IL GATTONE DELLA PIAZZETTA DEL FORNO

Non vedi? Al sole i gatti

dormono a due a due.

 

Sandro Penna
 

 

- di Fernando Acitelli -

Verso la metà degli anni ’70 nacque ad Assergi un gattone tutto nero. Non si poté risalire né a suo padre, subito dileguato, e neppure a sua madre anche se su quest’ultima c’erano molti indizi. In quei momenti qualcuno osò che poteva trattarsi della gatta di mia nonna, una gatta slanciata con movenze eleganti. Si potrebbe usare un’iperbole: una delle poche gatte/fotomodelle che a quel tempo si videro ad Assergi. Insomma, una gatta attraente. Il padre doveva essere uno di quei micioni che fanno la fortuna d’un focolare per la loro noia produttiva ed il loro senso della casa. La gatta di mia nonna era assuefatta ai ritmi della dimora e la si vedeva di mattina distesa al sole sul terrazzino subito dopo le scale, oppure sbracata di lato al camino. Si stiracchiava perfettamente soltanto quando nessuno, intorno, la vedeva. Insomma, aveva un certo bon ton, come si dice. Il gattone crebbe alla svelta e si mostrò subito come uno dei più begli esemplari che fosse nato ad Assergi. Faceva riferimento alla casa di Checchino e Domenico e quando uno transitava davanti alla loro casa s’imbatteva in lui accovacciato dinanzi alla porta oppure disteso placidamente su dei gradini laterali, sotto un’entrata ad arco. Gli misero nome Andreotti, ma in quei momenti quella scelta non si comprese – come riferimenti intendo, poteva essere l’astuzia, forse, o la scaltrezza, o la diplomazia - e in mancanza di dati certi io abbandonai ogni tentativo ermeneutico e pensai che era un suono bello e che rimaneva scolpito nella mente. E poi non era un nome banale come i vari Briciola, Teo. Andreotti era micione già da piccolo e si vedeva che sarebbe divenuto un gatto spettacolare e oggetto d’attenzioni da parte di tutti coloro che s’imbattevano in lui. Una gioia per il vicinato. In breve, quando iniziò ad essere un micione a tutti gli effetti, temuto e amato da tutto il circondario, migrò verso la Piazzetta del Forno perché in tale luogo le opportunità di distendersi sotto il sole erano maggiori: si pensi solamente  alle scale di casa di mia nonna Maria; si pensi allo spiazzo che s’ammirava sopra la fontanella. In più, per non essere disturbato, si sarebbe potuto nascondere sul balconcino sopra la casa dove visse Domenica Scarcia (la Cupella) e che poi fu del compare Albino Giusti. Forse da Checchino e Domenico e del padre di questi, Battista, il gatto Andreotti si recava per mangiare, cioè per nutrirsi, tenersi in forma e sempre pronto per amoreggiare. Ma se d’estate l’ombra poteva risultare una scelta azzeccata, il gatto Andreotti, il micione di tutti noi, preferiva per lo più stazionare nella Piazzetta del Forno anche perché lì vi era “più movimento”, insomma una sorta di “movida” alla quale lui non poteva rinunciare anche proprio costituzionalmente, cioè per la potenza e l’esplosività del suo fisico. E poi quel viso super micesco! Era senz’altro nei pensieri di tutte le gatte di quel distretto ma c’era da credere che la voce su di lui e sulle sue gesta s’era propagata giungendo anche alla Porta del Colle, alla Piazza, alla fonte di Sant’Antonio. Uno spettacolo vederlo disteso e un altro spettacolo era quel suo rimanere in silenzio se uno lo accarezzava. Neanche una volta si ribellò alle mie carezze ed anzi, quando io le componevo partendo dal capo e giungendo alla coda, egli godeva talmente tanto che chiudeva gli occhi, come ispirato. Ma essendo un micione si sarebbe potuto pensare che fosse di quel pelo fitto e un po’ increspato ed invece il suo mantello nerissimo e senza alcuna macchia sul davanti – come invece era gatto Silvestro – era liscio, folto, e la sensazione, toccandolo, era d’accarezzare un tratto di seta. Di giorno non che prestasse molta attenzione alle gatte che spaziavano per l’intorno, che si muovevano con attenzione dal vicolo di Fellone alle scale di Sciancacrapa fino all’arco delle Pizzelle e che spesso le si vedeva distese sul gradino della casa di Filomena. Il suo era un fare filosofico, aveva i suoi luoghi esatti e sapeva che era buona cosa starsene da soli. Non aveva mai preso in considerazione un “legame”, insomma qualcosa di stabile, di duraturo. Pure si ignorava quale gatta gli fosse rimasta particolarmente impressa. Ormai per i gatti era finita la stagione della caccia ai topi e questi ultimi, nelle soffitte come nelle cantine, vivevano in un certo senso spensierati saltando da una leccornia ad un’altra. In particolare, ripensando ai topi, io mi riferivo sempre ai cartoni animati e così nella mia mente facevano la loro sortita nientemeno che Pixi e Dixi, topini con papillon, nelle loro sfide con il gatto Ginxi. Quest’ultimo era solito ripetere: «Gliela volevate fare al vecchio Ginxi…!» (Questi nomi erano resi in italiano perché in inglese erano esattamente Pixie, Dixie e Jinks). Ma a parte questi miei sogni legati ai cartoon, i tempi erano mutati ed anche i gatti s’erano “imborghesiti” e non andavano più a caccia perché potevano sempre contare su un buon pasto e allora nella loro mente risuonava la frase: «Ma chi me lo fa fare? Sto tanto bene qui!...» E infatti stavano bene, erano ben nutriti e scorrazzavano con una pigrizia feconda. E in mente mi risuonava la frase di mio zio Antonio che, rivolto a sua madre Maria, soleva dirle: «Ma’, dà tutt a le iatte, chissà tu que te magn?!...» Si sarà capito ma comunque eccola al volo la traduzione: «Mamma, dài tutto alle gatte, chissà tu cosa ti mangi?!...» Ma mia nonna Maria non rispondeva a quella sottolineatura di zio Antonio e continuava ad allentare buone dosi di cibo agli amatissimi gatti. Mia madre ci teneva a ricordare come, sin da bimba, nonna Maria era vissuta tra i gatti, giù, alla casa dei Giacobbe, tra il padre Francesco e la madre Rita. La notte di Natale del 1976 la gatta di mia nonna - quella che era stata individuata come possibile madre del gatto Andreotti - compì un’azione straordinaria: uscì accanto a mia nonna e con lei percorse tutto il tratto dalla Piazzetta del Forno fino al portale della chiesa. Ma la gatta non entrò in chiesa e attese che mia nonna partecipasse alla messa di mezzanotte. Terminato quel rito, mia nonna, uscendo, trovò la gatta proprio nel punto in cui l’aveva lasciata e così, insieme, fecero ritorno a casa. Quella gatta aveva compreso tutto: il mistero della messa e poi il rispetto per quel luogo sacro… Incredibile! E quando mia nonna mi riferì quella storia – accadde il giorno dopo perché per quelle vacanze natalizie ero ad Assergi - stentavo a crederci. Ma sull’intelligenza dei gatti ho anche un altro esempio imponente, riferitomi, al solito, da mia madre. Era il 1930 e mia nonna era a letto con la bronchite e mia madre bimba gironzolava per casa cercando già a cinque anni di rendersi utile per le persone e per la casa. Mia nonna era un poco in ansia perché non vedeva la gatta di casa e, sapendo che era incinta, si preoccupava molto per quella situazione. Accadde dunque che la gatta d’improvviso comparve nella camera di mia nonna, evidentemente aveva ascoltato l’onda lunga delle preoccupazioni da parte di mia nonna. Ma non comparve in quella stanza da sola, no: compose davanti al letto di mia nonna i suoi gattini e delineò questo meraviglioso quadretto recandosi nei suoi luoghi e prendendo uno alla volta i suoi figlioletti, esattamente questo, prendendoli sul collo con quell’accortezza di madre. Con quattro viaggi, distese quei gattini davanti al letto di mia nonna e fu come se le avesse detto: «Questa è la mia famiglia.» (tale frase l’aveva composta mia madre nel mentre mi narrava questa storia). Mia nonna gioì nel letto e diede subito disposizioni ché si preparasse del latte per la gatta. Poi, in un meraviglioso viaggio a ritroso, la gatta ricondusse i suoi gattini in quel luogo di tepore che lei ben conosceva. Capito la situazione a proposito degli affetti veri? Compreso in quali gesti possono distinguersi gli animali? Ma il gatto Andreotti mi prendeva troppo e come l’avvistavo – non soltanto nella Piazzetta del Forno – ecco che subito tentavo d’accarezzarlo. A volte se la svignava con uno scatto veramente felino. Ma forse era in ritardo ad un appuntamento. Questo spettacolare gattone aveva i suoi rigidi confini e mai li oltrepassava. Per esempio mai abbandonava la Piazzetta del Forno della quale era l’eroe incontrastato e se era pur vero che esisteva nell’intorno qualche gatto insidioso, subdolo, un po’ lestofante, alla vista di Andreotti faceva finta di aver sbagliato strada e tornava sui suoi passi e quasi fischiettava da indifferente, e svicolava finendo nel vicolo di Fellone e poi via, in alto, oppure s’inoltrava verso una gattaiola conosciuta. Il gattone Andreotti sorrideva sotto i baffi e sembrava dire: “Chissà cosa aveva in mente il gaglioffo!...” e poi procedeva con un’andatura suntuosa ma anche beffarda e a quelle movenze non che fosse facile, per le gatte, resistere. Malgrado la mole, il gatto Andreotti disponeva di grande agilità e con un balzo sapeva riunire, in salita, anche cinque gradini e dopo una simile performance ecco che si guardava intorno, fissava il canto della fontanella, poi osava ricognizioni verso l’Arco Rutelone, verso la finestrella di Berardino Bacocc, e poi in alto verso Peppina (Ciu Ciu), verso Vincenzo Valeri, verso Giuseppina e Colonneglie. E certamente non poteva scordarsi di gettare uno sguardo verso la Costa anche perché al principio di questa, dalla Piazzetta del Forno, c’era una casa amica e poi delle persone che gli riservavano sempre molte attenzioni. Era la casa di Elisabetta Lalli, madre di Gianni e Giulio Sansoni. Un giorno potei ammirare quel quadretto famigliare. Dal mio balcone calavo con lo sguardo direttamente su quel ritaglio di mondo. Per il gatto Andreotti nessun altro luogo era più favorevole di quello. Dopo la porta c’era un piccolo orto e lì il gatto Andreotti sostò placidamente ascoltando con soddisfazione le parole affettuose che gli riservavano i componenti di quella famiglia. Naturalmente gli venne servito da mangiare e così, dopo aver solennemente pasteggiato, ecco che il gattone si sbracò felice. Si meritava quel riposo perché s’era speso molto nel perlustrare il circondario; in altre parole aveva gironzolato proficuamente e tutto gli era sembrato tranquillo: ogni cantuccio della Piazzetta del Forno viveva nella quiete e a scuotere un po’ il gatto erano state soltanto delle sparpagliate grida provenienti da un arco o in lontananza. Sonnecchiava placidamente e ogni tanto, stiracchiandosi, apriva gli occhi: Gianni stava realizzando qualcosa e infatti aveva in mano delle piccolissime assi di legno con le quali intendeva costruire un mulino in miniatura: me ne aveva parlato nei giorni precedenti ed ora ammiravo quel suo tentativo. Lo schizzo del progetto stava poggiato in terra e quel foglio già stava irrigidendosi sotto il sole. Gianni aveva già realizzato la ruota e a buon punto era la struttura dell’edificio. era giusto che non nascondesse la sua soddisfazione. Giulio non si pronunciava sull’opera del fratello ed il suo sguardo era chiuso in una perplessità senza fine. Per me era facile osservare quanto accadeva in quello spazio custodito ma non mi facevo sentire di modo che ogni azione, in basso, rimanesse autentica e non alterata da una mia eventuale irruzione, anche soltanto con un saluto. Elisabetta osservava il gattone ed anche Gianni e Giulio, ogni tanto, gli lanciavano delle carezze emotive. Lui, bello sbracato, continuava a distinguersi per la sua bellezza: non era affascinante soltanto quando sfilava armonioso per tutti i luoghi della Piazzetta del Forno ma anche quando se ne stava disteso a riposarsi e a contemplare il mondo. A proposito di Gianni e Giulio: essi chiamavano il gatto Trottolone ed era bello questo suono, meno impegnativo e problematico come invece poteva risultare Andreotti. Non avevano mai chiamato il gatto come il senatore a vita e quella loro scelta era indubbiamente lirica, cioè legata alle sensazioni profonde, come se intendessero ri-portare il gattone in un’atmosfera famigliare. E poi Trottollone si poteva gridare forte anche in strada mentre risultava “impegnativo” optare per Andreotti. Così per i fratelli Sansoni – ma anche la loro madre Elisabetta approvò una simile scelta – quel micione senza avversari ad Assergi doveva chiamarsi Trottolone. Che poi a lui – al gatto in questione – non che interessasse poi molto il nome, l’importante per lui – oltre che amoreggiare – era mettere insieme il pranzo con la cena e distinguersi con una vita tranquilla. Come ogni gatto anche Andreotti/Trottolone rispettava il suo rione e non si spostava mai perché, come si sa, fuori dei propri luoghi un gatto può perdere l’orientamento. Anche lui dunque aveva le Colonne d’Ercole, vale a dire i confini dell’Antichità, l’attuale Stretto di Gibilterra. Lui non li superava mai e questi erano rispettivamente la casa di Gianni e Giulio ad inizio della Costa, la bottega di Vincenzo Valeri per la salita della Piazzetta del Forno, l’Arco Rutelone fino alla casa di Attilio Castrati e quindi le “scale della vecchia”. E allora si può dire che la sua vita era compresa in tale area protetta, quanto al ricovero notturno, Trottolone era un tipo che s’adattava ma il suo ricovero principe era nei pressi delle scale di Sciancacrapa, comprese nel vicolo che iniziava dalla fontanella. Ma il discorso sulla notte era abbastanza problematico perché Andreotti/Trottolone con il buio in effetto aveva un gran lavoro da sbrigare e infatti il suo sigillo notturno era un prolungato miagolamento amoroso cui faceva da contraltare quello delle sue fedelissime che, alla fine, se lui non sortiva, lo scovavano trovandolo pure un po’ scontroso come chi, ormai, ne aveva abbastanza di quelle faccende. Di fatto, s’era già speso abbastanza. Non erano casi isolati quelli in cui s’interveniva su quelle faccende amorose e allora faceva irruzione nella realtà qualche solenne secchio d’acqua oppure dei tronchetti di legno, quelli per il fuoco. E a quel punto l’intesa amorosa s’interrompeva ma si trattava comunque d’una pausa breve, e infatti la liaison riprendeva vigore in un altro luogo, certamente più sicuro, appena un poco più in là. E nella nuova situazione la melodia avrebbe ripreso intensità e nessuno avrebbe potuto farci nulla. Di fatto la ricognizione su quel luogo sarebbe stata impossibile e non si poteva mirare da nessuna parte: l’unica cosa da fare per la persona che con quel miagolamento non riusciva a chiudere occhio era attendere la fine di quegli incontri. Pur se infastidito durante le sue performance notturne, per il gattone non era accaduto nulla e al mattino lo si vedeva tranquillamente guadagnare la scena con la solita andatura spavalda e la sua bellezza che migliorava di molto la Piazzetta del Forno. L’ultima volta che vidi quel gattone fu sulle scale di Antonio di Cesare, di fronte la casa di mia nonna Maria: era la tarda mattinata ed un gradino l’accoglieva. In seguito, non vedendolo più, chiesi notizie, domandai, ma non seppi nulla. Era sicuro, ormai, che Assergi avesse perduto il suo più bel gattone. Forse se n’era andato per sempre in una di quelle gelide giornate di gennaio dove incontrare una persona in strada era un evento straordinario. Se dovessimo distinguere ogni contrada di Assergi con un simbolo, come accade per il Palio di Siena, sarebbe giusto assegnare alla Piazzetta del Forno quello del gatto. Adesso la Piazzetta del Forno è deserta, l’erba vi è cresciuta nel mezzo e di sicuro i gatti si sono spostati altrove, sono nati altrove, ma restano nella Memoria le ombre di tutti e pure le filastrocche che i genitori, agli tempi de prima, raccontavano a figli e nipoti:

 

Ti rimando trenta paoli,

zappa l’orto e pianta i cavoli,

marita la mia sorella,

compra il basto alla somarella

e il resto rimandamelo qua.



Condividi

    



Commenta L'Articolo