Il 25 marzo 1954 il ritrovamento del mammut meridionale di Madonna della Strada a Scoppito

Il ritrovamento del mammut meridionale di Madonna della Strada a Scoppito (AQ) è avvenuto il 25 marzo 1954 presso lo stabilimento della Società AMA – di proprietà Santarelli, ai margini della S.S. 17, in una cava di argilla utilizzata per la produzione di laterizi.

IL MAMMUT DELL'AQUILA E IL SUO LEGAME CON LA CITTA' DI AMATRICE

- di Camillo Berardi -
Lo scheletro fossile del celebre "MAMMUTHUS MERIDIONALIS VESTINUS" (questo è il nome ultimo assunto, dopo che gli studiosi lo hanno cambiato più volte nel corso degli anni: "Elephas meridionalis" negli anni ’50, "Elephas meridionalis vestinus nel 1972", "Archidiskodon meridionalis vestinus" dal 1977 fino a metà degli anni ‘90 e "Mammuthus meridionalis vestinus" dopo il 1995), fu scoperto il 25 marzo 1954 nella località "Madonna della Strada" nel Comune di Scoppito - L'Aquila, nella cava di argilla della Fornace di proprietà del Sig. Emidio Santarelli di Amatrice, nota per la produzione di materiali laterizi. Subito dopo il rinvenimento, il Sig. Santarelli - mio vicino di casa ad Amatrice - invitò la mia famiglia ed illustri personaggi del borgo reatino a visitare lo scavo della straordinaria scoperta, vicino alla città di L’Aquila.

Nella foto storica dell'archivio Berardi, da sinistra a destra, sono riconoscibili Il Dott. Costantino Ciavarelli, Corrado Blasetti, Carmelita Miggiano figlia del Prof. Giovanni Miggiano, Primario dell'Ospedale Francesco Grifoni di Amatrice, il Sig. Emidio Santarelli proprietario dell'omonima fornace, mia madre Anna Lolli in Berardi, Direttrice dell’Istituto Femminile di Amatrice “Padre Giovanni Minozzi”, Francesco Alvisini, un americano che fortemente entusiasmato dal rinvenimento, avrebbe voluto acquistare lo scheletro intero a peso d'oro, mio padre Achille Lucio Berardi e il Dott. Francesco Moscati. In basso, i bambini Camillo e Roberto Berardi.
La storia e i tesori della cava e della fornace Santarelli, ubicati inscientemente nel giacimento paleontologico di "Madonna della Strada", sono stati sempre oggetto di importanti studi e convegni.

Un cimitero di Mammuth nel nostro terreno - di Angelo De Angelis

Siamo in guerra, tutti consegnati in casa. Fuori il coprifuoco ore ventiquattro.
Mi sento finalmente padrone del mio tempo; faccio con calma quello che mi sento di fare… il resto si farà domani. Oggi metto piede dentro lo studio: carte e documenti ammucchiati, non so più dove cercare quello che mi serve; è arrivato il tempo di mettere ordine. Fare la cernita e gettare al fuoco ciò che non serve, adottare il sano principio “un posto per ogni cosa ed ogni cosa al suo posto”. Mi capita tra le mani una vecchia visura catastale:
Comune di Scoppito Fg. 24 n. 48-140-171
Sup. 01.13.41-R.D. 26,65-R.A.23,99.

E’ incredibile come la burocrazia riesca a rendere fredda ed impersonale ogni cosa che tratta. Rileggo i dati. La mente comincia ad affollarsi di ricordi di famiglia, di episodi della “Grande Storia”, di nozioni di geologia e di paleontologia.
Addirittura!
Si, addirittura.
Lascio perdere le carte da riordinare e provo a riordinare i pensieri. Centotrenta anni fa, fine ‘800: siamo a Vigliano, l’antica Foruli, patria, si dice, della tribù Italica che da lì pian piano occupò con greggi e mandrie buona parte del Lazio, dando a quei luoghi il nome di Sabina. Una casa semplice, pulita ed ordinata. Dentro vive una giovane donna, bella, dai fini lineamenti e con il naso solo un po’ pronunciato: si chiama Cesira, figlia unica di Domenico al quale qualche anno prima era morta la moglie. Cesira va sposa a mio nonno Angelo, che vive in un’altra frazione del comune di Scoppito che dista qualche chilometro.
Vende casa e proprietà a Vigliano, tutto meno che due quote di uso civico della montagna e qualche mobile tra cui la culla di noce dove lei è cresciuta e che vedrà crescere i suoi figli… ed anche i miei. I soldi sono la sua dote e compra un bell’appezzamento di terreno vicino alle proprietà di mio nonno.
Quel terreno non ha solo l’incomprensibile identificativo catastale, si chiama “Prata ‘e Biaggiu” . Chi sia stato quel “Biagio” non sono mai riuscito a saperlo.
Nonna Cesira si trasferisce a Santa Maria portando in dote anche il padre. Di lui ho una bella immagine che mi ha trasmesso zio Elia: lo vedo seduto davanti alla casa di famiglia, l’aspetto apostolico con una lunga barba bianca che pettina lentamente con una striglia da cavallo ed un orecchino a cerchio che pende dall’orecchio. Scopro anni dopo che quell’orecchino è posto in un punto in cui affiorano terminazioni nervose corrispondenti all’occhio e che la millenaria scienza cinese dell’agopuntura prende a riferimento per migliorare la vista: mio bisnonno Domenico aveva problemi di vista! Il tempo scorre lento, si contano le stagioni senza che sul quel terreno non cada nulla, se non il sudore delle persone che l’hanno lavorato. Poi la “Grande Storia” fa capolino e raggiunge anche quell’angoletto remoto di mondo. L’Italia vuole il suo “posto al sole”. Sta diventando un grande paese, la popolazione cresce, i mezzi meccanici aiutano il contadino nel lavoro dei campi e sono necessarie altre terre da coltivare. Come gli antichi sabini con le “primavere sacre”, un popolo fatto di soldati, contadini ed artigiani raggiungono l’Abissinia. Lì però c’è un imperatore intelligente, colto e capace di muoversi sugli scacchieri internazionali. Conquista le simpatie del governo inglese e l’Italia subisce le conseguenze delle sanzioni economiche. E fu autarchia: si combatte la “battaglia del grano”, si costruisce la diga di Campotosto per produrre energia elettrica, si rispolverano vecchi sondaggi geologici e se ne fanno altri. Anche nella conca Aquilana, occupata da un esteso lago nell’era geologica del Pleistocene. Si cercano e si trovano nuovi combustibili nei pressi di Scoppito: la torba dove ora è il “lago di Marrocchi”, la lignite su quel pezzetto di mondo dei miei nonni. Si, proprio lì, dove in un tempo remoto un torrente impetuoso sfociava nel lago scaricando tronchi di legno divelti dai boschi dei monti circostanti e dove pascolavano, indisturbati grandi mammiferi. Facciamo un salto in avanti nel tempo - correva l’anno 1960 - e torniamo a quella bella giornata di sole quando uscimmo, la famiglia al completo, a fare una passeggiata al parco del castello: entrammo al museo e per prima cosa visitammo l’interno del bastione di sud-est. Riempiva l’ampia sala a volta, imponente, lo scheletro fossilizzato di un mammuth. Di lato bacheche con fotografie del ritrovamento, risalenti a sei anni prima, che ritraevano la cava posta all’interno dello stabilimento della soc. ALA dove si prelevava l’argilla per farne mattoni. Quell’enorme mammifero era morto, forse ingoiato dalle sabbie mobili, ai bordi del lago, pensate, a poche centinaia di metri dal piccolo angolo di mondo dei miei nonni. Il racconto di mio padre davanti a quei resti fossili mi riportò agli anni dell’autarchia quando, militare, tornava in licenza al suo borgo ed andava a vedere lo scempio del terreno di famiglia dove si cavava la lignite. Una baracca per gli operai nel punto più alto del fondo. Uno scavo a cielo aperto che trovava ogni volta più profondo; e lì vide, cosa incredibile, insieme ai resti anneriti di alberi preistorici, costole di animali sconosciuti lunghi due – tre metri che affioravano nel terreno.
Immaginate la mia curiosità ed il mio orgoglio di bambino: il nostro terreno era un cimitero di mammuth di decine di migliaia di anni fa. Ma mio padre smorzò l’entusiasmo raccontando che allora queste cose nemmeno si capivano e comunque erano un fastidio: quei resti fossili furono gettati tra gli scarti di produzione. Finirono le sanzioni economiche, finì la guerra, andò fallita l’impresa di Milano che gestiva in concessione la cava di lignite e finì anche la speranza di prendere qualche soldo come risarcimento per il danno subito. Restava solo una baracca di legno ed un buco enorme. Zio Ugo trovò un giorno una persona che caricava le tegole della baracca su un asino. Finì così anche la baracca, che fu smontata e rimontata a Santa Maria diventando pollaio.
Restò solo il buco enorme: siamo nel primo dopoguerra, mio padre, che allora lavorava a Rieti, fece venire da lì una pala meccanica che dopo qualche giorno di lavoro, rese di nuovo quel terreno utilizzabile… e finì anche il grande buco e con lui uscì di scena la “Grande Storia”, che aveva fatto capolino in quel piccolo angolo di mondo. Le stagioni ricominciano a scorrere lente: l’ultimo ricordo vivo che mi affiora nella mente è una passeggiata su quel terreno ridiventato prato: ho sedici anni, è giugno, mio padre e mia madre camminano davanti a me; io li seguo. Mio padre ha il braccio sulla spalla di mia madre, parlano tra loro, sono belli, sembrano due fidanzati. Li guardo e mi sento sereno. Un mese dopo mio padre è volato in cielo. Ho finito di mettere in ordine i ricordi. Ho ancora tra le mani la vecchia visura catastale:
Comune di Scoppito Fg. 24 n. 48-140-171
Sup. 01.13.41-R.D. 26,65-R.A.23,99.

Ci scrivo sopra a matita “le prata ‘e Biaggiu”, mi sembra meno anonima e fredda, la inserisco nel faldone “Catastali”.
Mi guardo intorno, è ormai notte e lo studio di casa è ancora un
casino… domani metterò in ordine anche il resto! Nel sonno sogno: sogno l'antico cimitero di mammuth sul nostro terreno vecchio di decine di migliaia di anni, sepolto dalle alluvioni e dal tempo, profanato e forse completamente distrutto dall'ignoranza e dalla cupidigia dell'uomo.



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