QUELLA PESTE DI LUIGI GIUSTI...di Fernando Acitelli

Si va indietro nel tempo, si retrocede agli anni ’50, a quel quieto vivere di cui non si ha più notizia. Addirittura non si riesce a scorgerlo nemmeno come ricordo. Il pensare che quel tempo attraversò il pianeta e calò anche su Assergi spiazza: un lungo periodo di pace che oggi pare un miracolo non più riproponibile. Persone semplici davanti, bonarie ma non nel significato di ingenue, credulone, quanto dotate di sentimenti autentici, di sorrisi che lasciavano il segno quando si rientrava al tramonto. E la casa era paragonabile ad una chiesa, un rifugio insomma, una cinta muraria dove tutto s’arrestava sull’uscio.

L’animo poi migliorava se c’era l’immagine della Madonna che girava per le case: la bellezza di quella custodia che con due sportelletti proteggeva la sacra immagine. I lumini là davanti erano, simbolicamente, il prologo della luce eterna. Come si potevano smontare simili sentimenti? Il rammentarlo – anche se come narrazione d’altri – commuove, fa pensare ad una aggressione meno feroce del tempo. Quelle atmosfere facevano considerare ogni giorno più lungo, non distinto in sole ventiquattro ore.

Era un Assergi di telefonate dal posto pubblico, dell’autobus “Pacilli” da Roma, del conducente Ciaglia e della sua manovra per parcheggiare di sera quel pullman in uno spazio che gli era riservato sotto le scuole. Visto che il pullman non poteva entrare totalmente in quel garage alla buona e quindi una parte posteriore sarebbe rimasta fuori, ecco che l’autista provvedeva a custodire quella sporgenza con un manufatto che altro non era se non un tavolato che era fissato sui due lati da trame di fil di ferro, le quali si congiungevano poi alle due porte con le quali si chiudeva abitualmente quell’entrata. Tale accortezza durò per tutti gli anni ’60 prolungandosi anche nel decennio successivo. Quell’accorgimento dava sicurezza e, quando lo si guardava, ecco che subito sapevamo quel pullman in salvo e gli eventuali malintenzionati non sarebbero potuti entrare in quello spazio.

Si trattava d’un paese ancora ammaccato, con le strade non impeccabili, sassose, e s’elevava dunque il senso della cartolina come narrazione: la statale in primo piano, senza guardrail ma ogni tanto – nelle curve per lo più – con delle protezioni di cemento composte da elementi verticali uniti da uno orizzontale, il tutto pitturato in bianco e nero.

Ecco dunque Luigi Giusti bambino che avanza, guadagna la scena e questa è la classe della prima elementare e la maestra è una signorina, appellativo di rispetto in quanto la maestra Battista non è sposata. È costei che si prende cura di una nuvola di bimbi tra i quali, appunto, Luigi. Il suo sguardo dalla cattedra è severo, questo almeno emerge dai resoconti, dalle cronache del tempo, che potranno anche essere sul ciglio del pettegolezzo ma una glassa di verità la contengono. Lei è della famiglia Sacco o, per meglio dire, di Patanella, con dimora signorile a NaPorta. È la zia di Lucia, Maria, Elena e Gesualdina. Buona cosa è citare tutto il corpo docente di allora e così gli insegnanti Sara Lalli, Mimina Lalli, Carlo Massimi e la maestra Vespa.

Accade che un giorno il bambino Luigi Giusti – si ignora se al mattino accompagnato a scuola da suo padre Mario o da sua madre Genovina (Genuina) – è più vivace del solito e risulta difficile farlo stare buono. All’inizio, certamente, la maestra Battista avrà fatto del suo meglio per tenerlo a freno ma quella mattina il bambino si stia esprimendo a livelli altissimi quanto ad esuberanza. Mi chiedo cosa mai potrà combinare un bambino per meritarsi l’intervento della maestra. E ancora sono a chiedermi di quali colori è la sua vivacità in quel mattino. Forse parlerà con gli altri alunni? Finirà col distrarre anch’essi? Non presterà attenzione alle spiegazioni della maestra? La verità forse è che si mostrerà lontano da tutte quelle parole e non avrà in mente che il suono della campanella è così l’uscita da scuola ed il lieto ritorno a casa. Tutto questo è possibile ma non riesco ad immaginare la vivacità di un bambino nell’anno 1955.  Comunque mi devo risolvere a quanto decide la signorina Battista e così, per punizione, chiama presso di sé Luigi Giusti e lo fa sistemare accanto a lei sulla pedana della cattedra.

Si tratta, a ben vedere, d’un intervento lieve e non d’un rimprovero forte che avrebbe potuto “umiliare” il bambino dinanzi ai suoi compagni di classe. Dunque dal suo banco Luigi Giusti migra sulla pedana della cattedra e tutti i suoi compagni adesso lo osservano nella nuova collocazione e qualcuno forse si chiede se vi saranno dei provvedimenti ulteriori nei suoi confronti e inoltre ci si domanda quando Luigi potrà fare ritorno al suo banco. Il bambino sta ritto, impassibile accanto alla maestra e il suo sguardo è spavaldo, irriducibile, e l’aria è di sfida. In quei momenti sicuramente pensa che la maestra Battista lo ha punito severamente e, di sicuro, lei poi riferirà l’accaduto ai suoi genitori e dunque per lui ci saranno altri rimproveri ed altre punizioni a casa.

Ma le domande da porsi a questo punto sono le seguenti: quanto reggerà un bambino ad una situazione del genere? Potrà forse rimanere fermo e rigido accanto alla maestra per l’intera mattinata? La risposta ce la dona il bambino Luigi che dopo un po’ di quel suo rimanere immobile di lato alla maestra, sopraelevato grazie alla pedana della cattedra, s’esibisce in un gesto che per quei tempi ha dell’incredibile. È come se Luigi anticipasse di sessant’anni quanto adesso avviene per stupire e per essere considerati degli “anticonformisti”. E cosa fa Luigi, allora? In cosa si distingue? È presto detto: lo tira fuori!....... Incredibile! Gesto per quell’epoca assolutamente contro le regole, eccentrico, narcisistico a suo modo, da anticonformista autentico anche se concepito da una mente bambina, in quella stagione dell’esistenza in cui tutto è puro, senza sovrastrutture, senza malizia con ogni gesto dettato soltanto dall’istinto e dalla spontaneità.

Non è dato sapere quale fu la reazione della signorina Battista a quella esplosione di virilità in “formato fanciullo”, certo è che si trattò d’una reazione ad un provvedimento che Luigi sentiva ingiusto. C’era inoltre da valutare quanto quel gesto, quella insubordinazione fossero rivolti alla maestra e quanto, invece, ai compagni di classe che sicuramente lo stavano prendendo in giro perché sottoposto a punizione.

Cosa poté dire la maestra dopo aver visto il sesso d’un bambino non appare descritto in alcuna nota di disciplina: per l’epoca dedicare qualche parola al sesso non era facile: si trattava di materia incandescente. In pochi attimo lei sicuramente pensò ad un rapporto da inviare al Direttore Scolastico perché “s’era veramente passato il segno”. In questo modo la sua posizione sarebbe stata tutta in luce e tra i dirigenti scolastici ed i colleghi lei sarebbe apparsa come una figura esemplare e, dal un punto di vista morale, stimatissima persona.

Che forse la signorina Battista raccontò tutto alle sorelle e ai nipoti? Si confidò con le altre maestre della scuola di Assergi? Passò ella il pomeriggio in meditazione riflettendo su quanto accaduto al mattino? Convocò i genitori del bambino Luigi? Eh, a saperlo! Purtroppo c’è spazio soltanto per delle congetture, comunque, è anche probabile che lei, nei giorni successivi, guardò a quel bambino con occhi benevoli tenendo a freno pensieri di punizione.

Composto oggi un simile gesto stupirebbe soltanto coloro che sono in perenne confidenza con gli “anticonformismi” planetari mentre le rare menti raffinate parlerebbero d’ennesima banalità, d’un perfetto confezionare l’ovvio. Oggi quello che stupisce è tutto il contrario dell’esibizionismo e della platealità decretate dall’Età della Tecnica, e allora si scambia per debolezza la sobrietà, l’educazione e l’eleganza interiore.

Caro Luigi, quel tuo gesto “futurista” è da salvare, del resto se arrivasti a tanto fu perché proprio non ne potevi più di quella punizione e dei sorrisetti beffardi che i tuoi compagni, dal banco, ti lanciavano contro.

Naturalmente questo ricordo, questa “scheggia di sublime” mi ha consentito di ricordare ancora una volta alcune esistenze, e questo non è poco.

Fernando Acitelli

 



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