PICCOLA STORIA DEL RUGBY AQUILANO

- Enrico Cavalli -

PICCOLA STORIA DEL RUGBY AQUILANO:

La fenomenologia rugbystica incidente socialmente, in virtù  del positivo legame fra forestieri di ambito  militare, universitario e locali, contribuiva a dare visibilità alla L’Aquila, in trasformazione urbana e riconosciuta fra le capitali dello sport italico fra le due guerre mondiali.

Dopo il 1945, l’avanzata verso la serie A, del XV che indossa il neroverde municipale è senza eguali nella pallaovale centromeridionale.

La seminagione di giovani tecnicamente preparati porta agli storici scudetti degli anni’60, dagli indubbi risvolti extra sportivi, per il capoluogo abruzzese.

Questi successi, quasi, frenano sotto il Gran Sasso, una progressiva idea professionistica del rugby, che si giustifica negli anni’80 a merito di altri scudetti ed altri sfuggiti, discutibilmente.

Siamo nella stagione della palla ovale commerciale e mediatica, a cui il know how neroverde, può strappare il quinto scudetto in nome dei supremi valori dello sport, ma, per poi cadere in difficoltà gestionali; ecco latitanze istituzionali ed imprenditoriali, nella  transizione politico-economica degli anni 2000.

Il riscatto della L’Aquila Rugby 1936, poteva essere in coincidenza dell’indicibile evento sismico del 2009, ma i corti circuiti sociali portano a tre fallimenti, il cui contrappeso è la tradizione della Polisportiva fattoriana in ricezione di nuove frontiere di gestione e pratica della pallaovale.

La disciplina inventata nel 1823, insegna che la meta finale, se non è la cosa più importante, tuttavia, nemmeno, può dirsi questione irrilevante.

A celebrazione dello scudetto di 50 anni fa, un giornale abruzzese, titolò che a L’Aquila, il rugby aveva superato il calcio.

In una sorta di piccolo e forse ardito parallelismo, nei periodi di  auge dei neroverdi, ci sono state nel calcio italiano, altrettante possibilità di gloria per i club non metropolitani.

 Quando le logiche ipercommerciali in uno sport di massa o meno, impediscono di competere alle piccole patrie della cosiddetta democrazia dell’agonismo, vengono meno le ragioni del consenso sociale di una disciplina sportiva, che come propugnano gli stessi Enti di promozione del CONI., sono quelli del conseguimento di un traguardo, non in esibizione consumistica ed individualistica, bensì, da svolgere in un agone di leale competizione fra gli atleti, tecnici, dirigenti, soprattutto, al fine di educare le giovani generazioni, agli alti valori dell’olimpismo e, invero, di civiltà.

 



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