IL MIO PRIMO GIORNO DI SCUOLA E LA GEOGRAFIA DEL CUORE - di Giuseppe Lalli

IL MIO PRIMO GIORNO DI SCUOLA E LA GEOGRAFIA DEL CUORE

 

                                       di Giuseppe Lalli

 

Il ricordo del primo giorno di scuola, quando le scuole si riaprivano il 1° ottobre, me lo porto dietro come si porta nel portafoglio un vecchio santino che ogni tanto, quando meno te lo aspetti, ti spunta tra le carte, logoro ma ben custodito, e si accarezza con lo sguardo e si ripone con cura.

Mi rivedo per mano a mia madre, con una vecchia cartella di cuoio, dono di parenti generosi, più grande del necessario, come se mi dovesse bastare per una lunga carriera. Dentro la cartella sguazzavano quaderni, matite e pastelli alla rinfusa.

La scuola era in un edificio ricavato in un vetusto convento di frati francescani, fuori le vecchie mura di cinta del villaggio, un antico castello medievale di cui si conservavano – e ancora si conservano – due delle porte di accesso. Le poche centinaia di metri che percorsi quel primo giorno per recarmi a scuola furono una piccola marcia trionfale: tante persone, soprattutto donne anziane, mi facevano gli auguri, come se avessi vinto ad un concorso e mi accingessi a ricevere il premio.

Ebbi la chiara coscienza che per me cominciasse la vera vita, l’inizio di una sfida da lungo tempo attesa.

Un po’ di rimpianto nello staccarmi da mia madre e subito, tra il confuso via vai di mamme e di maestre e dopo aver attraversato un piccolo mare di grembiulini neri e nastri blu, mi ritrovai in una piccola aula che sarebbe stata la stessa per tutti e cinque gli anni del corso.

Presto scoprii che la nostra classe era poco numerosa: nove in tutto, tre femminucce e sei maschietti. Mancava all’appello una bambina di nome Teresa, che era da poco emigrata in Australia con la famiglia, mentre un altro bambino, che come me si chiamava Peppino, sarebbe di lì a poco partito in America (erano gli ultimi scampoli della seconda ondata migratoria, quella del secondo dopoguerra).

Avrei pensato spesso negli anni a venire a questi due miei mancati compagni di scuola: dove saranno ora? - mi sarei chiesto -, come è stata la vita con loro? Il fatto che fossero emigrati era poi per me un motivo in più perché mi stesse a cuore la loro sorte, giacché anche io ero candidato ad emigrare: una piccola geografia del cuore che è tornata spesso a visitarmi...

Mi è caro anche il ricordo di quello che nei primi giorni fu il mio compagno di banco e che è venuto a mancare prematuramente. Si chiamava Franco Graziani, un bambino di buon carattere, semplice, e con una grande capacità di stupirsi, soprattutto nell’udire dalla voce della maestra i racconti del libro di letture, che in quel primo anno era quello scritto da Leone Tolstoy, il grande visionario russo che alla metà dell’Ottocento aveva fondato nella sua tenuta una scuola per i figli dei suoi contadini.

In seconda classe avremmo poi trovato, di un anno più grande di noi, Domenico Giannangeli, un ragazzino di cui apprezzavamo la vitalità e l’intraprendenza nell’organizzare i più vari giochi all’aria aperta, in quell’età in cui la vita appare spensierata e piena di aspettative. Domenico, morto in ancor giovane età, mi ha sempre ricordato Rosso Malpelo, quel ragazzo di un racconto di Giovanni Verga che sotto una piccola scorza di durezza dipinta nel viso nascondeva una grande umanità.

La maestra, ancor giovane e assai graziosa, si chiamava Irma Castri in Vespa. Qualche anno dopo avremmo scoperto che era la madre di un ragazzo assai bravo a scuola e che aveva cominciato molto presto a scrivere su un importante giornale del capoluogo. È da decenni un noto volto televisivo, e deve esserci molto debitore delle preghiere che la signora Irma ci faceva recitare per lui ogni volta che doveva affrontare un esame universitario. 

I banchi erano ancora di legno e si scriveva con un pennino intinto nell’inchiostro liquido, una lavagna nera era in un angolo della piccola aula, a lato della cattedra, anch’essa di legno, e un buon odore di gesso si effondeva in tutta la stanza.

La prima lezione di quel primo giorno, dopo le presentazioni, consistette nel tracciare con la matita delle aste sulla prima pagina di un quaderno a quadretti. In questa prima prova fui poco brillante (il disegno non è mai stato il mio forte). Fu nei giorni che seguirono, a contatto con le prime letterine dell’alfabeto, che cominciai a sentirmi a casa mia, e da quella casa ...non sono più uscito.

 



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