L’IDEA DI DIO IN ANTONIO SCARCIA

Una lacrima ha radici

più profonde di un sorriso

Emile Cioran

 

 

- di Fernando Acitelli -

L’arco sotto la casa dei Lalli offriva a molti un’opportunità di riposo perché lungo di esso era stato realizzata una sporgenza che si qualificava poi come sedile. Quest’ultimo risultava breve ed erano richieste qualità d’equilibrio per sedersi là sopra.

 

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Soprattutto quando pioveva, quell’arco, che assomigliava ad una brevissima galleria, consentiva ai reduci dai campi o dal pagliaio, di trovare riparo là sotto. Si posizionavano proprio nel mezzo e in quel punto la pioggia non li avrebbe raggiunti.

 

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Erano in salvo. La pioggia, come autentica manifestazione della natura, aveva la sua importanza per i campi ed anche per quanto si era seminato ma essa era sempre portatrice di tristezza e non si vedeva l’ora di giungere a casa, cambiarsi e poi sedersi di fronte al focolare.

 

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Pure, qualcuno si posizionava sul ciglio dell’arco, verso la Bucia, e da lì prendeva ad osservare il vasto soffitto grigio del cielo in tumulto. Voci dalla casa dei Bebè. Voci che poi aumentavano fino a tramutarsi in grida con velleità da battibecco.

 

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Grida riferibili alla legna che non era stata stipata bene. Una voce che rintuzzava quell’accusa affermando che in quel punto della tracenna non sarebbe giunta la pioggia. Ancora grida che percuotevano la volta di casa e poi di nuovo precisazioni sul modo perfetto in cui s’erano accatastate le lena.  Quasi battibecco sul far della sera. Chi stava sotto l’arco oppure chi con l’ombrello s’avventurava sotto la pioggia, sentiva quella disputa sopraelevata nella quale, ancora una volta, sembrava avere la meglio Silvestro. S’è detto bene: “Sembrava avere la meglio Silvestro” perché di fatto non era così e piano piano che ci si sedeva accanto alla tavola ecco che le ragioni di Ercolino avevano la meglio e a quel punto la sottolineatura di quella piccola vittoria era siglata con un bicchiere di vino.

 

 

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Chi dentro quella casa non aveva più alcuna velleità e che ormai sorrideva verso tutte le rappresentazioni che la vita offriva, era il padre di Silvestro, Natale Salsieri da Onna, che manteneva il sorriso (sotto solenni baffi) e la sua posa ricordava certi surrealisti del tempo mitico di Buñuel, Dalì, Picabia. Dentro quel sorriso c’era tutta l’incomprensione della realtà oltreché tutto il tempo speso a vivere. Se si fossero messi accanto Natale e Antonio, il pittore avrebbe trionfato con quel dipinto che avrebbe di sicuro titolato L’insensatezza della vita.

 

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In quella casa chi dominava come voce era Silvestro, il marito di Maria. Quelle schermaglie iniziali si mutavano presto in liti certificate e chi poteva contrastare un poco la voce tellurica di Silvestro era proprio sua moglie Maria.

 

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Prima del temporale Antonio Scarcia s’era rifugiato a casa. Finissimo con i sensori dell’animo, aveva udito la pioggia prima annunciarsi come capriccio lieve e poi definirsi compitamente come acquazzone. Alle prime gocce vere s’era avviato a casa, a pochi passi da quella breve galleria.

 

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Quella breve galleria era sempre nei suoi pensieri. In altre parole egli si sentiva nei pressi di casa ma non “dentro casa”. Ciò significava che da quel posto privilegiato sotto quell’arco poteva continuare a pensare, allestire immagini nella mente senza che questo sua attitudine fosse scheggiata da grida, sentenze su come s’era operato, e quindi precisazioni insidiose. Là sotto Antonio era “nei pressi” di casa, ma non era “dentro casa” e dunque la sua libertà in quel luogo rimaneva integra.

 

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Antonio Scarcia, seduto su quel sedile sotto l’arco, aveva sentito le imprecazioni di Silvestro ma non se n’era curato più di tanto. Anche a tavola, quella sera, egli non avrebbe commentato quelle schermaglie e si sarebbe gustato la cena in silenzio, come un ospite.

 

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Il suo sguardo furbastro, gli occhi chiari, vispi, già intravedevano la sera e il tepore famigliare. Ma anche durante la cena la voce di Silvestro avrebbe percosso le mura ma ad essa si sarebbe contrapposta quella di Ercolino,  voce morbida, persuasiva, propria di colui che rimette tutto in asse.

 

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Era proprio Ercolino, appoggiato da Carletto, a esporre l’ordine del giorno per l’indomani: decollavano i compiti assegnati. Antonio pareva disinteressato ed era nel giusto. Ridacchiava contento nel suo cantuccio vicino al focolare. «Ma que stave a predicà? Ma come ce nne tè!…» – commentava tra sé.

 

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Dietro a queste voci s’ascoltava quella di Maria che sembrava riassumere il Coro greco nella tragedia. Era composta quella voce, senza mutazioni di tono ma incideva in quell’atmosfera. Era lei che ricordava a tutti come comportarsi e poi i pericoli che potevano sorgere da certe situazioni. L’andamento della casa spettava a lei e a Marietta.

 

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Se si passava sotto la loro casa e si vedeva ancora la luce accesa nella prima apertura con balconcino al primo piano, ciò voleva dire che s’era ancora entro le ventuno e trenta. Un quarto d’ora dopo il silenzio era un vangelo nella casa dei Bebè.

 

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Di lì a poco se ne sarebbero andati tutti a dormire e quel vicinato si sarebbe risolto nella quiete. Non c’era più Maria de Cicchianne e neppure il marito di questa, cioè Giappone, mentre s’erano inoltrati nel sonno la Finanziera, zia Silvia, e, più verso l’arco, Emidio, Teresa e Domenico Giampaoli. Oltre l’arco, il silenzio riguardava Giannatte, Nicolina e Laudino. Quindi Giovanni gliu turc. Dopo la svolta verso la Pisterola anche Adamo, in quella casa che un tempo era nominata come quella di Milord. La Madonna, nella nicchia, non andava a letto e vegliava su tutto.

 

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Mi immaginavo spesso Antonio Scarcia di notte dietro i vetri della finestra: da quel luogo avrebbe rivolto il suo sguardo verso l’immagine della Madonna nella nicchia sperando che Lei gli bisbigliasse qualcosa. Se fossi stato spettatore d’una simile scena, con Antonio che pregava e singhiozzava, l’avrei maggiormente classificato nella religiosità più pura.

 

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Ogni volta che facevo ritorno a casa ed era notte fonda, proprio questo sognavo prima di varcare la Bucia. Ancora qualche passo e forse l’avrei visto Antonio alla finestra intento a comporre quel farfugliamento emotivo che era molto più intenso d’una preghiera.

 

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Ma a quell’ora Antonio era intensamente assorbito dal sonno. Già da quattro ore s’era inoltrato verso quel silenzio che agognava anche di giorno. Eppure non lo consideravo un sogno vederlo alla finestra e intento a volgersi verso la Madonna. Forse le avrebbe chiesto notizie su sua madre.

 

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Il cambiarsi per la notte ed i problemi che ne derivavano. Qualche famigliare di certo provvedeva ad aiutare Antonio a togliersi gli indumenti del giorno e ad indossare il pigiama e forse anche la sublime cuffia. La fatica nel togliergli gli inseparabili scarponi. Sempre con lo sguardo confinato sul sorriso, egli ubbidiva, pure imprecando lievemente.

 

 

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Il sonno era per lui un necessario distacco dalla vita. Riacquistava vigore e i frequenti borbottii cessavano. Inoltre egli poteva sognare, cioè avere la possibilità (evanescente) di riaffacciarsi sui luoghi dei suoi affetti, congedatisi da tempo.

 

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L’assistere a quell’avviarsi di Antonio al letto avrebbe avuto un grande significato. Poteva accadere che egli, una volta disteso e sotto le coperte, iniziasse le sue orazioni e questo con la lampadina accesa sulla colonnetta.  Una luce fioca, quasi lo sfinimento della lampadina. O forse c’era la candela su quel ripiano di marmo della colonnetta. E in questo caso l’immagine sarebbe stata quella d’un santo esposto nella preghiera.

 

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Tutto questo era più intenso d’inverno. In tale situazione Antonio sarebbe scomparso subito sotto le coperte e tanti saluti a tutti fino all’indomani. Pensavo pure al lavoro continuo, paziente, di Maria e Marietta per mettere u prete nel letto. Le procedure per quest’ultima faccenda sarebbero iniziate poco prima di cena. Tutti i famigliari avrebbero trovato tepore sotto le coperte.

 

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Ma che notti erano quelle di Antonio? C’era forse qualcuno che si preoccupava per lui? Si sollevavano prospettive ultraterrene in quella casa che offriva tante possibilità di riflessione? E qual’era l’idea di futuro di Antonio?

 

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L’intonaco perfettamente bianco, gli ovali appesi con i volti degli antenati, le coperte di riserva contro il gelo, disposte geometricamente dentro un cassettone. Tutti i referti di oscure patologie stipati in una cassetta di legno munita di lucchetto. Quali le paure a sera per un’insufficienza in agguato? Ma si sarebbe compreso il significato di una insufficienza?

 

 

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Ma le malattie non potevano nulla contro le preghiere e dentro casa dei Bebè lo sapevano perfettamente. Antonio si levava per primo nel disporsi in orazione e quando dall’autunno si finiva a capofitto nell’inverno, la paura dilagava anche in quella casa. Ma la preghiera era un bel fortilizio.

 

 

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La verità era che avrei desiderato cenare in quella casa per rendermi conto di tante cose. Innanzitutto il loro “timore” nei confronti d’un ospite e poi il sentimento religioso che lì dentro si sollevava. Desideravo accertarmi proprio di questo. A tavola, di sera, si parlava di tante cose ma Antonio, figlio d’una religione semplice ed immediata, cioè autentica, al minimo sentire del chiasso per discussioni di lavoro, s’estraniava, guadagnava il suo cantuccio vicino al focolare e si riassumeva in Dio.

 

 

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A proposito di Dio: Antonio lo coglieva ad ogni istante. Era un rifugio di verità. Nel suo animo niente poteva scalfire quella sua sensazione. Era questo ciò che per lui dominava tutto. Lì dentro gli altri famigliari forse non coglievano questo ma in certi momenti di quiete – di sospensione dalla vita – essi ammiravano Antonio.

 

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Di certo bisbigliavano tra loro una verità, ovvero che il vero credente in quella casa era Antonio, se non altro per il suo accorrere lesto alle funzioni ed essere in testa ad ogni funerale. E poi non era forse vero che su giacca e giubba egli mostrava sempre una lunga sequenza di medagliette di santi?

 

 

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Ecco, qualora ce ne fosse stato bisogno, egli mostrava subito il suo credo con quella lieta e piccola esposizione di santi. E quelle medagliette dondolavano e poi c’erano sempre nuovi arrivi e così con i volti recenti, ecco che c’era un potenziamento della fede.

 

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A quella vista c’era subito da domandarsi: «Chi ha donato ad Antonio le medagliette più recenti? E chi ha composto la nuova sequenza sulla giacca? Ma il posto più importante non è quello in alto? È stata rispettata la gerarchia? E perché un santo nella nuova collocazione viene prima di un altro? Può esistere un po’ di invidia per quel sorpasso? Non sarebbe stato più giusto avanzare di postazione piano piano, dopo un po’ di tempo? E si viveva bene in quel condominio di santi?» Tutto questo mi si componeva nella mente quando notavo “qualcosa di nuovo” sulla giacca di Antonio.

 

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Quel “qualcosa di nuovo” significava un incremento della fede, un sapersi ancora più protetto, del resto i nuovi arrivi erano compresi in un bel medaglione, sempre piccolo ovviamente. Ci faceva un “figurone” Antonio con tutti quegli affreschi, con tutta quella storia dell’arte in dosi omeopatiche.

 

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Durante i funerali ecco che Antonio si mostrava così partecipe e addolorato che diveniva lui il vessillo della fede. Per nessun fatto improvviso in famiglia egli avrebbe rinunciato ad un funerale ed era proprio in quella funzione che egli sentiva più viva la presenza di Dio. Nulla l’avrebbe fermato, neppure un sentore di febbre in arrivo: il suo posto era in uno dei due banchi prima della sagrestia. Chissà quali immagini egli componeva in quei momenti…chissà se in quegli istanti egli dava una voce ai suoi genitori e poi, quasi con un rafforzativo di salvezza, s’accostava ai luoghi di Dio. Ma quali erano i luoghi di Dio per Antonio?

 

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E la ricognizione sulla chiesa era completa, con il suo sguardo che spaziava ovunque, dall’altare che gli stava di fronte, all’altra navata, ai presenti, e raramente si voltava verso chi gli stava seduto accanto. Per lo più dondolava la testa e non era raro che gli spuntasse un sorriso: e il sorgere di quel sorriso accadeva per ragioni a noi ignote, forse una collisione celeste che, secondo lui, aveva avuto esito positivo. In particolare una scena di beatitudine in cui, probabilmente, erano compresi i suoi cari. Era proprio in quel sublime smarrimento che si poteva scorgere un’istanza ultraterrena: bastava un sorriso e si capiva subito, allora, in quali luoghi mentali (e spirituali) stesse aggirandosi Antonio.

 

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Il suo pianto era lieve, per lo più una sorta di miagolio sincero che aveva come prova visibile le lacrime. E in quegli istanti il dondolare la testa diveniva più intenso come se dovesse cercare conforto tutt’intorno, un sostegno a base di parole o con sguardi più che comprensivi.

 

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Antonio era impeccabile nel rispetto del rituale e già con lo sguardo sembrava anticipare i tempi della liturgia. Gli erano ormai familiari –almeno come suono - le lettere di San Paolo agli Efesini e ai Romani e per lui quelle citazioni erano un’altra prova evidente che Dio stesse aspettandoci. Lui intuiva con semplicità e nitore tutto questo e in quei momenti la sua purezza era al sommo perché lui non tremava nei confronti dell’eternità, in questo risultando superiore ai teologi che spiegavano talmente tanto che alla fine erano molto più dubbiosi e timorosi di Antonio.

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Si sarebbe dovuta studiare la fede di Antonio. Ma non occorrevano seminari, né accademici a cerimoniare sulle parole senza arrivare all’essenza. Per comprendere l’universo interiore di Antonio era sufficiente trascorrere un paio di giorni accanto a lui. Oppure osare una diagnostica del cuore, dei sentimenti insomma, ma questa, come si sa, non è disciplina per tutti.

 

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Il pensiero su Dio Antonio lo coltivava ad ogni istante. Poteva magari accadere che la sua presenza fosse richiesta al pagliaio o alla stalla, che qualche famigliare gli sottolineasse qualche procedura o mancanza ma anche in simili eventualità egli non abbandonava mai quella sua luce interiore.

 

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Anche una sua rara imprecazione conteneva qualcosa di bonario, in altri termini non possedeva i contorni dell’offesa ma si trattava come d’un “grido d’aiuto”, insomma che ci si accorgesse tutt’intorno della sua esistenza. Ma anche l’imprecazione sfumava subito e di colpo sopraggiungeva quel lieve sorriso.

 

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Pensavo spesso, al tempo della giovinezza, che sarebbe stato bello assistere, non visto, all’andata a letto di Antonio dopo un’intera giornata dedicata alle faccende di famiglia. Mi sarei stupito favorevolmente a vedere come procedeva nel togliersi gli abiti (magari aiutato) e poi nell’adagiarli su una sedia posta magari accanto alla colonnetta. Quindi quel sospirare buono che svelava tutto il suo mondo interiore. E perché, le preghiere? Potevo forse immaginare che Antonio, una volta abbigliatosi per il sonno, avesse evitato un raccoglimento, un lieve bisbigliare verso il cielo?

 

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Interessante sarebbe stato anche spiare un altro procedere verso la branda, quello di Natale Salsieri quando costui soggiornava (non si sapeva bene con quali scadenze) ad Assergi. Dunque la stanza da letto: la colonnetta che traballava e che, proprio per una simile patologia, aveva un piccolo sostegno di cartone sotto uno dei piedi anteriori. Un fazzoletto attorno alla lampadina: la luce giallognola che è propria d’un agguato, d’una lesta dipartita. L’ovale con San Franco sulla parete bianca. L’ovale con San Gabriele accanto. Il loro comprendersi essendo elargitori di speranza. Anche in quella casa s’era cercato un rafforzamento delle fede e poi la santità equivaleva ad un grande sistema difensivo. In quegli istanti poco prima d’abbandonarsi al sonno la viva sensazione dell’impotenza dei santi. L’incertezza su tutto, dai Vangeli alla Chiesa. Natale Salsieri possedeva dentro di sé tutti questi scenari emotivi ma ormai non aveva più la forza per distinguere figure e oggetti. La sua pelle bronzea, le vene alle tempie e alle mani che parevano ormai protette soltanto da un sottilissimo velo d’epidermide. Quell’evidente delta venoso alle tempie. Le pupille con un lieve velo davanti, come se la natura sapesse che, arrivati ad un certo punto, il vero miracolo era vedere il mondo in modo appannato. Non parlo di cataratte ma, estraniandomi dalla realtà, è meglio parlare di veli sulle pupille. La salvezza era lì, nell’avvistare ombre. Erano sufficienti le ombre per continuare a vivere. E poi i tempi lunghi per togliersi gli abiti, il tremore, la possibilità dell’inciampo, l’oscillare severo, la sensazione che stesse sopraggiungendo un mancamento. Poi l’aiuto di qualcuno (di suo figlio Silvestro?) e finalmente il ficcarsi sotto le coperte con il gelo non sul corpo ma nell’animo. E dunque tutte queste fasi del suo spogliarsi sarebbero state osservate ma soltanto per capire il modo in cui un novantenne guadagnava il letto e poi per sentire di quale intensità fossero i suoi sospiri. Ma a quel punto il referto da me stilato avrebbe previsto parole lievi, mai che potesse immaginarsi l’inizio d’una patologia, d’una insufficienza. Il mio referto per Natale Salsieri, come per Antonio, sarebbe stato lirico, cioè sospeso da terra, molto in alto, in vero nelle regioni del sogno. Ma questo mio procedere era esso stesso un sogno e infatti per nessun motivo al mondo sarei potuto finire in quella casa e poi, addirittura, chiedere e ottenere la vista dell’andata a letto di quelle care figure. Ma non sarebbe stato affare sublime vedere anche il raccogliersi in preghiera di Natale Salsieri?

 

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La voce di Silvestro si coglieva dalla fontana della Porta del Colle. Di sera faceva male ascoltarla perché era roca e pareva volesse istruire un duello. Ma a casa tutto poi si sarebbe risolto con Maria che possedeva veramente virtù diplomatiche.

 

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Checco rappresentava l’anello di congiunzione tra Antonio e tutti gli uomini della famiglia. Gran lavoratore, una sera al belvedere di Na Porta mi confidò che di lì a poco si sarebbe recato dal dentista per poter nuovamente contare su una bella dentatura. «Me remett tutti i denti e po m’allumane tutte…» – questo mi disse sorridendo soddisfatto. Era d’agosto, poco prima di cena, e della festa dissolta si parlava già in termini di ricordo. Non di Memoria, ma di ricordo. Qualcuno, però, in disparte, aveva bene archiviato quei giorni. Qualcuno, ma non tutti. Già s’avvistava settembre con tutti i proponimenti del caso.

 

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Quella sera sul belvedere di Na Porta fu tenuta in piedi da Antonio de Cirl con tutto il suo repertorio da cabaret: sequenza di scene che mi giungeva sempre favorevole perché egli sapeva allentare la morsa delle preoccupazioni, malmenare in uno certo senso l’angoscia. Un Antonio de Cirl impeccabile con giacca blu, camicia ben stirata, un brivido di gel sulla chioma residua e poi con quel suo sguardo d’una furbizia bonaria. Checco guardava Cirl agitarsi nella foga della rappresentazione e componeva uno sguardo di perplessità ed il suo silenzio equivaleva a dire: «Ma quistu que sta a dice?» Ma Antonio de Cirl procedeva senza il minimo tentennamento, da attore consumato, del resto uno spettatore perplesso non poteva condizionarlo. E tutt’intorno, poi, scrosciavano gli applausi. E in quei momenti si comprendeva bene come Antonio de Cirl, con la sua ironia, stesse osando uno sberleffo alla vita.

 

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Antonio Scarcia non sarebbe mai finito al belvedere di Na Porta, del resto lui conosceva perfettamente su quali luoghi poter contare ed un allontanamento da casa fino a quel punto di Assergi sarebbe stato incomprensibile. Ma lui “se raffiatea” a non allontanarsi da casa, a respirare in quell’area sacra compresa tra l’Arco dei Lalli (degli Si Giocond) e la Porta del Colle. Tutto il resto, a parte gli affetti e la sua presenza di cuore ai funerali, non sembrava interessarlo. E alla fine, aveva ragione lui.

 
 



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