RITRATTO DELL’ARTISTA DA CUCCIOLO di - Fernando Acitelli -

RITRATTO DELL’ARTISTA

DA CUCCIOLO

- di Fernando Acitelli -

Non mi dimentico neppure di chi non ho conosciuto ma il cui nome ancora resiste tra le pareti della mia casa, e questo grazie alla lunga narrazione di mia madre. A volte mi ripeto che non sono stato all’altezza di mia madre e ho contato in modo eccessivo sulla mia memoria, non avendo accanto, mentre lei raccontava, un taccuino ed una matita dove appuntare tutti i suoi resoconti lirici. Ma non è stata presunzione la mia, soltanto una delicatezza in più per non comunicare a mia madre che io stessi facendo dei suoi racconti un libro di Memorie e, come si sa, le Memorie evocano naturalmente l’idea del distacco dalla vita. Dunque la mia fragilità, l’emotività ad ampio raggio m’hanno proibito di raccogliere compiutamente fatti e circostanze in modo rigoroso. Vero è, comunque, che tutto quello che ho narrato risulta da quanto ho appreso da lei senza dimenticare, ovviamente, le lunghe stagioni della mia fase cucciola e poi d’adolescente, una meravigliosa sequenza di giorni trascorsi ad Assergi, splendida perché votata ad ascoltare e ad assorbire tutto, sia che si fosse in casa e sia che lo scenario fosse la campagna. Inoltre è da sottolineare l’importanza della tradizione orale di cui m’incantavo e che ha avuto, fortunatamente, una resa proficua in questo mio raccontare. Ma le storie e le riflessioni di mia madre restano insuperabili, è stata lei a scendere nelle pieghe della nostra storia, nelle fessure che contenevano sempre delle piccole quanto suntuose verità.

E come in pittura i titoli di certi dipinti sono ad esempio Natura morta con frutta o anche Paesaggio con figure, nel caso che mi riguarda (che ci riguarda), parlerò di Traiettoria con figura femminile, e si tratta d’una donna che merita indubbiamente d’essere ricordata per il modo in cui ella riassumeva dati culturali (era una maestra) con il suo essere (inconsapevolmente) una figura surreale, un’esistenza che era sul limite del sogno, dunque aveva residenza nella vita ma un piede lo teneva in location d’avanguardia e non a caso s’è parlato di surrealismo. Ho già trattato, di volo, Concetta Mosca, la maestrina “de gli Cascere” e come a volte m’accade per quelle esistenze la cui esilità è stato un valore, ecco che ella prende corpo, lentamente, riappare, e dunque le faccio dono dello status di esistenza (ancora) in vita, e così la tolgo dalla dimenticanza e, usando un termine più severo, la rimuovo dall’oblio.

La sua traiettoria prevedeva un’avanzata dalla sua casa e in direzione della Piazzetta del Forno ed era anche probabile che in quel suo procedere nel suo rione incontrasse don Arcangelo, il quale, lì sfilando, elegante e inappuntabile, pareva un notabile del Regno d’Italia. Dunque Concetta Mosca lentamente avanzava e in quella strada in piano passava davanti alla casa che in seguito avrebbero abitato Pietro Rapiti e sua moglie Cristina. Il suo era un procedere preoccupato perché se quel primo segmento di strada era in piano, dopo la casa di Antonio Tacca sarebbe iniziata la discesa e da lì la “direttissima” per la Piazzetta del Forno.

In questo suo spostarsi pure avvistava delle persone che rimanevano a guardarla senza annunciarsi, ben collocate dietro una persiana o nello spiraglio breve d’una porta. Non che a lei sorgesse in mente l’idea di salutarle e dunque di svelare quel loro celarsi da birbone, no, ella procedeva infischiandosene di tali agguati e componendo in sé un affresco di pensieri che, in verità, non erano concetti (e quindi parole) ma scene come nei dipinti, una sorta di Pala d’Altare con le diverse rappresentazioni. Aveva visto tutto ma lo teneva per sé.

Le persone che poteva incontrare sul serio in strada erano sor Checco, tutto preso dalla sua laboriosità, un giovanissimo Pietro, figlio di Antonio Tacca e Pierina, e poi, voltandosi a sinistra in quell’incrocio fatale, Vincenzo Mosca, cioè Manetta, aitante e col sorriso pieno. Ecco, da quel punto preciso iniziavano i problemi per la maestrina Concetta Mosca e questo perché la strada iniziava in discesa e, ricordiamolo, era anche dissestata con i sassi in una esposizione degna della cosiddetta “arte povera”, insomma Kounellis e Pascali. E se lì Concetta era a metà percorso, ben comprendeva come i problemi iniziassero proprio lasciandosi alle spalle quel suo distretto quasi tutto in piano.

Imboccata la discesa poteva incontrare un artista che abitava prima dei Bocchetta, e costui era chiamato ‘U Calacine perché proveniva da Rocca Calascio. In quel punto aveva la piccola casa, uno scrigno a ben vedere, un rifugio pure. Il laboratorio, invece, la sua bottega d’artista, era subito dopo la casa della comare della Foletta.  Costui aveva in grande rispetto il legno, che intagliava da maestro. Da ricordare il pomo del suo bastone, un uccellino, naturalmente opera sua.

Frattanto procedeva la maestrina, guadagnava lentamente metri, superava arditamente la casa di Battista Pace, gettava uno sguardo all’uscio di quel gran lavoratore che era Palazzone, ed era anche possibile che s’incrociasse di sguardo con Pirame o del Maresciallo arrampicato sul suo balcone. Un saluto a tutti, del resto era votata all’educazione per tutto quello che aveva respirato in famiglia. Inoltre si trattava d’una maestra, anzi, d’una maestrina, diminutivo delizioso entro cui era compresa molta poesia dell’ultimo tratto del Ottocento fino ad arrivare alle atmosfere di Guido Gozzano e Amalia Guglielminetti.

I sassi avevano abbandonato la correttezza del manto unico ed erano, per così dire, in “libera uscita”, scomposti in riquadri di terra: questo fatto comportava che Concetta Mosca tenesse sempre puntato lo sguardo in terra perché voleva evitare un cappottamento in quel periglioso tratto. Quindi s’aveva il suo passaggio dinanzi a Ciu Ciu, ovvero Giuseppina Napoleone, poi un saluto lo riservava a Sabbettone, una donna che risaliva il vicolo dove abitava, e ancora uno sguardo per l’alto dove stava affacciata, e poggiante sulla  ringhiera, donna Rosalia, la moglie di Giacobbe Giacobbe. «Attenta!» – le diceva, sopraelevata, donna Rosalia, e la maestrina che in risposta le mandava a dire: «Devo stare attenta, sì, il peggio non è ancora passato, guarda quanti i ciottoli…!». Li chiamava ciottoli e non sassi, ci teneva alla purezza del linguaggio, e le sue stranezze, soprattutto d’abbigliamento, erano la sua forza, la sua distinzione. Al principio della Piazzetta, giungendo ella dall’alto, allargava le braccia e procedeva come una farfalla (quasi un tentativo di planare) e il suo cappotto era verde mentre le sue calzette erano rosse. Una vera eccentrica che non avrebbe sfigurato a Parigi, in una soffitta a Montmartre, e sarebbe stato bellissimo un pranzo o una cena a casa sua, chissà quante immagini e pensieri stravaganti, cioè sublimi, si sarebbero potuti ascoltare… Un giorno mia madre bambina capitò a casa sua e lei la ricevette con molta cordialità. Ad un certo punto le disse: «Domenica, vieni alla finestra…», e preso il cannocchiale lo orientò verso un prato di sua proprietà dove stavano lavorando degli uomini. Dalla finestra della sua casa il cannocchiale consentiva di raggiungibile quel terreno: «Vedi, quando gli operai si mettono la giacchetta, ecco, in quel momento posso buttare la pasta...», e il tempo era esatto e di lì a poco gli operai avrebbero bussato alla sua casa. Mia madre bambina rimaneva incantata di fronte allo stupore creativo che la maestrina soleva comporre.

Giunta alla Piazzetta del Forno, la maestrina bussava alla porta della Cupella, cioè Domenica Scarcia, e a lei chiedeva d’andarle a comprare del tabacco che soleva annusare. Una donna che con il tabacco non compone una sigaretta ma lo annusa, ebbene, già da questo fatto dichiara una differenza. E se la Cupella era sempre stata ubbidiente, col passare del tempo aveva avvertito quella richiesta della maestrina come un obbligo e allora, stufa di quella giostra, escogitò un piano da vera maga, del resto la sua cucina – dove s’addormentava vestita su una branda circondata da balle di grano – si prestava molto ad un’atmosfera medievale. Ecco il suo piano: dopo aver triturato del peperoncino e averlo collocato in un fazzoletto, seppe mischiarlo in modo perfetto con il tabacco appena acquistato, naturalmente tale procedimento accadde lontano dagli occhi di Concetta Mosca, in attesa alla piazzetta. Di lì a poco avrebbe consegnato alla maestrina il miscuglio fatale. Il risultato fu che la maestrina iniziò a starnutire senza posa e ad avere delle visioni poetiche. Probabilmente si chiese il perché di quella nuova situazione nel suo “inebriarsi” con il tabacco ma non poté risalire al “tradimento” della Cupella. Questo fatto è vidimato come vero e lo restituisco nello stesso modo in cui l’ho appreso. È per me come un reperto d’epoca romana, riemerso alla luce e quindi da custodire, se non altro perché, grazie ad esso, ci ricordiamo di molte persone, cioè il significato vero della comunità.

Il fatto è che convivo con le storie del passato proprio da quand’ero cucciolo, da qui anche il titolo del racconto. Voglio ricordare che ho preso in prestito tale titolo dal libro di racconti del poeta gallese Dylan Thomas, Ritratto dell’artista da cucciolo. E per questo titolo il poeta gallese era ricorso allo scrittore irlandese James Joyce il quale, molto prima, aveva scritto Ritratto dello scrittore da giovane (A Portrait of the Artist as a Young Man).



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