LORENZO GIUSTI, UN SIGNORE

LORENZO GIUSTI, UN SIGNORE

 

- di Fernando Acitelli -

 

Tornare ad Assergi significava la felicità. Era rivedere tutti i nostri cari, ad iniziare dai nonni per proseguire con gli zii e giungere quindi ai cugini. La gioia che si provava è difficile ora da raccontare e anche quando venivamo per soli tre giorni, ad esempio a Pasqua, si trattava d’un tempo così lieto che quando s’interrompeva era naturale che sgorgassero le lacrime. Molto prima che ci fosse l’autostrada era la consolare Salaria a consentirci di giungere nella nostra seconda regione, quella degli affetti. Si trattava d’un lungo viaggio con località e paesi da incontrare: Settebagni, Passo Corese, Rieti, Cittaducale, Terme di Cotilia, Borgo Velino, Antrodoco e quindi Sella di Corno, una salita degna d’una tappa del Giro d’Italia. Superata quest’ultima eravamo con l’animo già ad Assergi e, una volta giunti alla “Caserma Pasquali”, s’era praticamente accanto al camino dove mio nonno valutava l’intensità della giornata trascorsa mentre mia nonna dettava i ritmi per la cena, aiutata in questo da zia Letizia. Da parte sua, zio Antonio doveva ancora rientrare ed era al suo arrivo che la serenità decollava. I piccoli Lo(Renzo) e Maria Pia s’occupavano del tempo in una contemplazione ricca d’immagini e se lei era sognante, dispersa con la mente in mille fantasticherie, lui ascoltava quanto si diceva in cucina ed elaborava interiormente. Era come se stesse occupandosi d’altro ma in realtà assorbiva i dialoghi e, già da persona matura, si rendeva conto di tante cose. Ecco il punto: Lorenzo, o Renzo per tutti noi, era maturo già nella sua fase fanciulla. Avrei voluto donargli un po’ della mia esuberanza, del mio desiderio di andare in giro per imbattermi in persone insolite, per me ricche di mistero, ma lui aveva un codice interiore da rispettare e questo lo aveva avuto dalla natura. Era anche vero che su questo dono ricevuto stavano lavorando con particolare attenzione i suoi genitori. In Maria Pia, bionda e con due belle gote colorite, tutto si muoveva dalla sua bontà: era tranquilla e mai che l’avessi vista incapricciarsi per qualcosa. Era il bambolotto del focolare. E poi pareggiava le donne in quella casa, come Renzo faceva con il padre ed il nonno.

Questo suo carattere Renzo lo mantenne ed anzi lo fortificò: per le scuole medie ed il liceo fu al Convitto Nazionale “Domenico Cotugno” sotto i portici, poco prima di Piazza Palazzo, e questo gli consentì di non viaggiare d’inverno e di volgersi allo studio con grande impegno. Il suo numero fu l’84 da cucire su tutti gli indumenti: a tale compito pensò zia Letizia. Quegli anni trascorsi in quell’istituto lo fortificarono e crebbe in lui il senso degli orari e della disciplina: divenne ancor più responsabile e, a dirla in breve, da adolescente si mutò in un uomo. Anni dopo, leggendo il romanzo I turbamenti del giovane Torless di Robert Musil, ripensai proprio a quell’educazione che doveva aver avuto Renzo al Convitto Nazionale. Aveva mutato anche la chioma e, da bionda arricciolata, era divenuta castana.

Sarebbe bello esaminare i registri di classe del suddetto Convitto Nazionale non tanto per vedere i voti di profitto di Renzo ma per scovare una nota, un’ammonizione per qualche comportamento non proprio esemplare. Impossibile per lui essere indisciplinato. Sfogliando quei registri (qualora fossero ancora custoditi), non si troverebbe nulla per quanto riguarda una nota per una condotta non eccellente. Probabilmente anche quella casella sarebbe ricamata da un Ottimo, oppure da un 10 se invece del giudizio il corpo insegnante si fosse espresso con il classico voto.

D’estate, quando lo vedevo all’opera nella spensieratezza d’adolescente, mai che raggiungesse i miei livelli d’esuberanza ed il suo comportamento era sempre tranquillo, riservato, e quando vedeva che io, assieme agli altri compagni, ci stavamo distinguendo in qualche azione spregiudicata, lui osava sempre un passo indietro (per non dire due) e questo perché temeva le possibili conseguenze di quello che noi stavamo architettando. Non entrava mai in progetti ardimentosi come ad esempio fare d’un pagliaio il nostro fortino (come alcune volte accadde) oppure violare l’intimità d’un fienile se si giocava a “Cane e lepre”. In un’occasione del genere, di notte, nei pressi della fonte alla "Cona", Gianni Sansoni, fuggendo tra il fieno, precipitò da un piano alto ad un altro che stava poco sotto al primo. Trovò magistralmente l’equilibrio e si riassestò sempre nel fieno continuando nel gioco: nell’aria le sue lunghe gambe s’aprirono come un compasso.  

Posso dire che Renzo seguiva a distanza quei filmati in cui io e gli altri compagni eravamo protagonisti ma quell’irruzione nelle proprietà altrui – anche soltanto per comporre un gioco – non lo avrebbe mai riguardato. Semplicemente rimaneva a distanza magari in attesa che noi terminassimo quel gioco e ne elaborassimo un altro più tranquillo e senza possibili conseguenze. S’esprimeva bene nel gioco del calcio – intorno si sentiva la frase «Iame a fà a pallone!» - e poteva contare già su un eccellente fisico rispetto agli altri. E questo era vero anche nelle nostre “Olimpiadi” al fiume dove il suo essere alto e longilineo aveva, soprattutto nella corsa, la sua importanza.

Poi venne il tempo dell’Università e lì tra lezioni dal vivo e tutta una sequenza di “libri macigno” si vedeva il tempo come un affresco diverso e dunque la propria esistenza votata esclusivamente allo studio dell’essere e del malessere. Poche dunque le occasioni di svago ed il corpo umano come immagine iconica, punto di riferimento, e in mente il disegno dell’Uomo Vitruviano di Leonardo oppure la Lezione di Anatomia del pittore olandese Rembrandt. Un duello continuo con i libri e mattinate e pomeriggi a concentrarsi su apparati e distretti in un’atmosfera di raccoglimento sul confine della confessione e sulle ragioni dell’esistenza. Del resto dal corpo allo spirito il passo era breve.

Prima d’essere medico, Renzo è un filosofo che cura già con la parola, che sa confortare prima ancora d’intervenire con diagnosi e prescrizioni. Esattamente questo: egli si prende cura del paziente, gli puntella l’animo e già questo comportamento rimanda all’antica Grecia quando il male dell’anima era il primo ad essere soccorso. Sopraggiungeva dunque la giusta misura, il katà métron e così, con la giusta parola, si quietava l’animo e dopo che il logos aveva scansato ogni tonalità emotiva, si sarebbe intervenuti sul corpo. Del resto anche un malanno era il “fuori misura” d’un organo. E questa disarmonia nel corpo poneva l’uomo greco di fronte al terrore della finitezza, del nulla. Splendida a tale proposito la riflessione del filosofo Salvatore Natoli: «I Greci non furono un popolo tragico perché scrissero tragedie, ma scrissero tragedie perché furono un popolo tragico».

Ho avuto molte occasioni per constatare la bontà e l’altruismo di Renzo e trovo difficoltà a scriverne perché la mia versione potrebbe risultare di parte e inoltre avverto il pericolo di sconfinare nell’agiografia. Ma non devo costruire attorno alla sua persona delle leggende, m’è bastato essere presente in certe occasioni per rendermi conto del modo in cui si dona, e della sua purezza d’animo. Il ricordare, inoltre, certi suoi silenzi durante l’adolescenza ed il suo rimanere sempre in una posizione “di retroguardia” da dove forse si potevano analizzare meglio le situazioni, mi chiarisce adesso certi aspetti del suo animo che in quel tempo facevo fatica a capire per la mia esuberanza e la voglia di finire in mille avventure. Parlare della stima dei miei genitori nei suoi confronti sarebbe evento plateale, meglio custodire le parole di mio padre per lui ed anche quelle di mia madre, la quale, ogni volta che lo vedeva si rasserenava ma non per la sapienza medica e dunque per un’idea di tranquillità, quanto perché si trovava dinanzi un angelo (parole di mia madre).

Il fatto è che queste testimonianze non sono soltanto mie e ognuno potrebbe raccontare i suoi rapporti con Renzo e tante così sarebbero le storie. Se ascolto voci dal Canada e dagli Stati Uniti, narrazioni nelle quali si parla di suoi tempestivi interventi in qualche estate già lontana, significa che si è donato tanto e che il senso della comunità ha prevalso ancora una volta.

Un medico, vivendo a distanza ravvicinata con il dolore, potrebbe comporre un grande affresco con quanto ha visto e quanto vedrà durante tutta la sua vita. Le sensazioni dei malati, le lacrime e le improvvise gioie, le inaspettate speranze, addirittura sbalorditive quand’è sera, fanno parte del suo corredo interiore. Medici scrittori furono il francese Louis Ferdinand Céline, il russo Anton Cechov, l’ucraino Michail Bulgakov. Quella professione influì molto sulla scrittura e se Céline pubblicò la sua tesi di laurea sul medico ungherese Ignazio Semmelweis, che aveva scoperto l’origine della febbre puerperale, causata da medici che non si lavavano accuratamente le mani, Anton Cechov convisse con la tisi, continuando a scrivere racconti e opere teatrali sino all’ultimo giorno.

Chiedere a Renzo di narrare il dramma umano in tutta la sua portata, le notti di pronto intervento, gli sguardi contratti da smorfie di dolore, la successiva serenità, le cure, le luci al neon nella notte lungo i corridoi, le grida in lontananza, la calma d’una caposala, ebbene, tutto questo sarebbe troppo. Egli si dona talmente all’arte medica che diventa per lui una necessità del corpo oltreché dell’animo la quiete, il riordino delle idee circa la sua persona e i suoi affetti. Non posso neanche sognare lui come un Anton Cechov di Assergi, del resto la distinzione, la discrezione e la sobrietà sono state, fino ad oggi, le sue coordinate emotive. Grazie Renzo, per il bene che hai fatto a tutti.

Grande Renzo! La Piazzetta del Forno ci ha fortificati!

 



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