L'impatto prestazionale e il biliardino del Bar Pic Nic ad Assergi

Riceviamo e pubblichiamo volentieri un pensiero simpatico sulle estati di qualche anno fa ad Assergi :L’impatto prestazionale e il biliardino del “Bar Pic Nic” ad Assergi"

- di Marco Ippoliti -

 

Il modo di affrontare i tempi e l’evoluzione del modo di pensare, di agire, di comportarsi, secondo il periodo storico che l’individuo vive.

Quante parolone che tediano solo ad iniziare a leggerle, che c’entra il Paese di San Franco. Se volete, continuate a leggere.

Mi servono da premessa per correlarmi con un ponte storico-rimembrativo con quello che salta fuori dai ricordi e quello che si osserva oggi in un momento apparentemente più semplice per via di una tecnologia giunta in aiuto dell’uomo ma che però qualche volta lo rende schiavo e drogato di automatismi e supplenze cognitive, pigro e poco reattivo.

Che le splendida Dora, austera matrona del “Bar Pic Nic” non me ne voglia, anzi il mio è un suo tenero ricordo e si aggiunge a quello di estati Assergesi dove la mia noia era la liturgia quotidiana.

La chiusura della scuola significava, giorno più, giorno meno, poter godere di quella frescura che l’ombra del Gran Sasso poteva regalare, in attesa della famosa A/24 ancora un cantiere e il Traforo ancora un progetto.

Raggiungere Assergi da Roma significava quel buon sano, dolce, uovo sbattuto alla mattina, il profumo della pasta cruda e acida e dopo, del pane caldo appena cotto, che saliva dalla Piazzetta del forno e faceva della via dove abitavo e che portava alla “Porta del colle” l’arteria principale, colma di effluvi di quella antica bontà.

Donnine blu con in testa un asse pesante di manualità, pronte sempre ad offrirtene di quel frutto, un pezzetto, che come gattini affamati e senza abusare della loro pazienza, gustavamo felici.

Era ricongiungersi con quell’aria bucolica che già si apprezzava e si desiderava, anche se eravamo piccoli e non coinvolti nei problemi di scuola, traffico, orario di ufficio e confusione metropolitana.

Il primo pomeriggio del primo giorno di vacanza era quanto di più stressante, per la mia immensa timidezza che mi ha sempre perseguitato, passato ad osservare i “paesani” che scendevano da “…Na Porta” per raggiungere quell’avamposto di svago sociale che era quel bar ai piedi delle mura paesane, sotto la Torre dell’orologio, che lambiva la provinciale ed era il primo baluardo che si incontrava per chi proveniva da L’Aquila.

I ragazzi arrivavano dopo aver aiutato i genitori nelle incombenze campestri e le ragazze sempre scrupolosamente in difensivo gruppetto, scendevano “…a balle” con quei calzettoni a righe, guance rosse e rossetto appena pronunciato.

Inserirsi in quella sparuta processione era il desiderio e il tenero terrore, l’ufficiale inserimento nella quotidianità della comitiva, con la paura di affrontare quel primo impatto e non esserne accettato.

“Villeggiante” ma non “Paesano” che sapeva tanto di intruso, percepirsi ospite tollerato e neanche poi tanto, che osava permeare un equilibrio che durava da un rigido inverno.

La meta era un ritrovo, diverso dai pochi altri del paese, che erano frequentati da vecchietti che si accompagnavano, quale ristoro della giornata, a qualche bicchiere di vino per innaffiare vivaci  partite a carte.

Lì vi si trovava un bar quasi moderno, con il banco dei gelati confezionati, un Juke Box con l’espressione artistica dei Festivalbar anni ‘70 e il famoso biliardino, il calcio balilla, dove giocare con gli “esperti” e chi faceva il “girello” era considerato una schiappa da alienare.

Poi, anni dopo, sarebbero sopraggiunti un flipper e un verde, più nobile biliardo.

Soldi, almeno per me, non ce ne erano molti, anzi, e il pomeriggio era lungo, ma bastava inserire un legnetto del prezioso cremino nella leva di ottone del marchingegno e si impediva alla saracinesca delle palline di chiudersi, e perpetuare così la partita, investendo in modo esponenziale quelle solitarie 50 lire di svago.

Certo Dora lo sapeva, faceva finta di non accorgersene, assorta nella gestione del banco, ma ogni tanto, con il grembiule, pantofole e benevola severità, sortiva una protesta. Fuggi fuggi e innocenti sorrisi.

Intervento che era figlio più di un “non lasciarsi prendere in giro”, che di un leggero danno economico perpetuato ai danni del locale.

Ed ecco qui il ponte con il processo prestazionale tra i tempi che passano.

Esce di scena l’azione della proprietaria dell’esercizio, giustissima ovviamente, ed entra quello che oggi avviene nella gestione dell’attività commerciale.

Quasi tutti i punti di ritrovo giovanile a stampo commerciale, oggi offrono “un passatempo” ai frequentatori, fatto di giochi di società da tavolo, freccette o quanto possa far ingannare il tempo e incrementare le consumazioni, vere fonti di introito per il locale.

L’esatto contrario di allora.

Ripeto, la buona Dora, quello faceva e quello era giusto fare, questo mio dire è solo per fare qualche riflessione, si è detto, temporale, ma pensate se nel 1972 qualche titolare di Bar, in qualche paese della 17bis, avesse regalato “un passatempo” ad una gioventù anche allora annoiata.

Ci sarebbe stata la fila fuori e il passaparola non si sarebbe fermato per tutta l’estate. Anche se possedere una macchina non era a portata di tutti, ci saremmo andati anche a piedi.

Ma era bello lo stesso il dover scegliere, come scritto in altra occasione, tra “Questo piccolo grande amore” e un “ghiacciolo arcobaleno” tutti e due duravano il tempo di un pensiero felice verso il futuro che stava arrivando.

 

 



Condividi

    



Commenta L'Articolo