Filetto - La Casetta de Paurucciu: (La casetta incendiata)

 La Casetta de Paurucciu: (La casetta incendiata)
 

 Storia realmente accaduta e raccontata da Gradito Alloggia
 

 

Era una ventosa giornata di metà ottobre dell’anno 1950, allora avevo appena sei anni.

Uscito da scuola e girando per il paese mi imbattei in due compagni, Ivo Marcocci e Livio Damiani, rispettivamente di sette e sei anni i quali, con fare circospetto, si incamminavano per via Romana. Notai il loro atteggiamento e incuriosito li seguii ma loro rifiutarono la mia compagnia, poiché avevano comprato una sigaretta dal vicino tabaccaio e desideravano fumarla da soli. Stavo tornando verso casa quando uno di loro mi chiamò e disse: -Puoi venire con noi, a patto di prendere i fiammiferi-, io acconsentii perché sapevo dove mia nonna Doralice li nascondeva e recatomi nella mia abitazione ne presi tre e li raggiunsi. Ci incamminammo verso un vecchio casolare fuori dal paese detto appunto “La Casetta de Paurucciu”. Questo non era altro che un pagliaio fatiscente di proprietà di Paolo Memmi detto “Paurucciu” che durante l’estate veniva riempito di pula che in gergo chiamavamo “cama”. Lungo il percorso raccolsi per terra un santino che recava l’effigie della “Madonna della Libera”, di quelli che si usa riportare quando ci si reca a visitare un santuario, e proseguimmo il cammino. Giunti sul posto consegnai i fiammiferi ad Ivo, il più grande, il quale ne accese subito uno ma si spense, poiché come ho già detto soffiava un forte vento. Accese anche il secondo e anche questo si spense. Allora gli dissi: -L’ultimo vorrei accenderlo io-, e così facendo accesi il fiammifero, ma nel timore che si spegnesse di nuovo, accesi prima il santino e poi la sigaretta lasciando incautamente cadere la carta ancora accesa per terra. Nella concitazione di fumare la sigaretta non ci accorgemmo che il fuoco, alimentato da alcune pagliuzze e dal vento, aveva raggiunto l’ingresso del pagliaio e già il fumo fuoriusciva dalla porta. Presi da forte spavento fuggimmo verso il paese promettendoci a vicenda di non farne parola con nessuno. Mi recai a casa ma tale era l’agitazione che ne uscii quasi subito, raggiungendo la piazzetta del Duomo dove si era già formato un gruppetto di persone che guardavano in lontananza verso il pagliaio che bruciava. Si levavano altissime fiamme e già accorrevano donne con conche piene di acqua in testa. Riconobbi anche un uomo del paese, tale Francesco Cupillari che recava sulle spalle una scala di legno. Si dirigevano verso la casetta che bruciava con la speranza, bontà loro, di poter spegnere l’incendio. Non sapevo cosa fare, mille pensieri mi attraversavano la mente anche quello di farmi vedere in più posti del paese per potermi creare un alibi. Il pagliaio purtroppo bruciò completamente facendo cadere rovinosamente il tetto e parte dei muri perimetrali. I miei familiari cioè mio nonno, mia nonna, mia madre e mio fratello, erano andati a raccogliere le patate e di lì a poco sarebbero tornati e, pensando che mi avrebbero fatto delle domande in merito, impaurito, decisi di andare a letto. Non volevo, infatti, che mi trovassero in piedi poiché avevo paura, avrei finito col dire loro la verità e probabilmente sarei stato anche punito. Quando tornarono mia mamma mi chiese come mai ero già a letto. Mentii, risposi che avevo mal di pancia. Dalla mia cameretta sentivo le voci provenienti dalla cucina al piano di sotto, erano i miei che parlavano e commentavano l’accaduto, non sospettavano ancora nulla di me. I miei si soffermavano spesso a svolgere alcuni lavori complementari di campagna come togliere il mallo a noci e mandorle oppure la foglia alle pannocchie. Non dormivo, sussultavo ad ogni piccolo rumore. Era tarda sera quando sentii bussare alla porta, mia madre andò ad aprire e riconobbi la voce della madre di Livio, la quale con voce sommessa la invitava nella sua abitazione. Pensai che era accaduto quello che non avrei voluto accadesse: Livio aveva parlato. Mio nonno e mia nonna andarono quasi subito a letto e anche mio fratello uscì di casa di lì a poco. Restai sveglio ad aspettare il ritorno di mia madre che quando, in tarda sera, credo fosse passata la mezzanotte tornò, salì immediatamente in camera e piangendo dalla rabbia e dalla disperazione fece il gesto di picchiarmi ma non lo fece pensando che dormissi. Infatti avevo gli occhi chiusi ma non dormivo: come avrei potuto? La mattina seguente mia madre mi fece delle domande in merito all’accaduto, dissi subito la verità, verità che non collimava con quella di Livio, il quale aveva incolpato una decina di ragazzi di Filetto più o meno della nostra età, forse pensando che il danno sarebbe stato ripartito in più parti. Il pomeriggio dello stesso giorno vennero i carabinieri della vicina stazione di Assergi. Mia mamma mi accompagnò da loro in una cantina detta “La Cooperativa”, dove si vendeva vino e alcuni generi alimentari e si giocava a carte specialmente nelle giornate invernali. Qui trovai Ivo e Livio con le rispettive madri. I carabinieri cominciarono subito l’interrogatorio, volevano sapere chi esattamente aveva preso parte al rogo. Il primo ad essere interrogato fui io. Raccontai come erano andate esattamente le cose scagionando i ragazzi incolpati ingiustamente, dopodiché fu la volta di Ivo e Livio i quali confermarono la mia versione. Il giorno seguente vennero ancora i carabinieri, fummo di nuovo interrogati e naturalmente ribadimmo la versione del giorno prima. Il terzo giorno ritornarono ancora, io non volevo andare ma mia madre mi spinse quasi con forza. Ripresero per la terza volta gli interrogatori chiedendomi ancora chi aveva preso parte al rogo. A questo punto esclamai ad alta voce: -Adesso basta, sono tre giorni che mi fate le stesse domande!-. Il maresciallo si alzò in piedi e con fare minaccioso mi redarguì dicendomi:-Stai zitto, lo dico io quando basta!-. Chiarito l’aspetto delle responsabilità si doveva stabilire cosa contenesse il pagliaio: infatti fu chiamato il proprietario del pagliaio, il suddetto Paurucciu, il quale dichiarò che il pagliaio era pieno di fieno. A questo punto mia madre e le altre mamme cercarono di smentirlo. Il giorno seguente tornarono ancora i carabinieri chiamando a testimoniare tutte le donne del paese che avevano preso parte alla trebbiatura, le quali dichiararono che il casolare era stato riempito di pula e non di fieno, come affermava Paolo Memmi, il proprietario. Chiarito anche questo aspetto, furono chiamati due muratori del luogo per fare un preventivo per la ricostruzione del pagliaio, i quali valutarono il danno in centomila lire. Considerando che siamo negli anni ’50 lascio immaginare la cifra davvero enorme per quel periodo. La notte dormivo pochissimo, pensavo alla mia povera mamma, a come avrebbe potuto sostenere una tale spesa (circa trentatremila lire). Sapevo che in famiglia non c’erano soldi. In quel tempo si viveva di quel poco che offriva la terra. Possedevamo una mucca, avremmo potuto venderla, ma poi come avremmo fatto ad arare i campi? Possedevamo anche venti pecore che avremmo potuto vendere, ma poi chi ci avrebbe dato la lana per fare maglie e calzini? Non vedevo via d’uscita, una soluzione possibile e mi arrovellavo il cervello pensando al danno che avevo arrecato alla famiglia. Non ne facevo parola con nessuno ma soffrivo in silenzio. Non ricordo come mia mamma trovò il denaro necessario per far fronte alla ricostruzione del pagliaio. Povera mamma! Era rimasta vedova durante la guerra con quattro figli piccoli di cui io non ancora nato quando mio padre morì. Questa storia ha segnato la mia infanzia, ha lasciato in me la paura del fuoco. Ricordo che dopo l’accaduto ero terrorizzato da tutto ciò che bruciava e ogni volta che i grandi fumavano e gettavano per terra il mozzicone dalla sigaretta, gli giravo intorno senza farmi notare cercando di spegnerlo.

Questa è la mia storia, invito chiunque ne abbia una a raccontarla.

Firmato Gradito Alloggia

Filetto lì 22 marzo 2021

Seguono foto.



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