PICCOLE GRANDEZZE

 

Niente insegna a scrivere bene

quanto leggere cattivi scrittori.

 Paul Léautaud

 

- di Fernando Acitelli -

«Buongiorno nonna!» - dicevo comparendo all’apice delle scale.

Lei rispondendo al mio saluto mi rimbrottava dicendomi che a quell’ora si svegliavano i signori ed io credevo d’essere proprio “un signore”. E comunque subito dopo il sorriso era anche in lei.

«Ho fatto tardi stanotte e così “me sa tirate u sonn”.» le rispondevo ridendo poiché m’ero espresso nel dialetto che non controllavo.

Mi disse che circa due ore prima mi aveva portato il caffè al letto e che mi aveva sussurrato: «Nando, Nando…» “Ma Nando chi te ju dà…” Dormivo come un bimbo esausto dai giochi. Così mia nonna era tornata in cucina attendendo l’alzata del “giovin signore”, come direbbe il Parini.

Il sole filtrava dalla finestra a sinistra nella cucina e andava a colpire “u callare” il cui coperchio di rame scintillava anche in virtù di quella luce forte e benevola. La gatta era riversa “cant u foche” e la sua felicità poteva dirsi compiuta. M’aveva rivolto un paio di sguardi ma poi, visto che io ai suoi occhi non ero una novità, s’era subito riappisolata e tanti saluti.

La vecchia radio sulla mensola di legno, pure se muta da tempo immemore, diceva la sua ed essa sembrava esprimere un senso di autorità perché un tempo aveva potuto cogliere ogni voce dal mondo ed ogni cantuccio del pianeta non le era ignoto. I meccanismi interni dichiaravano la sua potenza e anche se adesso era muta si provava per lei un grande rispetto. Avevo sempre paura di toccare le manopole tonde, avevo timore di sfasciare ancora qualche suo elemento. Ogni volta che giravo la manopola dell’accensione e sentivo il “click”, subito mi rasserenavo pensando che lì, almeno, non c’erano guasti. Quella radio era per me come una di famiglia alla quale si deve portare rispetto. Si può provare affetto per una radio? Sì è la mia risposta perché nello scenario essa c’è sempre stata e dunque ha partecipato alle nostre gioie e ai nostri tormenti. Forse se avessero aggiustato la radio mi sarebbe dispiaciuto: io l’avevo conosciuta guasta e desideravo che mantenesse quella sua condizione. In altri termini ritenevo che il suo stato clinico – il suo silenzio fattosi cronico – l’avrebbe preservata da smottamenti seri, da qualche severa lesione interna, insomma da altri disastri. Inoltre consideravo un altro aspetto: se fosse stata portata via per “una terapia d’urgenza”, forse l’elettrotecnico, il mago dei fili elettrici e dei circuiti interni, avrebbe operato delle sostituzioni e così, pur sistemandola donandole nuova vita, allo stesso modo costui si sarebbe potuto impossessare di certi elementi antichi, di valore, naturalmente “valore” non inteso come denaro ma come elemento d’un tempo già archiviato. Sì, anche quegli elementi interni della radio sarebbero stati dei reperti antichi, o almeno così io li consideravo. E allora, immaginandomi tutto questo, preferivo che la radio continuasse a vivere tra noi ma con tutti i suoi pezzi, e se aveva perso la voce non faceva nulla, l’importante era che stesse tra noi e che la si potesse accarezzare ogni volta che lo desideravamo.

Una volta, involontariamente, avevo fatto cadere una brocca, e quasi s’era pianto in famiglia. Tutti raccolti attorno a quel disastro e su quei frantumi si sentiva, controllato, il pianto. Quella brocca, infatti, la si considerava una di famiglia, in essa avevamo messo acqua per tanti anni e adesso non esisteva più se non nello splendore dei frantumi. Con questi sentimenti in casa era chiaro che io non desiderassi che si toccasse la radio e sarei stato felice già solo nel vederla, al suo posto, lì, sopra la mensola poco prima della saletta.

Frattanto mia nonna s’era esibita in piccole grandezze. Al tavolo aveva posizionato una tazzina di caffè e, di lato, una tazza di latte con i biscotti che da qualche giorno erano arrivati a casa provenienti dall’antistante forno nella piazzetta… Era una felicità che avvertivo “a tempo”, che prima o poi si sarebbe frantumata, proprio come quella brocca, ma in quegli istanti pure pensavo che quel mio dettaglio di vita andava attraversato con la serenità che contraddistingueva i miei anni. E nonna lì a deliziarmi con i suoi ricami interiori: «Il caffè, diceva Pulcheria, si deve prendere con tre C: caldo, carico e comodo.» Ah, stavamo proprio alla sottolineatura solenne, alla folgorazione lirica, e questo già di prima mattina! Grande nonna a farmi dono di tutte queste gemme.

Erano tutti fuori gli altri e nonna stava organizzando ogni cosa per il pranzo.

«Nonna vieni qui.» – le dicevo ad un certo punto; e, una volta accanto, subito le davo un bacio. «Oh, core beglie. Oh, gliu fiore…» – mi ripeteva baciandomi. E così quella già si poteva ritenere una “giornata riuscita”. A ben vedere ci vuole poco per considerare “riuscita” una giornata. Ecco, già quel bacio di mattina a mia nonna era per me momento di gioia e mi veniva in mente di ripetere quel rituale ad ogni pasto, così mi sarei esposto nell’affetto per mia nonna almeno tre volte al giorno.

La vita mi chiamava e dovevo organizzare la giornata. Dove andare? Qualcuno tra gli amici era già passato ma mia nonna gli aveva risposto che ancora ero solennemente in branda. Viva la verità! Avrebbe potuto dirgli che ero andato con la famiglia a L’Aquila ma mia nonna era proprio votata per la sincerità e dunque io non avevo seguito i miei genitori.

Dunque si poteva contare su più spensieratezze e visto che ormai era finito l’incanto per i trapper e le Giubbe Rosse con il fortino allestito alla Cimosca e in particolare a “Cent Vizi”, impossessandoci lì di case abbandonate e con porta cadente, luoghi che dovevano servire da prigioni, ecco, non rientrando più nei nostri programmi costituire da una parte i seguaci di Blek Macigno e dall’altra i battaglioni delle guardie inglesi, avevamo puntato gli occhi sul fiume e in particolar modo su un punto di esso, precisamente il rettilineo che dalla Sbota arrivava a Piedi le Vigne. E a fare cosa lì? Le Olimpiadi! O almeno praticare qualche disciplina. L’avevamo studiata fina e tutto doveva essere perfetto ad iniziare dal programma perfettamente scritto e così le corse, il salto in alto, quello in lungo, il lancio del peso… Alla fine, al di là di quanto avevamo scritto, quello che rimaneva più facile da eseguire era la corsa ed il salto in alto e allora si trattò d’una esplosione dei 100 metri e su quella terra bianca sarebbe stato bello combinare qualcosa come i Trials americani ma lì doveva esserci la selezione per poi andare alle Olimpiadi mentre noi eravamo già tutti qualificati. Non c’erano neppure le varie batterie per accedere poi alla finale. Dunque si trattava di più finali fino a che non ci eravamo stancati. Ma la faccenda era più combattuta di quanto si potesse immaginare perché Assergi è un popolo di velocisti, non soltanto di pensiero. «Astuti e birboni quanto mai!» – sentivo dire tutt’intorno.

Jean Paul Moscardi gli shorts li indossava abitualmente ed essi non erano soltanto per quelle gare sportive. Era come se egli fosse a Saint Tropez e infatti quei calzoncini erano più da mare ma non stonavano in montagna. Ogni giorno nuovi shorts e dunque un nuovo colore. Ne doveva avere una collezione e difficilmente nel mese di agosto lo si vedeva in pantaloni. Di sera, certamente, indossava i pantaloni perché l’aria della valle era pungente. A vederlo con gli shorts e le scarpe ginniche pareva il favorito sui 100 metri perché tutti gli altri avrebbero corso con i pantaloni e dunque si pensava che la sua libertà alle gambe ed il buon appoggio ai piedi gli avrebbero consentito di volare in quella traiettoria di lato al fiume. Ma non era così perché il suo correre era da gazzella e non c’era potenza nelle fasce muscolari. E comunque restava l’eleganza della sua corsa dopo una buona partenza. Dunque, egli nulla poteva contro i velocisti di Assergi che avrebbero potuto correre anche con gli scarponi battendo tutti. Inoltre costoro s’esibivano non con gli indumenti sportivi ma erano vestiti come se dovessero andarsene in giro normalmente.

A dirla in breve il Valeri Borzov, il Larry Black e il Pietro Mennea dell’epoca erano Dino Lalli e Franchino Scarcia. A questi s’aggiungeva Gianni Sansoni che, pur stentando alla partenza – perdeva istanti preziosi in una indecisione alla Stan Laurel - aveva una grande facilità di corsa e poteva insidiare i due velocisti. Il fratello Giulio, polemista nato e che sarebbe riuscito bene come giornalista di cronache parlamentari, non era come il fratello e la sua corsa era meno intensa. Al traguardo, comunque, sarebbe stato bello intervistarlo perché avrebbe dato una spiegazione chiara dei fatti ed esposto i motivi della sua mancata affermazione su quella distanza. Incalzato sul fratello Gianni, avrebbe risposto che « purtroppo le lunghe leve di mio fratello non mi consentono di stargli dietro…». Risposta ovviamente formale, di circostanza, perché dall’espressione del viso si leggeva molto altro ma non era quello il momento per sollevare polemiche. E comunque battere Gianni Sansoni non era facile e soltanto sul filo di lana si chiariva la questione con i rivali Dino Lalli e Franchino Scarcia. Si può inoltre dire che la partecipazione di Franchino era sempre a rischio e questo per esigenze lavorative e infatti poteva accadere che egli, magari prima della finalissima, invitasse a fare presto perché il lavoro esigeva la sua presenza e infatti doveva recarsi a mettere una bombola nuova a casa del signor *****. Dunque, doveva abbandonare il divertimento e questo mi dispiaceva perché tale fatto lo avvertivo come una privazione della gioia di stare insieme. Ma il lavoro era in cima a tutto. E così lo vedevamo allontanarsi, già dimentico, forse, della sua affermazione sui 100 metri dopo un entusiasmante testa a testa con Dino Lalli e Gianni Sansoni. La soave ineleganza di Franchino che però quasi sempre pagava. Vi erano, comunque, anche le affermazioni di Dino Lalli che eccelleva sia nello scatto che nella continua velocità fino al filo di lana.

A questi adolescenti/atleti si doveva aggiungere anche Ascenzo che, fisicamente, era il più dotato. Aveva una corsa potente ma avrebbe potuto ottenere un’affermazione su una distanza più breve perché bruciava tutto in uno spazio minore. Infatti dopo lo scatto alla partenza e la successiva distensione era appaiato con i velocisti che però sui settanta metri non rallentavano come invece accadeva a lui. Per tutti gli altri si poteva parlare di dignitosa partecipazione e così Jean Paul Moscardi, Renzo Giusti e Franco Sabatini mai insidiarono le “frecce del Gran Sasso” su nominate. Dopo una trentina di metri erano già staccati e così addio al podio.

A proposito di Ascenzo e del salto in alto. Lui aveva inventato un modo di saltare unico. Arrivava dinanzi all’assicella e lì – da fermo! - balzava in aria verticalmente scavalcando l’ostacolo – sfiorandolo -  e ricadendo al di là di esso. Era come un guizzo da pesce. Parliamo al massimo d’un metro e venti centimetri ma eravamo adolescenti. Certamente non sempre quel salto gli riusciva ma era senz’altro una innovazione, qualcosa comunque di non praticabile come tecnica. Chissà perché vedendo quel salto tornai indietro con la mente e subito m’apparve la grande novità introdotta dall’americano Dick Fosbury a Città del Messico nel 1968, il famoso “Fosbury Flop”, con il suo prodigioso salto all’indietro. Ora, scrivo di questo perché in occasione della gara di salto in alto – quindi con una visione dal vero e non come frutto di sfuocati ricordi – io mi fratturai il braccio saltando 1,20. Ricaddi male e tanti saluti. Ascenzo era lì e quel suo modo di saltare mi rimase impresso. E anche fissi nella memoria rimangono i salti di Dino Lalli, un salto frontale come si trattasse di superare una semplice recinzione di un’aiuola (affare problematico ma in quella disciplina la neoavanguardia era ben rappresentata). Franchino saltava a pesce in avanti ma era un’astuzia senza futuro perché anche con una buona rincorsa i suoi salti s’infrangevano contro l’asticella. E poi c’erano i salti di Gianni Sansoni, vero acrobata di se stesso se con il suo salto a forbice superava l’asticella e la sua gamba destra giungeva ad oltrepassare pure la sua testa. Con un po’ di coordinazione, Gianni Sansoni l’avrebbe di certo superato il metro e cinquanta. E comunque la gara di salto in alto fu sua e tutti s’inchinarono al suo strapotere acrobatico. La gara di salto in alto si tenne in una radura tra la località “Rive” ed il mulino, poco oltre quello che era noto come “gli ort Chiccone”.

Le nostre grida esprimevano una spensieratezza, la sospensione da tutti gli usuali ritmi che imponeva la quotidianità. Di quest’ultima ci giungeva notizia da chi tornava dai campi, da chi attraversava il fiume, da quelle figure con il viso eternamente abbronzato per la fatica. Si poteva incontrare Abramo, e anche mio nonno Lorenzo si poteva avvistare nel suo prato alle Pernagnova. Erano distanze non più praticabili per quei vecchi in età severa che ormai stazionavano davanti gli usci di casa, sempre con lo sguardo attento e pronti subito a ricordare degli episodi della loro vita se li si salutava e poi ci si fermava a scambiare piacevoli parole.

Queste nostre gare si svolgevano naturalmente dopo il Ferragosto, ed era per noi il prolungare l’aria della festa che s’era dissolta con il palco smontato e con la macchina delle noccioline che da sotto la casa di Flavio Tacca aveva puntato decisamente verso “Na Porta” imboccando poi l’arco e giù fino ai Frati, fino all’anno successivo. Taceva la congrega, nuovamente piena delle statue per la processione. Muta la chiesa, silenzio sulle scale del prete: seduti davanti l’uscio di casa Teresa e Peppe Corrieri. I gatti erano nuovamente i padroni della Piazza.



Condividi

    



Commenta L'Articolo