IL CARRO, L’ORTO, IL LUPO ED ALTRE STORIE

IL CARRO,  L’ORTO,  IL LUPO ED ALTRE STORIE

- di Angelo De Angelis -

 

Ferve una strana attività sull’aia, che tutti chiamano “ORTO”, dinanzi a casa del mio bisnonno Berardo; ha ormai più di novant’anni, ma non li lascia trasparire: in un angoletto dell’aia c’è l’orto che coltiva ancora; un poco a valle, vicino a Fonte Nuova c’è la sua vigna dalla quale ogni anno ricava un ettolitro di vino, quanto basta per berne un bicchiere la sera ed offrirlo ai suoi figli ed agli ospiti che vanno a trovarlo. Lo vedo darsi da fare insieme ai figli Eliseo, mio nonno, Pasquale e Francuccio; con loro i nipoti Berardo, Gino e Vittorio, che hanno da poco terminato il servizio militare e che sono quindi entrati a pieno titolo nel mondo dei grandi.

 

Io ho quattro anni, sono curioso e gironzolo vicino al cancello di ingresso dell’orto, guardando tutte quelle persone che all’interno si danno da fare.
Mia bisnonna Lucia, seconda moglie di nonno Berardo sta di guardia vicino al cancello; per lei quello spazio, oggi, è tabù e non osa avvicinarsi agli uomini di casa, neppure per rifornirli di acqua. Svolge con solerzia ed attenzione le funzioni di guardiana: “Oggi j’ommini non ze pozzu disturbà”, dice con cortesia ma in maniera ferma a chiunque si avvicina, me compreso.
Guardo in direzione di quello strano lavorio che si svolge all’interno; l’aia è dal 1677 il centro dell’attività di famiglia, da quando un antico antenato si è stabilito in paese migrando da Arischia. Ai margini dell’aia c’è un vecchio forno a legna, vecchio ma non quanto nonno Berardo che, seduto su un carro trainato da una cavalla, portò i conci di pietra arenaria da Tottea, un paesino perso tra le montagne del teramano, dove prelevò e portò a Santa Maria anche la prima moglie, nonna Cristina, morta ancora giovane dopo avergli dato tre figli maschi ed una femmina.
Il forno è il fulcro della vita familiare: ogni 15 giorni si svolge l’antico rito della panificazione; si preleva il lievito madre, che si rinnova e tramanda di generazione a generazione, dall’interno dell’arca, con gli stessi gesti e la medesima attenzione che compie il sacerdote che preleva l’ostia dall’interno del tabernacolo. Il lievito è posto su un piatto piano di coccio bianco, sempre lo stesso, segnato ormai dall’uso secolare, prezioso come la pisside d’oro che usa il prete per contenere le ostie consacrate. La forma tonda e piatta del lievito è segnata, nella parte superiore, da una croce. Si scioglie una parte di esso in acqua calda e si mescola all’impasto di farina e acqua. All’impasto partecipano spesso anche alcune patate lesse schiacciate con meticolosa attenzione, che per i successivi quindici giorni manterranno il pane morbido. Parte dell’impasto, unito alla porzione di lievito non utilizzato, si stende nuovamente sul piatto bianco, si traccia una nuova croce su di esso e si ripone all’interno dell’arca. Mentre l’impasto lievita, l’accensione delle fascine di legna all’interno del forno ed il controllo meticoloso del colore biancastro che progressivamente invade le pietre che circondano la stretta bocca del forno, per accertarsi della giusta temperatura all’interno. Le prime ad essere infornate sono le pizze, larghe e piatte, che vengono ricoperte superiormente con un filo di olio d’oliva e del rosmarino, oppure, d'inverno, vengono impastate con gli sfrizzoli, pezzetti di carne di maiale residui della preparazione nello strutto; le pizze servono per stemperare il forno assorbendo velocemente il calore in eccesso della superficie interna, che brucierebbe la crosta dei filoni di pane prima della cottura della parte interna. Si mettono dentro il filoni del pane; il forno ne contiene sette; mezzo filone al giorno, per un totale di due settimane… poi il rito si rinnova. Infine si chiude il forno con uno sportello di lamiera di ferro e si sigillano i bordi con pasta di pane di forma allungata. Quei grissini sporchi di fumo e cenere sono la gioia di noi bambini; attendiamo impazienti l’apertura del forno per mangiarli ancora caldi e croccanti. Su tutto aleggia la fragranza del pane appena cotto. Ancora oggi, quando passo nei pressi di un panificio, godo nel ricercare il sottile piacere di rincorrere il profumo del pane, riempirendone i polmoni.
Di fronte al forno a legna due gradi pietre, una a forma di semisfera irregolare con scolpito un grosso foro sulla parte sommitale, parte essenziale di un vecchio torchio a gravità in disuso da alcuni decenni, utilizzato per spremere l’uva per farne vino. A fianco una pietra lavorata con precisione a forma di parallelepipedo: una pietra dall’aria austera, quasi sacrale; su quell’ara sacrificale si svolgeva un importante rito pagano, quello della macellazione del maiale. Era un rito cruento, ma aveva qualcosa di sacro. L’animale veniva accudito con amore e dedizione; con lui l’uomo parlava, lo incitava a mangiare, raccoglieva frutti prelibati come le ghiande, con lui condivideva il frutto del suo lavoro: patate, granturco, crusca separata col setaccio dalla farina di grano. La parte nobile diveniva pane, la parte fibrosa diveniva cibo per l’animale. Il rito sacrificale chiudeva il ciclo delle stagioni: a primavera la nascita, in estate lo sviluppo, in autunno la piena maturità; in inverno l’ingrasso, infine si dava inizio ad un nuovo ciclo che vedeva l’animale trasformarsi, come in una magica metamorfosi, in salsicce, prosciutti, lardo, strutto, coppa, lonze, guanciali… e la parte meno nobile, ogni tipo di scarto e le ossa, messe a bollire con l’aggiunta di soda e trasformate in sapone.
Su quella pietra si compiva un altro rito, questo incruento, che vedeva noi bambini protagonisti, coinvolti in maniera diretta: era un rito anch’esso pregno di sacralità: li sopra, nelle ore di pausa dal duro lavoro dei campi, i bambini sedevano dinanzi ad un vecchio che raccontava storie che facevano da veicolo alla cultura contadina. Storie sacre e profane che tramandavano miti, leggende e storie dei tempi passati in grado di creare nei bambini lo spirito identitario che ne avrebbe fatto degli uomini.
Nonno Berardo, papà di nonno Eliseo, nato nel 1863 e morto nel 1960. L'anno della morte aveva riempito la botte col vino fatto con l'uva della sua vigna. Aveva coltivato l'orto e la sera recitava a mente le sue orazioni. I suoi racconti preferiti erano gli episodi biblici, i più nascosti, quelli che pochi conoscono, tutti popolati di angeli e di interventi divini nella mente degli uomini. Era un appassionato narratore; sembrava che quelle storie le avesse vissute di persona. Una volta alla fine di una affascinante narrazione della vita di Abramo, gli chiesi ingenuamente "nonno, ma quando sono successe queste cose tu eri già nato?" Avevo quattro anni ed ignoravo i tempi dell'universo, della terra, dell'uomo e della storia. Mia sorella Rita, di un anno e mezzo più grande e molto più pronta di me mi azzittì dicendo: “ma che dici, stupidino, no che non era nato”.
Al centro dell’aia c’era la “traicenna”, una tettoia sostenuta da due solidi pilastri in pietra da un lato e dal muro esterno delle stallette dove dormivano le galline. I coppi di copertura erano sorretti da travi di castagno sui quali poggiava un tavolato di legno di pioppo. La tettoia era il riparo d’emergenza per il carro colmo di fieno o di grano che non si faceva in tempo a scaricare la sera, era il riparo per la paglia da utilizzare per le lettiere di mucche e asini all’interno della stalla; una sera d’inverno divenne riparo d’emergenza per le pecore che non trovarono posto all’interno della stalla; faceva molto freddo; poco dopo iniziò a nevicare, mentre le pecore, addossate le une alle altre, si scaldavano a vicenda mettendo a contatto il caldo vello di lana; intorno un recinto di protezione. Al mattino, era da poco finita la seconda guerra mondiale, nonno Eliseo andò a controllare il piccolo gregge ed impallidì. Le pecore giacevano ammucchiate una sull’altra inermi: tracce di sangue uscito a fiotti dalla loro gola dappertutto e, sulla neve fresca alta ormai oltre mezzo metro, orme di lupo. Il bianco manto di neve aveva attutito i rumori e i belati terrorizzati delle bestie, che non disturbarono il sonno delle persone, che pure non erano distanti da quel luogo.
Sconsolato cominciò a tirare giù dal mucchio le povere bestie, quando d’un tratto si scoprirono due orecchie dritte, nere e pelose. Il lupo si era nascosto sotto le sue vittime. Nonno andò di corsa dentro il cantinone di casa sua a prendere un forcone da usare come arma contro il lupo allertando i suoi fratelli – ju lupe, ju lupe, gridava - ma al ritorno videro le orme del lupo sulla neve che si allontanavano lasciando tracce di sangue. Zio Elia, da poco tornato dalla Jugoslavia, dove aveva partecipato alla campagna di guerra contro la Grecia, prese la sua doppietta, caricò nella cartucciera tutte le munizioni a pallettoni che aveva disponibili e, sci ai piedi, cominciò a seguire le tracce del lupo che però andarono a morire nel fitto e impenetrabile sottobosco alle falde di monte Soffiavento: del lupo si era persa ogni traccia.
Sotto quella stessa tettoia quel caldo giorno estivo del 1956, si svolge una strana, inusuale, attività. Sono stati tirati fuori dal cantinone attrezzi di solito non utilizzati in campagna; ju sego’, una grossa sega a nastro lunga quasi due metri con alle estremità due manici, che si utilizza per fare tavole da grossi tronchi d’albero, un’ascia, pialle, accette. Alcuni grossi tronchi d’albero sono passati di mano in mano e posizionati su cavalletti di legno. Al centro c’è quel che rimane del vecchio carro che, dopo un lungo servizio durato quasi un secolo, ha ormai bisogno di un importante restauro.
Si narra che Henry Ford, costruttore di carri poi riconvertito all’industria automobilistica, mandasse in giro per cimiteri d’automobili i suoi migliori ingegneri, per smontare le carcasse delle automobili in disuso e verificare quali pezzi avessero determinato la fine dell’auto e quali pezzi avesso ancora lunga vita residua. Il tutto per progettare le auto secondo criteri di massima efficienza ed economia. Quel carro non era stato realizzato con quei criteri: le alte ruote con raggi di legno, cerchiate di ferro erano integre, come integro era il timone e la parte di telaio a longheroni che soreggeva il pianale fatto di tavole ormai logore e marce. Resisteva il sistema frenante a tamburo con ceppi esterni che venivano premuti con un sistema di leve, contro il cerchio di ferro: ancora mi risuona all’orecchio il grido “TIRA LA MARTINICCHIA” che urlava il guidadore del carro alla moglie, seduta nella parte posteriore, o al figlio ragazzo, che doveva tirare la corda che azionava quel semplice ma efficace sistema di frenatura, tanto simile a quello adottato per i treni. Altra parte integra è il tamburo ruotante posteriore a forma di doppia ogiva che, con l’aiuto di due leve di ferro a forma di “f”, serve come martinetto per legare il carico, che arriva spesso all’altezza di tre metri, con “ju funacchiu”, una robusta e lunga corda di canapa. I fianchi del vecchio carro, gli sportelli anteriori e posteriori, hanno tutti bisogno di un sostanzioso lavoro di restauro, sostituendo le tavole marce o spezzate.
Il risultato di quel lavoro è stupendo. Dopo tre giorni il vecchio carro torna a nuova vita ed il viaggio inaugurale è festeggiato dagli adulti con un buon bicchiere di vino, da noi ragazzi con un viaggio premio fino ai prati, ammucchiati sul pianale nuovo di zecca; anche le mucche Argentina e Roscetta sembrano apprezzare quel mezzo rinnovato di trasporto, del quale loro sono motore e anima.
Quello fu l’ultimo lavoro di manutenzione che il vecchio carro subì. La modernità avanzava rapida e dopo soli due decenni il piccolo mondo antico del mio bisnonno e di mio nonno cessarono di esistere. Le mucche furono sostituite dal trattore, il carro da un robusto carrello d’acciaio, la stalla trasformata in abitazione. Accantonati in un angolo dell'orto sono poggiati i ferri a cerchio delle grandi ruote e qualche pezzo di legno marcio... e per muoversi più velocemente da un luogo all’altro ecco apparire in lontananza un piccolo cavallo d’acciaio dal borbottio inconfondibile: la Lambretta di zio Elia… ma questa è tutta un’altra storia!



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