanni de Paulis erano conservate nel Deposito del Museo Nazionale d’Abruzzo. Lo scultore le aveva donate alla Soprintendenza ai B.A.A.A.S. per l’Abruzzo di L’Aquila sperando che potessero essere esposte nei locali del Museo.

Avendo avuto l’opportunità di vedere ed ammirare le opere, per aver lavorato in passato presso gli uffici della Soprintendenza, ed essendo anche concittadino dell’artista, mi attivai per portarle alla luce. L’impegno in tal senso scaturiva sia dall’esigenza di esaudire le richieste di un uomo  che ha dedicato la vita all’arte, sia da quella di realizzare un progetto culturale a Paganica.
Tale proposito mi spinse a parlarne con l’allora Soprintendente arch. Renzo Mancini che, con la sua risaputa sensibilità verso iniziative culturali, dette immediatamente l’assenso a concedere le opere per realizzare un piccolo museo a Paganica.
Il progetto si realizzò, avendo avuto, da parte del Consiglio della X Circoscrizione, la disponibilità di un piccolo locale del Centro Civico per una sistemazione provvisoria delle opere.

L’Associazione Culturale ”Il Moro”, impegnata nella promozione di iniziative culturali nella cittadina, si attivò eseguendo tutte le operazioni necessarie per l’allestimento.

Si auspicava, comunque, che i locali del Centro Civico potessero ospitare solo temporaneamente la raccolta delle sculture di de Paulis meritoria senz’altro di spazi più ampi. Ciò purtroppo non avvenne. Per di più negli anni successivi le Amministrazioni che si sono succedute hanno forse rilasciato permessi per l’utilizzo dei locali del Centro Civico per altre iniziative che chiaramente non erano sicuramente compatibili con la destinazione museale! Lo stanzino che accoglie un cospicuo numero di opere, risistemato a suo tempo dall’Associazione, non è stato più accessibile, probabilmente perché diventato un deposito.
La preoccupazione per lo stato di conservazione delle opere che, in quanto gessi hanno bisogno di ambienti non umidi e areati, mi ha portato da diversi anni a cercare locali più idonei.
L’ultima richiesta, fatta nell’ottobre del 2018, è stata raccolta dalla spiccata sensibilità  dell’Assessore alla Valorizzazione del Patrimonio del Comune dell’Aquila, la dott.ssa Fausta Bergamotto e trasformata in delibera di Giunta dell’Amministrazione comunale n. 484 del 19.10.20020 (Trasferimento opere d’arte della Collezione “Giovanni de Paulis” attualmente depositate presso il Centro Civico di Paganica). Tale delibera prevede il trasferimento delle opere presso un locale di proprietà comunale, recentemente restaurato, sito in Via del Rio in Paganica nei pressi della Villa comunale.

Giovanni de Paulis, spirito inquieto e insoddisfatto, dedicò tutta la vita all’arte, nella ricerca continua nella gloria “… giocando sulla carta dell’arte il mio nome, i miei studi, la mia esistenza, tutto me stesso”. Avendo però egli un carattere orgoglioso, riservato e non combattivo, venne ignorato e spesso boicottato dalla stessa L’Aquila.

Alcuni versi del Parini, appresi da un prete quando da ragazzo studiava presso l’Istituto Tecnico dell’Aquila, guidarono ogni azione della sua vita: “Me non nato a percotere le dure illustri porte; nudo accorrà, ma libero, il regno della morte. Né ricchezze né onore con frode o con viltà il secol venditore mercar mi vedrà”.

Concluse la sua esistenza nell’apatia e nello sconforto e guardandosi indietro riconobbe di essere stato “stoltamente dignitoso”, tuttavia tranquillo di non aver saputo fare l’ipocrita o l’affarista e nemmeno di non aver mai appartenuto a “camarille o chiesuole”.

Anima sensibile d’artista, vissuto in un ambiente di paese dove le tragedie e le miserie lo colpiscono profondamente, riesce a rendere in poesia, in una poesia semplice e scorrevole, ma profonda di amore e di amarezza, il dramma della nostra gente: l’emigrazione.

Anche nella scultura Giovanni de Paulis appare come un artista di alta levatura; il suo stile non appartiene a nessuna scuola ma è l’immagine della sua personalità.

In Argentina, dove si reca per tre anni, l’artista non trova la “sperata fortuna”, ma l’esperienza di emigrante lo arricchisce nello spirito.

Nel gruppo scultoreo “Lasciando la patria” (detto anche L’Emigrante) egli esprime il dolore dell’uomo che lascia il proprio paese, preoccupato del futuro e con il cuore in pena ed in ansia, e la serenità del figlioletto che ancora non può avvertire la nostalgia e la paura dell’ignoto.

“L’emigrante” di Giovanni de Paulis è una testimonianza non solo validissima di un periodo dell’arte italiana, ma anche di un periodo della vita del Paese: il periodo della forte emigrazione.
Giovanni de Paulis non è, comunque, solo poeta e scultore, è anche pittore, novelliere, commediografo, professore ed inventore.

Nel 1986 fu pubblicato, dall’Associazione Culturale “Il Moro”, un volume per far conoscere l’eclettica figura di de Paulis e la sua produzione artistica in generale, ma soprattutto la sua genialità che si manifesta nell’espressione dialettale.

Nell’ introduzione della pubblicazione “Un artista paganichese: Giovanni de Paulis (1996), Raffaele Colapietra così descrive l’artista: “Giovanni è la negazione del notabile … I tre anni di Argentina costituiscono un’esperienza indimenticabile, che influisce profondamente sull’uomo e sul poeta, con risultati che anche al profano sembrano tutt’altro che trascurabili, ma l’uomo che torna “prostrato” a casa è rimasto un angustiato, un insoddisfatto… Giovanni de Paulis, a poco più di quarant’anni, è sul viale del tramonto, l’amicizia e poi la successione del Patini alla Scuola di Arti e Mestieri non lo confortano se non in quanto lo fanno sentire vicino ad una grande tradizione che anch’essa va tramontando, quella artigiana: la grande guerra, con i suoi dolori, farà il resto”.

Giovanni Pischedda, nella presentazione del catalogo della “Collezione  Giovanni de Paulis” (1996) , scrive: “L’importanza del de Paulis è notevolissima sia sul piano artistico che letterario perché si nota una preparazione tecnica intimamente scarnita che si risolve continuamente in fervore di poesia. L’ispirazione è identica nelle opere di scultura, di pittura e nei versi dialettali dedicati alle memorie dell’Emigrante. Una visione fervida della vita che non può isolarsi nella contemplazione elegiaca ma si attiva costantemente nella presenza operosa”.

 

Giovanni de Paulis, un artista paganichese

Giovanni de Paulis nasce a Paganica il 16 settembre 1861 da una famiglia benestante. Il padre era il notaio Colombo de Paulis e la madre la signora Angelica Vespa dell’antica famiglia di Calascio.

Il padre, che lo vuole ingegnere, lo avvia gli studi tecnici per i quali tuttavia Giovanni non si sente portato, essendo quella per l’arte la sua vera passione.
Tale inclinazione si era manifestata fin da bambino, quando già sognava di diventare famoso nel campo dell’arte e andava alla ricerca di disegni, vignette da illustrare e modellava con pezzi di pozzolana visi umani.

Il padre contrasta le velleità artistiche del giovane la cui pressante richiesta è quella di andare a studiare a Firenze. G. de P. a proposito del padre così scrive: ”Uomo positivo – era notaio – non voleva che io mi gettassi in braccio a ciò che lui credeva un’avventura pericolosa. Gli artisti, ripeteva, si riducono spesso alla miseria”.

L’occasione di andare a Firenze gli viene offerta da una conoscenza contratta all’Aquila: uno scultore incaricato di restaurare la basilica di Collemaggio. Questi, intuendo le capacità artistiche del giovane, lo prende in simpatia e gli affida dei piccoli lavori. Tramite la mediazione dello scultore, G. de P. ottiene dal padre il consenso a recarsi a Firenze. Una sera di settembre del 1881 parte dall’Aquila carico di illusioni e di speranze verso la meta tanto agognata. A Firenze, presso il Regio Istituto di Belle Arti, frequenta corsi di disegno, di figura ornamentale, di prospettiva, di disegno ornamentale, di storia dell’arte e dei costumi, di estetica e di anatomia. Dopo aver conseguito il diploma di disegno ottiene nello stesso Istituto il diploma di abilitazione all’insegnamento di disegno, la licenza di pittura ed alcuni premi. Al termine del soggiorno fiorentino, sotto la guida del famoso pittore e incisore Giovanni Fattori, dipinge un modello vestito da armigero medioevale.

La passione per la scultura lo conduce a Roma, dove frequenta il Regio Istituto di Belle Arti ed ottiene il diploma ed un premio. A Roma, non avendo la possibilità di aprire uno studio personale, lavora in casa di coloro che prende come modelli. In questo ambiente ha modo di incontrare personalità politiche alle quali viene presentato come “scultore abruzzese”, –qualifica che a quel tempo voleva dire genialità e capacità essendo allora noti a Roma D’Annunzio e Barbella.
Esaltato dal vivace ambiente romano, e convinto di entrare nel novero degli artisti della città, si illude, spinto da un amico, di poter mettere su uno studio. Per questo chiede aiuto al padre il quale, anche questa volta, ostacola la sua iniziativa e gli ordina di tornare al paese.

Torna a Paganica con dolore, sia per la vita monotona che si conduce, sia perché deve lasciare il suo primo amore: una donna di nome Cecilia, un soprano che viveva nella sua stessa pensione e ravvisabile in Livia, la protagonista di una sua commedia rappresentata nel 1900.

A Paganica si dedica alla pittura di paesaggio che “non ha bisogno di locali di studio né di modelli da pagare a un tanto all’ora”. Il soggiorno paganichese, durante il quale scrive poesie dialettali viene interrotto dal suo ritorno a Roma. Qui, presso lo studio di uno scultore che gli procura dei lavori conosce un cittadino americano che si presenta come ministro argentino venuto per farsi ritrarre. Il busto, iniziato dallo scultore romano, è ultimato da G. de P. e viene particolarmente gradito dal ministro che lo invita a recarsi a Buenos Aires. Il giovane de Paulis accoglie l’invito con entusiasmo ma, non potendo sostenere le spese per il viaggio, torna a Paganica il 17 aprile 1887. A casa incontra l’approvazione del padre il quale spera che il figlio in Argentina trovi fortuna.

Volto di fanciulla (gesso)

 Torna a Roma e da qui, prima di intraprendere il viaggio per l’America, decide di visitare alcune città europee “… visitare almeno qualche città principale dell’Europa, per non passare per ignorante tra quella gente ricca ma primitiva e superba”.

La prima tappa è Londra che visita in compagnia di un italiano pratico della città e della lingua. Dopo cinque giorni, riprende il viaggio alla volta di Parigi che visita senza una guida. Il 28 maggio 1887 giunge a Genova e si imbarca per l’America. Arrivato a Buenos Aires si deve subito ricredere sul conto del ministro che pensava fosse un mecenate e, privo di entusiasmo, fa la sua prima esperienza di lavoro solo come disegnatore presso lo studio di un architetto. In seguito, con grande soddisfazione, lavora in qualità di architetto progettista presso una società di costruzioni. Partecipa ad un concorso per la costruzione dell’ Hospital de la Bolsa che non riesce a vincere; gli viene però concesso un premio speciale perché, come si legge sul giornale El Consor di Buenos Aires, il suo progetto viene “esecudato artisticamente” (1889). Il lavoro gli procura una vita abbastanza tranquilla, quando non è preso dalla nostalgia. Infatti, scrive: “soffrivo di quella malattia che ti porta a spasso e che non ti dà pace, pensavo all’Italia”.
Ad aggravare Il suo disagio in tale ambiente si aggiunge la constatazione del disprezzo con cui gli argentini trattano gli italiani, definiti “gringos”.

A Buenos Aires incontra uno scultore di Ascoli Piceno che chiede la sua collaborazione per l’esecuzione di un “gruppo colossale” in cemento per la facciata principale dell’Università. Si trattiene ancora un anno in Argentina, ma gli ultimi mesi del soggiorno sono caratterizzati dal fenomeno della disoccupazione che coinvolge anche lui: “rimasi disoccupato anch’io per mesi, tanto che per tornare in patria dovetti chiedere i denari a mio padre”.
Al momento della partenza dà un addio definitivo all’America e quando approda in Italia dice di sentirsi “avvilito, scoraggiato, umiliato”.

Arrivato alle porte dell’Aquila viene pervaso da una tristezza infinita. A tal proposito scrive: “rividi in un baleno la miseria della nostra provincia. Tornai a casa prostrato”.

Nostalgia
Ma se dapo’, presempio, ‘na campana
de qua’ cchiesa se sente de sonà,
co’ lla voce de quela paesana,
te vè lo piagne e no-mpo cchiu’ parlà.

O pure se sse sente de cantà
qua’ canzonetta dorge italiana,
allora tu te senti d’accorà
penzenno che l’Italia sta lontana.

Anzi, ci stavo certi che cci piagneno
lacrime, proprio come gli quatrani …
e quigli che resistono se cagneno
de colore e sse strusciano le mani
a-gl’iocchj; po’ bbiastimano o se lagneno…
Cusci’ semo nojiatri ‘Taliani.

(dal Racconto di un emigrato reduce dall’Argentina – Giovanni de Paulis – 1908-1909)

Da Paganica si reca spesso in città e qualche volta anche a Roma per cercare, ma invano, un posto di insegnante di disegno o di plastica.
Nel 1891 a Palermo viene organizzata una esposizione nazionale alla quale si prefigge di concorrere con un gruppo scultoreo raffigurante “Un emigrante che parte per l’America”. Egli, ex emigrato, sente di poter realizzare con “coscienza” e coinvolgimento emotivo tale soggetto. Per la realizzazione dell’opera parte alla volta di Firenze il 28 febbraio del 1891. Dopo aver lavorato per mesi nello studio fiorentino, servendosi di modelli cercati con molta cura, grazie anche alla collaborazione di un esperto e valido “formatore” appronta l’opera per l’esposizione. Insieme al grande gruppo scultoreo spedisce a Palermo anche un bronzetto dal titolo “Mare mosso” raffigurante due emigranti. Anche se l’opera ottiene grandi consensi non viene premiata e allo scultore rimane l’unica soddisfazione di vedere riprodotta la scultura su La Tribuna Illustrata.

Tornate dall’Esposizione di Palermo le due opere vengono restaurate ed esposte in una sala del Municipio dell’Aquila ottenendo solo “molti auguri dagli amici, molte lodi da qualche intellettuale, altre lodi dai giornali cittadini, ma tutto finì là … L’Aquila, città fredda per temperatura e temperamento, incurante dell’arte, e specialmente schiava del nemo profeta in patria, non mi dette che misere le soddisfazioni…”.

L’Emigrante viene poi esposto in una mostra internazionale di Vienna ed ottiene ampi consensi dalla stampa. il successo riportato incoraggia l’artista ad aprire uno studio all’Aquila, in via Altonati.

Intanto, avendo la  permanenza in America destato in lui l’interesse per la politica, nel 1892, dietro consigli di amici, si candida alle elezioni della Camera dei deputati. Una sua fotografia appare sul Folchetto di Roma del 27 aprile 1892; viene stampato per lui un numero unico dal titolo L’Alba Vestina (San Demetrio, 1° novembre 1892) con un suo programma ed una lettera di incoraggiamento dell’onorevole E. Ferri. Anche il Risveglio dell’Aquila del 13 novembre 1892 si occupa di lui, che comunque non riesce ad affermarsi.

L’Aquila non riesce a dare a de Paulis uno spazio soddisfacente né la gloria da lui tanto agognata. Egli a tal proposito racconta un episodio emblematico del disinteressamento e dell’ indifferenza degli aquilani nei suoi confronti. In occasione della realizzazione del monumento a Sallustio, in piazza Palazzo, l’artista paganichese viene messo da parte per favorire uno scultore fiorentino, Cesare Zocchi, nonostante questi avesse preteso un compenso molto più elevato rispetto a quello richiesto da lui.

Dopo questa prova d’amore materno aquilano me ne ritornai al mio borgo a leggere e a fare ancora versi e a dipingere qualche paesaggio”.

Di questo periodo, di notevole interesse è il dipinto “La valle d’Appari” che sarà molto apprezzata dalla rivista parigina Revue Moderne del 30 gennaio 1933.

Volto di vecchio (carboncino)

Intanto, attratto dall’ ambiente artistico e culturale di Napoli, coltiva il desiderio di recarsi nella città. A tal proposito gli scrive Matilde Serao, sua parente, distogliendo da questa iniziativa: “…ed della potrà incontrare quella fortuna che a Napoli si mostrerebbe sempre a mio parere allo stato di chimera”. Anche Silvio Spaventa Filippi lo dissuade da tale proposito, incoraggiando invece a recarsi in Ungheria. G. de P. accolto il consiglio, nel dicembre del 1896, si reca a Budapest.

Qui lavora per circa un anno all’ultimazione della statua di Kossuth per conto di un noto scultore ungherese, e per altri due anni presso lo studio dello scultore Fadrusz per il monumento equestre in onore del re Mattia Corvino. Tuttavia, deve rinunciare a incarichi pubblici importanti per non aver voluto acquisire la cittadinanza ungherese ed è costretto a tornare in patria.

E’ un giorno, un brutto giorno di settembre, quando il Danubio si velava di nebbia, che mi entrò nell’anima, accorato per la mia disoccupazione e per il pensiero doloroso di dovermi distaccare chi sa forse per sempre dalla fanciulla amata, me ne tornai un’altra volta col cuore affranto al mio paese. Fui ricevuto come Il figliol prodigo, però senza banchetti, chè mio padre sempre ostile parea mi dicesse: Lo vedi se avevo ragione io? Ma non mi scoraggiai. Stetti in famiglia qualche mese, aspettando che la sorte mi aprisse qualche strada. io volevo lavorare per essere conosciuto, io volevo farmi onore”.

Il 6 settembre 1900 all’Aquila, presso il teatro Momo, viene rappresentata con grande successo la commedia in tre atti “Livia”, scritta da G. de P. qualche anno prima. L’opera viene applaudita tanto calorosamente che l’autore deve presentarsi sulla scena ben cinque volte. Tutta la stampa locale ne parla.

 

Nel 1902, dopo un breve soggiorno a Milano, si reca a Bergamo dove per due anni lavora come ritoccatore di lastre fotoincise, presso una società di arti grafiche.
In questa città, il 25 giugno del 1903, contrae matrimonio con Marianna, la donna ungherese che aveva conosciuto durante il soggiorno a Budapest.

“E’ qui  ebbe principio la storia più seria della mia vita, poiché la gioia e la felicità furono di breve durata”. Infatti, dopo qualche settimana, la moglie si ammala di tifo ed egli, in seguito anche a “questioni con i tedeschi, che in molti lavoravano in quell’Istituto”, è costretto a tornare a Paganica e a vivere nella casa paterna, “figurarsi con quanto disappunto per noi e per mio padre”.

Durante questo soggiorno, di due anni, spiacevoli anche a causa delle difficoltà di ambientamento di Marianna, realizza il busto di sua moglie, alcuni busti di persone defunte e dipinge paesaggi paganichesi. Intanto, il 29 novembre del 1904 nasce la prima figlia Margherita; dopo appena un anno e mezzo nasce la seconda figlia, Luisa che, non perfettamente sana, crea notevoli problemi ai genitori.

A queste difficoltà si aggiunge per de Paulis l’ansia di trovare un lavoro stabile. Su interessamento di Teofilo Patini, suo amico, ottiene l’incarico di dirigere, in sua vece, la Scuola d’Arte e Mestieri dell’Aquila. Si trasferisce quindi all’Aquila nella casa, di proprietà del padre, in via dei Sali n 22. Qui con la famiglia, conduce una vita tranquilla rispetto a quella “disastrosa” vissuta a Paganica. L’incarico di direttore e di insegnante presso la Scuola, essendo nato nel frattempo deceduto Teofilo Patini, si protrae per tre anni, fino alla trasformazione di essa in Regia Scuola Industriale, di cui è fondatore, vicedirettore e docente.
Nel primo decennio del 1900, in occasione dei convegni organizzati dalla società aquilana Dante Alighieri, effettua dei piacevoli viaggi in alcune città che, nei manoscritti, si dilunga compiaciuto a descrivere.

Nel 1904 ottiene l’attestato di privativa industriale come inventore  della scala-leva “Paulina” a vite.

Nel 1905 e nel 1906 si reca rispettivamente a Venezia e a Milano per visitare le esposizioni d’arte. Le opinioni in merito vengono riportate nei due volumetti: “Impressioni di un ipercritico sulla VI esposizione d’Arte a Venezia” e “Un viaggio a Milano durante l’esposizione del 1906”. Nel primo scritto l’autore esprime in modo polemico il proprio dissenso nei confronti dell’arte moderna, definita come “…un insieme di tentativi, ormai abortiti, di gente che ha sbagliato strada”. Si scaglia anche contro i critici che “ …hanno la pretesa di presentare certe bravure per opera d’arte”.

Nel 1910, partecipa senza vincere, al concorso bandito a Genova per l’erezione di un monumento ai Mille, con il gruppo “Garibaldi e i garibaldini”.

Nell’agosto del 1911 nasce il figlio Eligio, ma la gioia per tale evento e la tranquillità familiare durano solo pochi anni. Infatti, nel 1915 il terremoto rovina la sua abitazione ed è costretto ad andare a vivere nella casa paterna a Paganica.

Durante questo soggiorno de Paulis si reca a piedi all’Aquila, sul posto di lavoro, fin quando non trova alloggio presso un amico. “… e quando le scosse si resero meno frequenti o impercettibili, decisi di trovare in città una casetta in fitto per riunirmi in essa con la famiglia”. 

Alle tristi esperienze vissute in seguito al terremoto si aggiungono quelle, ancor più drammatiche, causate dalla guerra. È toccante a tal proposito la descrizione delle sofferenze che l’artista, insieme alla famiglia, subisce durante la Prima guerra mondiale “ …  Voglio narrare le sofferenze che soffriremo io, mia moglie e i disgraziati figli miei, ai quali spesso mancava il vero pane, oltre tante altre cose necessarie. Per avere il pane più di una volta dovetti procurarmelo pregando un fornaio mio conoscente che me lo dava di nascosto. E nemmeno la carne si poteva avere, così che una volta che una bambina cadde malata dovetti raccomandarmi ad un macellaio che mi dette pochi etti facendomi andare di notte a casa sua… Una volta anzi rimasti senza pane mi consigliarono di rivolgermi alla caserma vicina, creata nell’ ex Convento del Carmine, coi quali potetti ottenere del loro pane che portato a casa fu trovato con sopra dei pidocchi vivi, capì che per mangiarlo dovevamo prima spazzolarlo e poi abbrustolirlo… Insomma, si soffrì quasi la fame, la quale poi, non fu estranea alla morte delle mie povere bambine”.
In questi anni difficili pubblica due scritti didattici sul disegno “Perché si studia il disegno” (1915) e “Il disegno, l’acquerello e la plastica” (1917).

Con il sussidio concesso dal Governo ai terremotati trova un locale in città, che predispone a studio di scultura. “Né avvilito né domo, dopo la prima guerra, benché ormai senza alcuna speranza; ma sempre innamorato dell’arte mia prediletta volli concorrere all’erezione del monumento ai caduti di Avezzano …”. Vi partecipa, pur senza vincere con il bozzetto dedicato alla Vittoria, intitolatoLaboremus”. Di questi anni è un bassorilievo in marmo raffigurante una Madonna col bambino realizzata per essere collocata nella cappella di famiglia. 

In merito alla vasta produzione scultorea dei primi venti anni del secolo l’autore ricorda le opere, secondo lui, più significative: il busto al Tenente Priori, un eroe abruzzese morto durante la guerra italo-turca (la riproduzione, in bronzo, è parte del monumento in onore dell’eroe a Torino di Sangro, suo paese natale); i busti del re e della regina, eseguiti per la prefettura dell’Aquila; il busto a Teofilo Patini, che doveva essere parte del monumento da erigere al pittore; il busto in onore al notaio Giannetti, benefattore dell’Ospedale S. Salvatore dell’Aquila, che si trovava nella sala di ingresso dell’ex sede dell’ospedale stesso; la scultura raffigurante un corridore di Maratona, la quale inviata presso una fonderia a Roma perché ne venisse realizzata una copia in bronzo, con grande rammarico, non riuscì più a riavere (descritto dal giornale “L’Indipendente” del 3 dicembre 1910).

Il 1921 è un anno che segna tragicamente la vita di Giovanni de Paulis:  a gennaio perde il padre; il 14 marzo il figlio Eligio, investito da una bicicletta; il 25 settembre la figlia quindicenne Luisa. Dopo due anni, muore anche la figlia diciannovenne Margherita. “E noi disgraziati genitori rimasti soli non impazzimmo! Ci rassegniamo sopportando tutti i dolori che un padre e una madre rubati da tutti i suoi figli possono sopportare”.
A tali disgrazie si aggiunge la malattia della moglie che deve subire diversi interventi chirurgici a distanza di poco tempo. A causa di queste tristi vicissitudini, la produzione di G. de P. rallenta notevolmente.

Nel 1926 pubblica il volumetto “Sonetti in dialetto dell’Abruzzo aquilano” che raccoglie le poesie, scritte anni addietro, “La vita di San Pietru Celestrinu” (già pubblicata nel 1896) e “Il racconto di un emigrato reduce dall’Argentina” del 1908. Nel 1927 pubblica quarantaquattro sestine in un volumetto intitolato “Lo specchio del moderno studente”.

Il 14 settembre 1928 G. de P., dopo l’annessione di Paganica al Comune dell’Aquila, prova ancora a perorare presso il Duce la causa dell’autonomia, “sino a qualche mese fa capoluogo di Comune e Mandamento, oggi divenuta contro la volontà di tutti i paesani, donne comprese, frazione del Comune di Aquila.” Nella missiva G. de P. adombra il dubbio che petizioni e reclami dei paganichesi non fossero mai stati consegnati a Mussolini “ché, altrimenti nella sua alta giustizia non avrebbe permesso uno strappo simile alla Legge che si riferisce ai piccoli Comuni, e vicini, incapaci di reggersi da soli.” Quindi si sottolinea come la situazione del paese fosse già peggiorata a pochi mesi dall’annessione: “Paganica, come paese agricolo è, per forza di cose, sudicio anziché no. Ebbene, prima, quando vi era il Sindaco o il Podestà, ogni rione veniva pulito almeno un paio di volte alla settimana; adesso per economia o per trascuraggine, resta sudicio, eccetto la piazza principale e le strade immediatamente attigue. È certo questo stato di cose fu la causa di una recente epidemia di difterite che uccise un centinaio di bambini. Ma c’è dell’altro; ché avviene anche questo: un abitante di Paganica pur avendo pagato il dazio sui generi da vendere all’ufficio daziario di Paganica, se vuole entrare in città con l’istessa merce deve ripagare altro dazio alle porte, essendo la città “chiusa”. Insomma, con questa annessione contro la savia Legge, si sono creati tanti inconvenienti (senza toccare la piaga dell’urbanesimo) che la popolazione soffre e tace, ma spera in un ritorno al suo antico e libero Comune.

Il 2 marzo 1929 G. de P. inoltra alla Prefettura la documentazione per il brevetto di privativa industriale relativa alla realizzazione della targa luminosa “Paulina” per autoveicoli con illuminazione a luce tangente (invenzione però attribuita al comm. Perrone che inoltra una richiesta simile in tempi successivi, con illuminazione mediante lampadina tubolare).

Nel 1932 all’Aquila si tiene una Esposizione d’Arte alla quale G. de P. partecipa con diverse opere: dipinti di paesaggi, busti e il bronzetto dei due emigranti. Non può esporre il famoso gruppo scultoreo raffigurante l’emigrante a causa delle sue notevoli dimensioni. Le opere esposte, in particolar modo quelle pittoriche, riscuotono ampi consensi dalla stampa. Il critico d’arte de “Il Messaggero di Roma” del 6 settembre così scrive: “G. de P. di Paganica per certe finezze e trasparenze ricorda senza esagerazione, né adulazione inopportune la pittura di Corot”. Nel 1934 Il critico d’arte francese Clement Morro, studioso di G. de P., inviato dalla “Revue moderne  des artes e de la vie” all’esposizione dell’Aquila, così si esprime sull’artista: “… sculpteur, il ajoute aux caractéristiques individuelles de  ses modelès l’expression plus générale de la vie de l’âme, expression grâce à laquelle elle replace l’individue dans le cadre des plus large de l’humanité”.

Anche il “Tempo nostro” elogia l’artista per il ritratto della figlia Luisa, definendo tale dipinto “soavissimo nell’accorata aria sognante”.

Nel 1934 G. de P. partecipa alla Biennale d’Arte di Venezia con la raccolta di versi scritti in momenti diversi della vita, intitolata “Vecchie Storie”. “Essi sono quel che sono: versi all’antica, scritti quasi tutti nel tempo della gioventù ed alcuni anche fuori d’Italia. La maggior parte di essi sono poco lieti, giacché la letizia raramente mi fu compagna nella vita”.

Nel 1937 realizza il busto in onore del generale Graziani, opera che riceve consensi dalla stampa (La Tribuna di Roma del 28 ottobre 1937 e Il Corriere d’Abruzzo dell’ 8 gennaio 1938).

Le poesie dedicate al custode del cimitero di Paganica, scritte nel 1895 vengono raccolte e pubblicate nel 1945 in un volume intitolato “Ad un eremita”.

In una pubblicazione del 1947 intitolata “Salviamo Paganica“, de Paulis afferma che Paganica fu ridotta a frazione solo per aumentare popolazione ed entrate ad esclusivo beneficio della città dell’Aquila. Come se L’Aquila si fosse fatta matrigna verso Paganica pur essendone storicamente figlia per un quarto e come se L’Aquila stia progressivamente distruggendo Paganica come fece con Amiterno e Forcona. Dopo aver sostenuto che “Paganica non è frazione di nessuna città“, egli ricorda di aver sempre denunciato questa operazione vergognosa sia in epoca fascista, sia in epoca democratica, senza essere mai sentito. “Ora Paganica è ridotta al livello di un misero paese abbandonato. (…) Venuta la Repubblica, i paganichesi sperarono in migliore avvenire: ma fu speranza vana. Dopo le elezioni amministrative sperarono ancora e sperarono persino di liberarsi da questa schiavitù ancora fascista; ma hanno dovuto constatare che si andava di male in peggio, ché l’Amministrazione dell’Aquila, intenta a far lavori per abbellire la città ed anche per l’ambizione di lasciare il proprio nome, va facendo opere spesso inutili (…) L’Amministrazione aquilana finge di non sapere e continua a fare lavori costosi nella Città, con la scusa di dar lavoro ai disoccupati, mentre potrebbe ugualmente dar lavoro a tutti, migliorando le condizioni delle povere frazioni, e specialmente di Paganica che pel suo esteso territorio, e quasi ricca qual era e senza debiti, fornisce alla Città i maggiori proventi. Tutto questo basterebbe a far perdere la pazienza a un popolo di santi ma a Paganica si spera ancora. (…) È bene però anche non dimenticare che i paganichesi sono abbastanza resistenti alle avversità, ma può scappare la pazienza anche ad essi.

Ma la speranza dei paganichesi fu vana per un uso distorto del potere politico, nonostante qualcuno avesse riconosciuto  i diritti reclamati dalla popolazione. Il 15 maggio 1948 la Giunta Provinciale dell’Aquila presieduta dall’avv. Ermenegildo Tecca esprimeva parere favorevole alla richiesta dei paganichesi sottolineando che “Paganica, vecchio Comune della Provincia, venne aggregata al Comune dell’Aquila dal governo fascista con atto dispotico ed inconsulto, senza neanche chiedere il parere dei cittadini e senza tener conto degli interessi della comunità.

In una dettagliata relazione allegata (redatta nel mese di gennaio), un Ispettore Provinciale faceva riferimento ai motivi dell’annessione del 1927: “E’ da escludere nel modo più assoluto che esistessero allora speciali motivi di ordine amministrativo e finanziario che giustificassero il provvedimento.” E aggiungeva: “Come risulta dalle cifre su esposte, le entrate delle frazioni che costituivano il Comune di Paganica non coprono attualmente le spese che si sostengono per il funzionamento, nelle frazioni stesse, dei pubblici servizi. Può affermarsi perciò che l’eventuale ricostituzione del Comune di Paganica migliorerebbe la situazione – ora assai critica – del bilancio del Comune dell’Aquila.

Il 26 maggio 1948 il Prefetto dell’Aquila inoltrava al Ministero dell’Interno l’intera pratica relativa all’istanza di ricostituzione (completa di tutta la documentazione necessaria), accompagnandola col proprio parere favorevole.
Tuttavia, il 9 giugno Umberto De Leoni (segretario particolare del Sottosegretario agli Interni) scriveva alla Direzione Generale per l’Amministrazione Civile, chiedendo di fornire comunicazioni in merito al distacco di Paganica dall’Aquila, in quanto “un autorevole parlamentare prospetta l’opportunità di soprassedere al distacco.

Il riferimento è al prof. Vincenzo Rivera, deputato democristiano aquilano, che ancora il 15 giugno scriveva privatamente all’amico Edmondo Cossu, direttore generale del Ministero dell’Interno : “E’ stata trasmessa al Ministero la pratica di distacco della frazione (già Comune) di Paganica da Aquila. Sorge ora una difficoltà per la quale io la pregherei di soprassedere all’avviare la pratica alla soluzione: è la frazione di Onna, prima facente parte del Comune di Paganica, che intende non essere distaccata da Aquila. Le presenterò la documentazione che, credo, farà riflettere. Le sarò grato se vorrà assicurarmi benevola accoglienza.

Agli inizi di luglio Cossu rispondeva a Rivera che la pratica relativa alla ricostruzione del Comune di Paganica veniva riservata all’esame della Regione, cui l’articolo 133 della Costituzione demandava le competenze in materia. Peccato che le Regioni non venissero ancora istituite, ed anzi lo sarebbero state “appena” 22 anni dopo!…

La morte di Marianna avvenuta il 22 dicembre 1948 lascia l’artista in uno stato d’angoscia e di solitudine al quale sopravvive grazie solo alla sua eccezionale tempra.

Nell’ultima fase della sua lunga vita de Paulis, rimasto ormai solo, si chiude nel dolore senza poter trovare alcuna consolazione nemmeno nell’arte, che era stata il suo sostegno e la sua forza. Così, il 24 marzo del 1949 esprime la sua disperazione: “… Ma il destino mio che, salvo pochi intervalli, mi fu sempre avverso, ha voluto provarmi ancora fino in ultimo senza pietà, mi ha tolta la compagna della vita e sono rimasto solo a piangere! Che sarà di me?”. Le opere scritte in questi anni “L’anima dei credenti”, il cervello e la logica” (1953) e “Il giudizio universale, il cristianesimo e la logica” (1955) rivelano un de Paulis che, ritiratosi in una solitaria meditazione, si concentra ormai in una problematica metafisica per la ricerca di una spiegazione del senso o non senso della vita.

Nel 1957 raccoglie i componimenti poetici in lingua e in dialetto già pubblicati in precedenza, in un volume unico intitolato “Vecchie storie”.

Giovanni de Paulis muore il 28 gennaio 1959 nell’Ospedale Civile S. Salvatore dell’Aquila all’età di 98 anni.

Principali risultati della molteplice esperienza letteraria  di Giovanni de Paulis
La produzione di Giovanni de Paulis, copiosa e varia rispecchia la sua complessa ed eclettica personalità. Egli, spirito sempre inquieto e insoddisfatto, va alla ricerca continua di qualcosa che lo appaghi, che dia tranquillità al suo animo travagliato.

Forza motrice della sua vita sono le arti predilette, la scultura e la pittura, ma non trascura le altre svariate forme di estrinsecazione dell’arte. Durante il lungo corso della sua vita lo vediamo improvvisarsi artista, critico d’arte, commediografo, novelliere, poeta, inventore, professore. forniamo un semplice elenco dei principali risultati della molteplice e esperienza letteraria.

a) Commedie e novelle (manoscritte)

1)  Livia o con l’amore, scritta intorno al 1892 e rappresentata al teatro Momo dell’Aquila il 6 settembre 1900.
2)  Il torto del diritto o Eccesso di diritto, scritta il 30 luglio 1900.
3)  Il giorno di S. Antonio Abate, scritta tra il 1895 e il 1896.
4)  Elezioni amministrative, scritta tra il 1895 ed il 1896.
5) Tomassu, iniziata a scrivere nel 1906.

b) Scritti critici (editi)

1) Impressioni di un ipercritico sulla VI Esposizione Internazionale d’arte di Venezia (1905).
2) Un viaggio a Milano durante l’esposizione del 1906 (1906).
3) Salviamo Paganica  (1947).
4) I padroni di casa e la legge del 12.10.1945 sugli affitti.
5) L’anima dei credenti: il cervello e la logica (1953).
6) Il giudizio universale, il cristianesimo e la logica (1955).

c) Scritti didattici

1) Perché si studia disegno? Utilità di questo studio – Il disegno nelle scuole medie (1913).
2) Il disegno, l’acquerello e la plastica (1917).

d) La poesia

1) La vita de S. Pietru Celestrinu (Celestino V) – (1896).
2) Racconto di un emigrato reduce dall’Argentina  (1908 -1909).
3) Sonetti in dialetto dell’Abruzzo aquilano (1926).
4) Lo specchio del moderno studente (1927).
5) Vecchie Storie (1934).
6) Ad un eremita (1945).
7) Vecchie Storie (1957).
8) Poesie varie  (manoscritte):
a) Felicità (1890).
b) Alla signorina M.D. Sogno (1890).
c) Per una malattia avuta qui in Buenos Aires (18 gennaio – 19 febbraio 1890).
d) A la regina (1891).
e) ..! (1892).
f) Al sole levante (1893).
g) In una bettola (1896).
h) Augurio (1896).
i) La moglie a gliu maritu che rentra ‘mbriacu (1928 – 1949).
l) Una legge igienica del 1929.

e) Autobiografia (manoscritto)

I ricordi miei (1949-1950).



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