RIFLESSIONI SU UNA STALLA - di Fernando Acitelli -

- di Fernando Acitelli -

 

 

Per un fuggitivo la stalla era un rifugio a portata di mano. Questo indubbiamente era vero un tempo. Oggi le stalle non esistono più se non nelle aziende agricole o, in certi borghi che resistono, come reperti ancora in asse d’un’epoca scomparsa. I box al maneggio sono soltanto monolocali in cui il cavallo vive in solitudine la sua angoscia. Spesso pensai di rifugiarmi nella stalla di mio nonno Lorenzo e questo pur non avendo inseguitori, solamente per calarmi in quella figura del “fuggitivo” che possedeva un segreto ed esprimeva una diversità. Naturalmente non ci doveva essere nessuno nella stalla perché altrimenti tutto sarebbe stato alterato dalle domande che mi avrebbero posto.

Dovevo gustarmi gli ultimi istanti d’un XVIII secolo sempre sognato e che il tempo aveva dissolto. Già avvistavo la “dismissione” della stalla, la sua futura inutilità. Quando oggi transito in quel luogo mitico non posso che sfiorarne i muri, osservare i ciuffi d’erba cresciuti qua e là, ripensare alla grossa chiave – una forma da bottega rinascimentale - che poteva a volte lasciarsi in una nicchia; e ancora: ripropormi nell’antica posa di mio nonno, seduto sui gradini che conducevano al sovrastante fienile. Dentro quest’ultimo locale avevo sognato gli scenari della Rivoluzione francese: in alcuni film avevo osservato lo stazzo dove avevano dormito dei contadini o anche un inseguito che aveva beffato i suoi inseguitori. Il fieno consentiva anche un riparo di natura, una coperta imprevedibile e che permetteva di scomparire.

Mia nonna, avvicinandosi al pollaio, che stava subito dopo la stalla, dava da lontano una voce alle galline e queste (miracolo della natura) riconoscevano quel suono, quel «Pì pè!» affettuoso e le uscivano incontro dandole il benvenuto. «Oh, core beglie» - mandava loro a dire mia nonna. Santuario laico quel luogo per me, posto di rammemorazione e di dialoghi dissolti.

Ma torniamo alla strategia della fuga: esiste oggi un individuo che può definirsi “fuggitivo”? E poi: fuggitivo da cosa? Come figura romantica essa è scomparsa: un ladro d’appartamenti non fugge, è impeccabile, disinvolto, quasi in abito gessato scende con l’ascensore dopo aver eseguito il colpo stoppando ogni sistema d’allarme. Inoltre: può fuggire un rapinatore se qualcosa è andato storto, ma scappa per la città, tra il fragore dei clacson e delle sirene; e quel paesaggio urbano di certo aggrava la sua situazione facendolo apparire ancora di più un malvivente. Ma non è il rapinatore ad interessarmi come “fuggitivo”; vi sono dei fuggiaschi interiori, quelli che scappano da una contemporaneità che li opprime. Vi sono poi coloro che fuggono dalla civiltà e trovano riparo tra le mura d’un convento. Anche se sono degli studiosi e lì dentro affronteranno con un silenzio protettivo l’avventura d’un romanzo, sono anch’essi, a loro modo, degli uomini in fuga. Sono per lo più degli individui senza fede ma con un forte tormento. E forse scriveranno proprio un’opera in cui il protagonista se la dà a gambe dagli apparati, dai meeting, dal buonsenso codificato, dalle variazioni catastali, da quelle esistenziali, dai mutamenti delle città, dal debito pubblico.

Una volta un amante fuggiva dai tetti per scavalcare il muro di recinzione e quindi mettersi in salvo. Oggi per simili vicende si devono guardare i film di “cappa e spada” oppure leggere i romanzi di Alexandre Dumas. Si pensi per un momento all’epoca del cardinale Richelieu e al fedele cardinale Mazzarino (nato a Pescina!) e all’epopea dei Moschettieri del Re in quel tempo lungo, memorabile, tra castelli, ruscelli, fringuelli, rifugi nel bosco e schioppi di bombarde in lontananza.

E inoltre L’avaro e Il malato immaginario dal palcoscenico tornavano nella vita dalla quale erano partiti come sublime idea di Molière. Per concepirli per il teatro con quella grandezza, il drammaturgo francese aveva avvistato i futuri personaggi proprio nella vita di tutti i giorni. Tempi di meraviglia vissuta e non gridata, tempi ancora favorevoli a Nostro Signore malgrado le guerre di religione che servivano ad acquisire territori con la scusa della fede.

Un’epoca di trovatori in ritardo e favolisti, di menestrelli e pellegrini, alchimisti e ciarlatani, soldatesche allo sbando e Capitani di ventura, di notari e messeri, di paggi e attori in viaggio verso un Granducato.

Ogni favola inizia sempre con “C’era una volta un Re…” ma non potrebbe mai iniziare con “C’era una volta un presidente”. Oltretutto suona pure male. E quando finisce il sogno, è proprio allora che si comprende l’assurdità dell’esistenza. 

La verità è che non si fugge più, a meno che non si sia indagati per qualcosa ma quasi sempre si tratta d’una fuga momentanea con il successivo costituirsi; e su quei fatti ci scriveranno una sceneggiatura e da essa scaturirà un film e in questo ci si rivedranno in tanti e dunque quell’epica spicciola soltanto per il gusto di replicare nella vita le scene di quella pellicola.

S’è immiserito anche il linguaggio degli amanti, s’è ridotto all’essenziale, s’è incomunicabili anche nel talamo. Accade come nei racconti del minimalismo americano con pagine e pagine di discorso diretto con pochissime descrizione d’ambiente. Da non dimenticare poi il continuo squillare di cellulari anche nei momenti più intensi. Tutto si smarrisce allora e l’abatjour serve a distinguere sullo schermo il nome di chi ha disturbato.

Quei residui di eroismo rappresentati dal fuggitivo e dall’amante sono catalogati come “situazioni patetiche” sul confine dell’avanspettacolo. Ed è chiaro, allora, che con tutto questo elogio della finzione gli spiriti sensibili si rifugino altrove, in scenari a loro congeniali, nei quali anche un ventaglio o una tabacchiera dell’epoca di Re Luigi XIV ha, in quella bottega d’antiquario, un grande valore. Basta questo per sognare e collocarsi in disparte.

In tutto questo pensare a ritroso c’entra evidentemente anche la stalla di mio nonno Lorenzo. Come detto, essa era per me un rifugio ed un osservatorio privilegiato e tale rimarrà per sempre. Ancora adesso ne sento gli odori e me li restituisce la zona originaria del cervello, l’ippocampo, che li ha ben archiviati e li rimanda in onda quando ripenso continuamente ad un luogo caro.

Da fanciullo, sognando, mi calavo anch’io nelle campagne di Francia, dall’Auvergne alla Piccardia, e stavo accanto ai contadini che avrebbero sempre gridato: “Vive le roi sans gabelle!”. E se c’era la gendarmeria nell’intorno e le vie di fuga erano tutte presidiate, un varco comunque l’avrei trovato calandomi poi nella stalla dal muro posteriore di fronte al pagliaio di Francesco Corrieri, e lì, nella proprietà di mio nonno, erano raccolte nell’ennesimo terrore le miti galline che percependo in me un  malintenzionato, incominciavano a chiedere l’intervento del vero gendarme di lì dentro, un gallo cerimonioso e da sfilata. Soltanto il gallo era il responsabile dell’ordine pubblico che si doveva mantenere anche all’interno d’un pollaio. Il capo della gendarmeria – ovvero il gallo - procedeva di profilo, con vero passo prussiano, da sfilata, ma a bene osservarlo ciò che gli interessava maggiormente era il suo mostrarsi, l’essere vanitoso, il suo apparire impettito davanti alle galline orgogliose di lui; insomma era il vero “macho” entro quel recinto, dunque un tipo “poco raccomandabile” al di là delle sua bellezza.

Era sempre in riga e con un piumaggio lucente, rossiccio con mille sfumature. La cresta bene eretta, esito d’un albero genealogico importante, era d’un rosso vivo che già alla vista intimoriva, e doveva porre in fuga il nemico. Quasi mi veniva da scusarmi con tutte quelle creature per aver alterato la loro quiete, ma dovevo passare in quel luogo per raggiungere la stalla di mio nonno, appena dopo una transenna. Del resto non sempre la chiave del pagliaio era in quella nicchia sopra i due porcili e così dovevo procedere ad un vero attraversamento, operare una stratigrafia dei luoghi. Adesso quella nicchia resiste ma è orfana di quella chiave. Essa è custodita, ha svolto perfettamente la sua opera ed ora sulla porta della stalla pende un lucchetto.

Quando penetravo nella stalla nelle primissime ore del pomeriggio, la ricognizione sul luogo e sugli oggetti accadeva in un silenzio morbido, accogliente. C’era l’asina che, vedendomi, d’improvviso s’allarmava ma io procedevo con accortezza, dovevo soltanto attraversare quel silenzio e vedere in che modo resistevano arnesi e manufatti che avevo in mente: il basto, la cavezza di Giggia, i jacqueri, la covella, la grossa campana tutta ruggine che un tempo aveva accompagnato il collo solenne della vacca. E ancora la piccola mangiatoia, subito a destra dopo l’entrata, dove vidi, forse nell’estate del 1965, un vitellino con le corna che erano appena sbocciate all’apice di quella testolina che accarezzai lungamente.

L’asina se ne stava quieta e il fresco gli era favorevole. Di fronte ad essa, sopra la mangiatoia, un’apertura con grata consentiva di vedere la luce del giorno e di prendere ossigeno. Il silenzio era interrotto dal rumore d’uno zoccolo: in particolare il movimento d’una zampa - la posteriore verso avanti e l’anteriore in verticale – per ottenere una pausa dalla tortura delle mosche. Erano quelli i momenti in cui “soccorrevo” l’asina Giggia, quando cioè una grossa blatta gli si era attaccata al collo dove s’era già composta una ferita sanguinante. Intervenivo con una terapia d’urgenza. Sulle prime scacciavo l’insetto con una sacchetta, prendendolo “a randellate”, ma la mia ingenuità era al sommo: ritenevo che, scacciato l’insetto, avessi restaurato la serenità nell’asina, ignorando che il moscone contava sulla memoria e così su quanto aveva appena combinato. Dopo un suo volo di ricognizione l’insetto planava di nuovo sulla ferita sanguinante e allora per chiudere la storia adagiavo sul collo dell’asina la sacchetta come si fa con i purosangue con un mantello protettivo quando trionfano ad Ascot o al Grand Prix d’Amérique. E che, forse, con mio nonno o mio zio attorno avrei potuto distinguermi in tale lodevole atto? No! Ma soltanto perché io ero lì per “meravigliarmi” mentre loro erano presi da tante faccende. Per osservare quella realtà che non conoscevo e vedere cosa non andava, dovevo essere da solo, ed era per questo che allestivo delle incursioni nella stalla nelle ore in cui ero sicuro di non aver nessuno accanto. E allora sì che la fantasia prendeva il largo ed ero in tanti luoghi della Storia, ed era quello scenario della stalla che moltiplicava le immagini.

Dunque, nella finzione storiografica, ero nelle campagne di Francia pur trovandomi ad Assergi e, precisamente, nel distretto esclusivo dei pagliai, dei fienili, degli orti multicolori e tra fantastici nascondigli sopraelevati: i fienili!

Nella solenne stalla di mio nonno!

Adesso, quando passo là intorno, tutto mi pare inutile, anche i ricordi, e così mi torna in mente una eccellente frase di mia nonna Maria a casa quando mi vedeva vagante: «Que va resurmunenne…» Esatto, cosa vai cercando con un fare “sospetto”. Sì, ma questo mio stato d’animo è la premessa d’una vertigine.



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