Il capo Redattore di Voice of America, di origini abruzzesi, di recente scomparso a Washington DC

di Raffaele Alloggia - Il 13 dicembre scorso è scomparso a Washington, dopo una dura battaglia contro un cancro al polmone condotta al George Washington University Hospital, il giornalista e reporter Ferdinando Ferella, 59 anni, figlio di emigranti abruzzesi di Paganica, la più grande frazione dell’Aquila. Nato nel 1952, a Rouen, dove i genitori erano emigrati, Ferdinando completa gli studi universitari iniziati in Francia, specializzandosi in giornalismo all’Università di Montreal, in Canada, dove sposa una canadese. Successivamente si trasferisce negli USA, a Washington, dove ha risieduto fino al 13 dicembre 2011. Dal 1980 al 1986 Ferdinando Ferella ha lavorato a Radio Canada International, per poi entrare come reporter in Voice of America (VOA) - radio governativa americana - dove per un quarto di secolo ha raccontato agli Americani le più grandi tragedie di quel periodo nel continente africano, tra le quali la guerra civile in Burundi e nel Camerun in occasione delle elezioni politiche, le guerre nella Repubblica del Congo e il genocidio del 1994 in Ruanda.
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E’ stato uno dei giornalisti più famosi ed apprezzati in Africa Centrale ed in particolare in Congo, dove tornò nel 2006 per seguire le prime elezioni democratiche nel Repubblica Democratica del Congo.  Ferdinando Ferella, nella sua carriera giornalistica, ha intervistato tutti i più importanti presidenti e dittatori dei paesi di quella parte del continente africano. Nella Repubblica Democratica del Congo, a Goma, Ferella ha peraltro formato centinaia di giornalisti congolesi, con i quali era molto esigente e meticoloso, controllando il loro lavoro attentamente e aiutandoli ad affinare le abilità, conscio che avrebbero dovuto lavorare in un ambiente a volte molto pericoloso ed esplosivo. Alla sua morte, in ricordo, Voice of America in Africa ha predisposto una pagina commemorativa in francese sul suo sito web, dove sono subito pervenuti e pubblicati numerosi commenti, sia in inglese che in francese, insieme a contributi audio e video, nonché foto della sua carriera.

Come dicevo all’inizio, Ferdinando Ferella è d’origine paganichese. Ricordo bene quando da ragazzo egli tornava con i genitori a Paganica per passare le vacanze con i nonni. In quei giorni giocavamo insieme, alle aie del Colle. Per decenni poi ci siamo persi di vista, fino al 2004, quando tornò in ferie a Paganica, dopo che dal Congo era passato in Canada a prendere il figlio e in Francia a prendere sua madre. In uno dei quei giorni fu nostro ospite a pranzo, rilasciando anche una lunga ed interessante intervista al mensile d’attualità paganichese “Il Punto”.  In quelle poche ore tornarono in mente tutti i ricordi di gioventù. Gli raccontai, tra l’altro, che qualche anno prima avevo scritto una storia vissuta da suo nonno Ferdinando, che di seguito trascrivo.
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«Nel 1977 la Sezione Donatori di Sangue di Paganica ristrutturò una stanza dell’ex Carcere mandamentale, per utilizzarla come sede sociale. Un giorno Ferdinando, ormai vecchio, mi chiese se avrebbe potuto visitare il “camerone”, così lo chiamavano chi come lui vi era stato detenuto durante il Ventennio. Mentre salivamo verso il Castello, con il passo appesantito dagli anni, cominciò a raccontarmi le sue storie, fermandoci davanti al portone giusto il tempo di girare la chiave nella toppa ed aprire quella stessa porta dalla quale, quasi cinquant’anni prima, egli era uscito senza voltarsi indietro. Mi confessò che gli tremavano le gambe. Cercai di sdrammatizzare, ma capii bene che doveva essere forte la sua emozione mentre ripensava al suo passato. Varcato il breve tratto dell’androne, ci trovammo sul ballatoio in cima alle scale. Alla vista del cortile interno, dove i reclusi passavano l’ora d’aria, iniziò a raccontare, quasi un fiume in piena, come i reclusi trascorrevano quelle giornate, fino a quando un groppo in gola gl’impedì di proseguire. Entrammo nel “camerone”e, di nuovo, fu assalito dai ricordi. Scrutava il pavimento come se avesse perduto qualcosa, fin quando fissò lo sguardo su un punto dove era graffito il suo nome, inciso sulla pietra con un chiodo durante la sua detenzione. Solo un gesto, le parole si smorzarono e la sua commozione prese anche me. Poi altri nomi, altre vicende umane che sono parte della nostra storia, con il loro triste bagaglio di sofferenza e privazione del bene più alto, quello della libertà, duro da digerire, per piccole responsabilità in diatribe tra poveri cristi. Conclusa la visita, prima di uscire in strada, egli cacciò la mano nella ”mariola” tirando fuori una bottiglietta da un quarto, quella della gassosa di una volta, piena di vino. Trasse da una tasca un bicchiere di vetro ottagonale e volle che bevessi prima di lui alla salute di tutti i donatori di sangue. Espresse, così, tutta la sua gratitudine verso i donatori di sangue, per aver trasformato quel “camerone” da luogo di sofferenza e repressione, anche in ragione delle idee politiche odiate e perseguite durante il Ventennio, a luogo d’incontro e d’impegno sociale. Ero a stomaco vuoto, ma non me la sentii di rifiutare - dopo quella lezione di vita vissuta - quel bicchiere di vino che, anche se a digiuno, mi fece veramente bene».

Mentre raccontavo questa storia al Ferdinando giornalista e Capo redattore di Voice of America, egli guardava sua madre, attonito. Le chiese conferma dei fatti che gli avevo raccontato ed il perché lei non gliene avesse mai parlato. In risposta la madre gli disse che all’epoca emigrarono in Francia proprio perché in tal modo intesero cancellare dalla memoria quel passato, poiché tante furono le ripercussioni che ne ebbe suo nonno. Il nostro concittadino reporter, a quel punto, volle vedere assieme al figlio sedicenne quella pietra incisa. Suo figlio non conosceva la nostra lingua, ma quando vide il nome “Ferdinando” inciso sul pavimento, sbalordito ne chiese il perché. Il padre gli tradusse ciò che aveva appena sentito per la prima volta. A quel punto, abbracciati, piansero a lungo su quella pietra, evitando di calpestarla come fosse una lapide. Prima di ripartire, chiesi a Ferdinando di mandarmi i suoi articoli, senza curarsi della traduzione. Più tardi mi scrisse un’e-mail di ringraziamento, tra l’altro grato per avergli fatto conoscere una storia importante della sua famiglia, della quale altrimenti mai sarebbe venuto a conoscenza. Anche se da allora eravamo rimasti in frequente contatto, mi aveva sempre tenuto nascosto quel terribile male. Da un po’ di tempo non rispondeva più alle mie e-mail, così come non aveva risposto agli Auguri di Natale che gli avevo inviato all’inizio di dicembre, proprio mentre la sua vita se ne stava per andare.                   
 



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