LA PROIEZIONE DEL FILM E QUELLA DEL CUORE

LA PROIEZIONE DEL FILM E QUELLA DEL CUORE

- di Fernando Acitelli -

 

Lasciavo casa avendo cenato al volo, dimenticandomi per quella sera dei miei nonni che li immaginavo in leggero affanno proprio perché non protetti dal mio sguardo. La cena al volo ed i nonni trascurati accadevano perché dovevo giungere in anticipo in Piazza ed esaminare come poteva evolvere al meglio la serata. Da parte sua, mia nonna Maria, come al solito, non lesinava consigli delicati nei miei confronti ma forse quella sera accadeva un’accentuazione delle sue premure perché uscivo di casa prima dell’orario canonico. Tra i tanti suggerimenti me ne lanciava uno ad andatura lirica, cioè di mettermi la maglia perché l’aria della valle poteva essere fatale. Su quella delicatezza di mia nonna avrei ragionato tutta la sera, anche se disperso in tante faccende. Potevo alterare anche i miei comportamenti, declinarli dunque in poesia e stare male quando lei mi donava tutto il suo cuore. In quei momenti pensavo che mia madre non doveva essere custodita come mia nonna: c’erano gli anni, al solito, nel bel mezzo della faccenda. In un certo senso, però, mia madre era ancora in salvo.

Per raggiungere la Piazza allungavo il mio tragitto raggiungendo la casa di Cristina Longa: dovevo rendermi conto della quiete di quel luogo. C’era una spiegazione in tutto questo e cioè che in quel corpo di fabbricato, sul davanti, c’era un luogo sacro con la Madonna. Mia madre mi raccontava che sua zia Alessandra, sorella di nonna Maria, tornando dal mulino una sera già bene inoltrata nel buio, aveva visto una figura di donna là davanti, raccolta in sé e orante in quieto mormorio. Non si trattava d’una donna del paese e sia la postura di quella figura femminile e sia l’orario affrescavano tutta la scena come una “rappresentazione” fuori dell’ordinario. Alessandrina s’era impressionata anche perché quella figura non s’era voltata al sopraggiungere di lei. Tutto ammantava quella situazione d’un che se non di straordinario almeno d’incomprensibile. La mia mente muoveva verso un sogno: poteva ripetersi con me quell’incontro? Che cosa avrei potuto congetturare se fosse accaduto tanto? Comunque nulla che potesse scuotermi favorevolmente e la casa di Cristina Longa come quella di Assunta di Dragone erano distese nella quiete più vera. Dunque, la prima tappa finiva e m’avviavo verso il cuore del paese.

La ricognizione in Piazza prevedeva l’osservare quel “montaggio delle attrazioni” che era il pulmino di colore rosso ma dalla forma non proprio esemplare e che conteneva al suo interno tutto l’armamentario per la proiezione. Erano due gli addetti che provvedevano ad esaminare proiettore, pellicola e la prova del nitore al susseguirsi dei fotogrammi. Sulla facciata della chiesa il telone predisponeva all’inganno del film, vale a dire una vita parallela a quella autentica. I ciuffi d’erba tra le pietre della facciata non si vedevano che in alto, dalle parti del campanile, e per assistere nuovamente a quel miracolo di natura si sarebbe dovuto aspettare lo sbocciare del nuovo giorno, con il telone dismesso e ricomposto.

Vi erano nella Piazza diverse disposizioni d’animo nei confronti del film. Nei luoghi di Angelina e Lidia v’era un esultare composto, quasi un gioire sottovoce e nel profondo si faceva largo la sensazione che anche il più grande spettacolo del mondo non le avrebbe smosse dalla loro inquietudine. Quella casa comunque mi prendeva, da quando m’avevano raccontato che un tempo, lì, si parlava con gli spiriti, avevo come la sensazione di dover accarezzare quelle mura: non sapevo se dovessi lenire le ferite di qualcuno lì dentro oppure se intendessi farlo per una mia esigenza interiore. Si sarebbe forse trattato d’una medicazione per me, e il mio sentire aveva dunque un’andatura metafisica, come se sperassi in un attracco in luoghi registrati soltanto in un catasto ultraterreno.

Di fronte a tale rappresentazione, ecco Serafina, giudiziosa sulla porta e, a lei accanto, il fratello Checco che avrebbe resistito ancora un poco prima di risolversi alla branda. Del resto l’incombente zurlare sia sullo schermo che nella piazza lo invogliavano senz’altro verso un altrove morbido e rassicurante. Checco, buono e puro, che lo vedevo ogni giorno alla bottega di mio nonno prestandosi egli in tanti aiuti e sapendo che in quel luogo aveva persone affezionate e che gli volevano bene. E poi oltre: il suono dell’armonica veniva da Laurino, seduto dinanzi alla porta del suo laboratorio d’arte. Egli, nella sua quiete, avrebbe continuato con le composizioni fino ai primi fotogrammi sullo schermo. E nello stesso corpo di fabbricato ma sopra a Laurino ecco Ginetta e Ercolino, appollaiati sul loro piccolo balcone e già con lo sguardo puntato sul telone: Ginetta sempre sorridente, Ercolino recluso nella smorfia del disincanto. Personaggi letterari già allora per me e, fantasticando, li posizionavo nella campagna francese all’epoca napoleonica, gestori d’una locanda nei dintorni di Arras. Da lì, di volo, giungevo alla casa di Flavio e tanto speravo di vederlo transitare. Mi sarebbe bastato appena un suo avvistamento sotto una lampadina in uno dei vari ambienti della sua casa. Pensavo d’osservare le sue azioni da dietro uno di quegli spioncini in voga già nell’Ancien Régime, o da un foro in un dipinto: lui non l’avrebbe mai saputo. M’interessava la vita di Flavio in penombra, cioè nelle azioni che non si vedevano all’esterno, quelle oscure, che erano autentiche proprio perché fuori dallo sguardo di estranei. Azioni sublimi proprio perché non controllate, esattamente quelle che mostravano sul serio il carattere e la personalità d’un individuo.

I misteri di Flavio, mi veniva di pensare.

La verità era che la festa per molte persone diventava l’occasione per meglio oscurarsi e riapparire quando quell’atmosfera s’era prima attenuata e poi dissolta. Da quanto si coglieva nella sera che andava inserendosi in quel giorno, il film era western e dunque ci si sarebbe confrontati, al solito, con una cittadella sperduta, il saloon, lo sceriffo, la belloccia accanto allo strimpellatore al pianoforte, il Giudice con casa vicino al serbatoio, il becchino e, infine, il cacciatore di taglie, ovvero l’eroe.

Nella Piazza già ci si era posizionati sotto il telone e le sedioline trionfavano anche se lo stare lì sopra collocati non che fosse una scelta saggia soprattutto per chi doveva confrontarsi con articolazioni scricchiolanti. Alcune sedie vere s’avvistavano sotto il lungo muro che partiva da Laurino e giungeva sotto le finestre di Flavio. Qualcuno s’appoggiava all’orlo della fontana ma era una postazione provvisoria perché la macchina della proiezione ostruiva un poco la vista. Di lì a poco si sarebbero spostati in avanti, accanto al palco. Coloro che erano tornati dall’estero trionfavano con il loro abbigliamento pratico, lucente, anche sintetico che intendeva comunicare come un’idea di successo. La loro Nikon era sempre pronta: si preannunciavano scatti memorabili anche di notte. Chi aveva scelto il palco aveva avuto un’ottima idea molti stavano seduti sul ripiano e avevano le mani aggrappate alle colonnine di legno.

L’odore persistente di noccioline di cui s’impregnava la casa di Flavio grazie al venditore sottostante giungeva fin quasi al casamento di Cesare. Mai una protesta da parte di Flavio, mai uno sguardo risentito. Oh, non l’avrebbero capito! E inoltre lui, da signore, non sarebbe mai sceso in polemica perché finire in contrasto con qualcuno voleva dire, soprattutto,  mancanza di stile. Da parte loro i tenutari delle bancarelle osavano i resoconti di quella giornata e le esultanze, al pari delle delusioni, avvenivano in quello spazio di allineate preziosità illusorie.

Nella Congrega le statue erano allertate per le processioni dei giorni seguenti: le sbeccature sul manto di San Franco e di San Rocco non sarebbero state notate sotto il sole anche perché tutti i fedeli sarebbero stati presi dal momento emotivo, dal coinvolgimento interiore.

Un uomo risaliva da dietro la chiesa (provenendo da dove?) e attraversava tranquillo la Piazza non provando un po’ di soggezione per quel transitare “anarchico”, inerpicandosi poi per la “Strada Ritta” con l’idea di trasmettere ai presenti la sua distanza da tutti i festeggiamenti.

A proposito della “Strada Ritta”: Maria Spennati, relazionava la sorella Francesca su chi s’avviava nella Piazza, spiegazioni analitiche con una glassa di moralismo, giustissimo. Dunque, neppure alla “Marchette” sfuggiva quanto si stava per verificare in quel fatidico 13 agosto. Maria appoggiata al davanzale d’una finestra già notevolmente annerita e Francesca subito dietro ad immaginarsi quanto la sorella mandava a dire. Veder sfilare le persone era anche un modo per fare i conti con la propria vita, stilare resoconti, fino all’estremo sospirare: «Addì que ha venute!». S’istruiva così in quel tratto di Assergi una “diretta” e anche in quel caso (pensavo) sarebbe stato bellissimo stare nascosto da qualche parte in quella casa ed ascoltare i dialoghi delle “Marchette”, il botta e risposta che chiariva molto di quelle due esistenze. Un miracolo poi sarebbe stato seguire il loro congedarsi da quel giorno e avviarsi al letto. Una Maria impeccabile avrebbe aiutato Francesca ad indossare gli indumenti per la notte e poi a facilitarle la distesa sul letto. A quali incredibili racconti ed immagini non ebbi accesso! Il mio racconto sarebbe stato molto più intenso e con esposizioni veramente metafisiche.

Lucrezia e Giacinta custodivano il loro vicolo gioendo per il loro essere ancora comprese nello scenario della vita. Distanti dalla festa, distanti da tutto.

Richetto di Ferracc appariva alla casa di Giovanni De Luca e Costanza ma si trattava d’una sortita d’attimi e subito s’incamminava verso casa.

Esenti da festeggiamenti anche il Maresciallo e Mariannina, come pure le sorelle Si Carlone, che in solitaria fissavano il cielo stellato rincuorandosi malgrado la loro tristezza senza ritorno.

Paolina osava delle sortite in Piazza, in vero si trattava d’autentici blitz ed il suo  borbottare s’annunciava già dalle scale della Zagotta.

Franala neppure puntava l’inizio del vicolo per guardare verso giù, per accertarsi su che cosa s’andava componendo.

Confluivano nella Piazza da ogni parte, m’incuriosiva chi discendeva il vicolo che aveva inizio dalla casa di Ercolino di Fiorone.

Chi disertava la festa era la famiglia di Checco, Ercolino, Antonio, Maria Silvestro e Marietta. A ben dire, avevano altro cui pensare in quella casa dove tutto rimbombava, dove la saggezza era in mano ad Antonio e Maria e dove non c’era spazio per le fantasie. Ma alla Messa sarebbero stati degnamente rappresentati da Antonio che, alla processione, s’incollava anche una piccola croce.

Mia nonna ogni tanto m’appariva nella mente, e la sensazione che avevo era che mi stesse chiamando per un aiuto.

Poi partiva il film, tutti si quietavano ed io con tutto quello che avevo visto, pensato e immaginato ero già esausto ed il mio lungometraggio interiore l’avevo attraversato egregiamente: vista la vita, osservate le persone. Mi pareva inutile rimanere lì.



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