IL VECCHIO PAGLIAIO

- di Angelo De Angelis -

 

Hanno un fascino particolare quelle quattro mura, da sempre. Racchiudono uno scrigno fatto di vite vissute, di lavoro, di fatica, di sogni e di speranze. Tra quelle quattro mura non ci si riposava mai.
Erano diverse da quelle di una casa, dove si rientrava a sera, ci si lavava, si mangiava e si andava a dormire.
Tra quelle quattro mura si lavorava soltanto, sempre.
Al piano terra trovavano alloggio animali da tiro: mucche, asini, una volta anche cavalle. Al piano di sopra si immagazzinava il fieno per la lunga, fredda stagione invernale. Tra primo e secondo piano quattro stupende volte a crociera disposte a quadrato, con un massiccio pilastro centrale, sul quale le quattro crociere trovavo un sicuro appoggio.
Un portale di pietra è l’ingresso e, posto sulla traversa centrale, un bassorilievo antico raffigurante un Meddix, capo tribù e gran sacerdote del popolo dei Sabini che occupava quel territorio prima che Roma  iniziasse a travolgere e unificare sotto i propri vessilli l’intero mondo conosciuto. La terra, tanto avara nel dispensare i suoi frutti, aveva conservato quel cimelio fin quando il mio bisnonno non lo resuscitò alla luce mentre arava il suo campo.
Quelle quattro mura non sono cambiate per nulla, sono una Pompei in miniatura, residuo del piccolo mondo antico esistito nel borgo in cui sono nato.
Guardavo col naso all’insù il Meddix, rimanendo affascinato dalla storia del suo ritrovamento. Guardavo bambino col naso all’insù le splendide crociere chiedendomi come facessero dei semplici, sottili mattoni a sostenere il peso che anno dopo anno veniva riposto sopra di esse.
Varcare la soglia è come farsi trasportare da una macchina del tempo: le catene appoggiate per terra, che prima cingevano il collo delle mucche; il lungo tronco di olmo che delimita la mangiatoia, il giogo appeso al muro, con finimenti e corde mangiati dal tempo, che fungeva da albero motore trale zampe delle mucche e le ruote del carro. In un angolo ciò che rimane di una gabbia dei conigli con vecchie scodelle di alluminio che, non più utilizzabli in cucina, servivano da contenitore per erbe e granaglie per il loro pasto.
E poi alcuni attrezzi da campagna, primo tra tutti un forcone con otto fitti denti arcuati, indispensabile per ammucchiare il letame in un angolo per poi caricarlo  sul carro e trasportarlo sui campi come concime. Qualche zappa, forcine e rastrelli di legno che si utilizzavano per far prendere aria e sole al fieno appena tagliato, per ammucchiarlo e poi trasportarlo e immagazzinarlo, secco, nel pagliaio. Le mucche erano sempre al centro di quella semplice, collaudata, economia circolare, dove tutto veniva dalla terra e tutto alla terra tornava: e motore di tutto era il lavoro e la dignità dell’uomo.
Entro tra quelle quattro mura per un sopralluogo: un demone potente, cattivo, imprevedibile, lo ha scosso dalle fondamenta e con lui ha scosso mezza Italia. Tutto l’aggregato del quale fa parte il vecchio pagliaio deve essere consolidato, ed è arrivato, dopo tanti anni, il tempo di iniziare i lavori.
Entro con l’occhio e l'animo di chi sta per perdere, con i poveri resti del mondo antico dentro contenuti, la memoria visiva di quei tempi… e comincio a fissare i ricordi dei momenti di vita vissuti tra quelle mura.
Mi vedo bambino con una bottiglia in mano, che funge da biberon per un agnello rimasto senza madre. Vedo i miei zii e mio padre che trasbordano fieno da un carro al pagliaio. L’odore del fieno: è un odore buono, pungente. Un odore che rivivo e respiro ogni volta che taglio il prato del giardino davanti casa; la sera mi siedo su una panchina sul prato accendo mezzo sigaro, lo fumo e sorseggio un po’ di grappa; mi rilasso in solitudine. E’ un momento magico; e scopro che questo rito è una vecchia abitudine dei nostri vecchi che a fine giornata mescolavano il profumo del fieno, o del grano, o della terra arata di fresco con l’aroma sprigionato dal sigaro.
Mi vedo ancora giovanotto, da solo, che passo un intero mese autunnale a curare gli animali che dentro abitano, portandoli ad abbeverare al fontanile vicino la chiesa, mettere per loro il fieno nella mangiatoia, pulire e ripristinare le lettiere con paglia pulita. Zio Ugo in ospedale non poteva svolgere quelle semplici incombenze, e così mi offrii io di farlo, in un tempo in cui il paesetto era quasi deserto. Fu un periodo di eremitaggio che mi permise di concentrarmi e liberarmi dai demoni dell’anima, prima di affrontare un nuovo, faticoso anno universitario a Roma.
Ma il ricordo più bello che conservo dell’umile costruzione è quello che mi ha visto assistere ed aiutare nel compimento del più grande miracolo che quotidianamente avviene milioni di volte: la nascita di una nuova vita. Era sera, avevo quindici anni ed ero a cena da zio Ugo. La giornata era finita ed era ora di andare a dormire, ma non per lui. Doveva controllare cosa avveniva nella stalla, dove c’era una mucca che, terminato il tempo, poteva partorire da un momento all’altro. Lo seguii ed arrivammo giusto in tempo per vedere che stava per accadere una cosa terribile: un parto podalico. Zio Ugo sapeva, gli era già capitato con altri animali, ma gli serviva aiuto e non c’era tempo per chiamare il veterinario: così lo aiutai, con tanta ansia e tanto timore. Non avevo mai visto venire al mondo una nuova vita. Seguii le sue istruzioni, ci misi forza, attenzione, cuore; con un occhio guardavo mio zio per cogliere ogni suo suggerimento, con un occhio quello che facevano le mie mani. Quella notte felicità fu vedere la mucca pulire il suo cucciolo, spingerlo col muso dal basso per farlo alzare, vederlo infine bere alla mammella della madre.
Si era compiuto il miracolo della vita, ed io ne ero stato partecipe.
Sono ormai quasi vecchio, barba e capelli hanno perso il colore rosso rame che mi ha accompagnato in giovinezza. Ho l’aria austera e un po’ pedante del profesionista: si fa il sopralluogo, le prove geologiche,  il rilievo, poi la restituzione dei disegni raffiguranti l’edificio. E stasera mi trovo davanti a quei fogli per vedere come trasformare quel luogo non più utilizzato né più utilizzabile come stalla e pagliaio in una abitazione. Avevo da sempre pensato quanto potesse essere bello quel luogo per ricavarci un’abitazione. Col passare delle generazioni quel luogo, che ho sin da piccolo ritenuto magico, è divenuto mio. E sono anche arrivate le raccomandazioni di chi comunque di quel luogo ha una forte memoria: mia cugina Cesira. Da bambina, giocava nel pagliaio insieme al fratellino; questi, irrequieto e disattento, cadde dal foro che serviva per trasferire il fieno al piano sottostante atterrando, incolume, dentro la mangiatoia: Cesira, più grande,, nella concitazione dell’accauto cadde anche lei nel buco e le si strappò dal collo la catenina che aveva con sé, senza più ritrovarla. Ci prese una bella strigliata per non essere stata attenta al fratellino, e non disse nulla della sua caduta.
Si dovrà liberare l’interno da tutte le antiche reliquie dentro presenti: attrezzi, legni, ferri vecchi, paglia, alcuni resti di letame ormai cristallizzato. Come in uno scavo archeologico andrò alla ricerca di piccoli oggetti che sono stati simbolo di quell’epoca e, chissà, forse riuscirò anche a trovare quella piccola catenina smarrita lì dentro cinquant’anni fa.



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