SAN FRANCO D’ASSERGI: LA STORIA E LA LEZIONE - di Giuseppe Lalli

Oggi, 5 giugno, giorno in cui da tempo immemorabile ad Assergi si festeggia San Franco, patrono del paese, riproponiamo uno scritto di Giuseppe Lalli pubblicato nel 2021 nel libro “Pagine di religiosità aquilana”. (a.g.)

 

SAN FRANCO D’ASSERGI: LA STORIA E LA LEZIONE                                                            

- di Giuseppe Lalli -
 

Nei primi secoli dell’era cristiana, in quell’affascinante stagione della storia che chiamiamo ‘Medioevo’, poteva accadere che in questi luoghi solitari e remoti dell’Appennino, alcuni giovani, magari provenienti da famiglie gentilizie come Benedetto da Norcia (480 c.ca-547), giovani assetati di assoluto, sentissero il bisogno di unirsi per condurre vita comune nella pratica della nuova religione del Dio incarnato. E così fondavano un monastero. Più tardi, attorno al monastero cominciavano a stabilire le proprie dimore i montanari dei dintorni, e si iniziava a disboscare e dissodare le terre circostanti. E infine si costruiva la chiesa, che diventava punto di aggregazione comunitaria, liturgica e civica, di quell’uomo medievale che era – per così dire – unitario, non “schizofrenico” come quello moderno.

Qualcosa del genere è potuta accadere anche in questa nostra contrada, dove, per una di quelle singolari circostanze che chiamiamo coincidenze e che forse dovremmo chiamare ‘Dio-incidenze’, in uno stesso torno di tempo è nato un castello, quello di Assergi, una chiesa, il nucleo dell’attuale chiesa parrocchiale di Assergi, e, in una non lontana contrada, un uomo, il futuro San Franco, che a questo a questo castello e a questa chiesa ha intrecciato il suo destino, in vita e dopo la morte.

Le notizie su San Franco ci vengono quasi tutte dagli Atti, che sono l’antico manoscritto latino che fu conservato nella chiesa parrocchiale di Assergi fino al 1791 e poi andato perduto. Nicola Tomei, (1718– 1792), che di Assergi fu preposto dal 1742 al 1764 e che al paese e al culto del suo santo dedicò una interessante Dissertazione, pubblicata l’anno prima della sua morte, descrive il documento come un piccolo codice membranaceo scritto in carattere antico abbastanza intellegibile, con lettere iniziali miniate, contenente la vita, morte e miracoli di S. Franco.

Il Tomei assegna il manoscritto agli ultimi decenni del secolo XIII (a differenza di qualche altro studioso, che lo colloca in età posteriore, comunque non al di là dei primi decenni del secolo successivo) e crede che si tratti della stesura primitiva o di una copia ricavata da essa. Pensa altresì che lo scritto debba attribuirsi ad un monaco o a un prete di Assergi, contemporaneo del santo, che aveva inteso tramandare avvenimenti a cui aveva assistito o che aveva udito raccontare da chi ne era stato testimone. Si deve quindi ritenere che ci troviamo di fronte a un testo scritto quando il santo era morto da poco. Oltre a quella riportata dal Tomei nella  richiamata Dissertazione, di versioni degli Atti ne esistono altre tre: una, riportata dai Bollandisti, redatta dal gesuita Antonio Beatillo (1570-1642), a cui il Tomei muove puntuali critiche di ordine filologico, e altre due, curate dallo studioso benedettino Costantino Caetani (1568-1650), custodite nella Biblioteca Universitaria Alessandrina di Roma. Pur presentando queste quattro versioni alcune varianti grammaticali e sintattiche, oltre che nell’estensione della narrazione riferita ai miracoli attribuiti al santo post mortem, esse sostanzialmente concordano nel testo, e si possono persino disporre in lettura sinottica, come del resto ha fatto nel suo fondamentale libro Assergi e S. Franco (Roma 1980) Demetrio Gianfrancesco (1922–2004), che di Assergi fu parroco esemplare dal 1954 al 1976, nonché storico rigoroso.

Che cosa ci dicono questi Atti?

Franco nasce all’inizio della seconda metà del XII secolo, allorché la dominazione normanna nell’Italia meridionale volge al declino. L’anonimo biografo non riporta la data di nascita, ma ci fornisce, in relazione ad essa, dei riferimenti storici, tra i quali il più stringente è quello relativo al papato di Adriano IV (4 dicembre 1154 – 1°settembre 1159) : 4 anni e circa nove mesi in cui si deve collocare, quindi, la nascita del santo. Nessun dubbio invece sul luogo: Franco nasce a Roio (Castellum de Roge o anche Pagus ruìdus, come si legge in alcuni antichi documenti), nell’attuale frazione di Roio Piano, che al tempo faceva parte, al pari di Assergi, della diocesi di Forcona, antica città romana che era sita nei pressi dell’attuale Civita di Bagno. Ancora oggi, a Roio Piano, in un edificio una lapide apposta sul muro ricorda che quella era la casa natale di San Franco.

Franco nasce da un’agiata famiglia di allevatori, e mostra ben presto di essere un ragazzo intelligente e virtuoso. Il padre lo affida alle cure del prete Palmerio affinché gli dia i primi rudimenti. Nell’animo del ragazzo matura assai presto la vocazione religiosa, e un giorno in cui un suo fratello maggiore, forse mosso da invidia, lo costringeva a pascolare le pecore, fugge e bussa alla porta del monastero benedettino di San Giovanni in Collimento, a Lucoli. Qui, resistendo alle insistenze dei genitori che volevano che tornasse a casa, completa gli studi e conduce per vent’anni una esemplare vita di monaco, rifiutando, alla morte dell’abate, di sostituirlo alla guida della comunità, nonostante la volontà espressa dai monaci.

Spinto da un desiderio di perfezione maggiore, una notte, scambiato un commosso abbraccio con i suoi compagni, prende congedo da loro e si rifugia dapprima in una grotta vicino ai boschi di Lucoli e poi, sfuggendo ai tanti devoti che, spinti dalla fama che presto si diffonde delle sue virtù e dei suoi prodigi, desiderano incontrarlo, vaga dalle parti di Montereale, per poi raggiungere un luogo remoto sopra il territorio del Vasto, dove miracolosamente fa sgorgare una sorgente d’acqua pura e dove rimane per cinque anni. Ma nemmeno questo, a lungo andare, gli pare posto adatto alla sua esigenza di solitudine. Molta gente va a fargli visita, e allora si sposta verso i monti sopra Assergi, sistemandosi in una spelonca sotto una rupe. La tradizione ha identificato in una grotta sotto le rocce di Pizzo Cefalone e in un’altra più in basso detta “I Peschioli” i due eremi dove l’eremita trascorse i suoi ultimi quindici anni, conducendo vita austera e compiendo molti miracoli. Scendeva a valle solo nei giorni festivi per assistere alla messa nella chiesa di Assergi e ricevere i sacramenti dai monaci del contiguo monastero.

Quando Franco rende l’anima a Dio, le campane della chiesa di Assergi suonano da sole; i monaci, insieme a tutto il popolo, svegliati e commossi, vedono una luce che promana dalla grotta dell’eremita e intuiscono ciò che è accaduto. Raggiungono l’eremo. Canti e lacrime si confondono, depongono devotamente in una barella il corpo che odora soavemente e lo trasportano a valle. Più che un corteo funebre dovette trattarsi di una piccola marcia trionfale. Possiamo immaginare che il corteo entra nel castello di Assergi e si dirige verso la chiesa. Nella cripta vengono tumulate le spoglie mortali di colui che per il popolo è già santo. Dopo qualche tempo le ossa verranno estratte e sistemate in una cassa di pietra andata perduta e della quale si conserva il solo coperchio, dove è scritto in latino: Qui riposa il corpo di Franco(ne), sacerdote di Dio, 5 giugno.

Il culto popolare inizia subito dopo la morte. Il vescovo di Forcona dovette ben presto approvare le manifestazioni spontanee dei fedeli; e così San Franco ebbe il suo altare, la sua ufficiatura e la sua festa liturgica.

Giova osservare, a questo proposito, che nell’epoca di cui si parla il riconoscimento della santità demandato al papa, ancorché fosse già iniziato, e nonostante che Gregorio IX, inserendo nel 1234  tra i suoi decretali il breve Audivimus avesse inteso estenderlo alla chiesa universale, non si fosse ancora consolidato nella prassi ecclesiale, come documenta Nicola Tomei in una interessante pagina della sua richiamata Dissertazione, e come conferma André Vauchez, il più insigne studioso contemporaneo della santità medievale.

Non si è autorizzati a pensare che quella locale, affidata cioè alla diocesi competente, fosse una prassi sbrigativa nella quale il vescovo si limitasse a sancire automaticamente il fervore popolare. Al contrario, si trattava di un procedimento assai rigoroso. Anche se la “vox populi” era considerata un indizio importante, l’approvazione del vescovo non era affatto scontata.

La fama di santità dell’eremita del Gran Sasso si diffonde assai presto e oltrepassa gli stessi confini della regione. Attualmente si festeggia nei paesi che furono toccati dalla sua biografia: Roio, naturalmente, il suo paese natale, Lucoli, nella cui abbazia visse per vent’anni, Arischia, il cui territorio è vicino all’Acqua di S. Franco, Ortolano, frazione di Campotosto la cui chiesa parrocchiale è intitolata al santo eremita; ed è poi protettore, oltre che di Assergi, di una  piccola frazione di Isola del Gran Sasso, Forca di Valle, dove –  particolare curioso – il santo è rappresentato non come un attempato monaco con la barba, come vuole l’iconografia tradizionale, ma come un giovane pastore, a significare forse che la santità è un’eterna giovinezza.

Richiamare questi dati storici non è inutile pedanteria, mostra piuttosto che la vicenda di questo santo, ancorché assai lontana nel tempo, sia pure con qualche incertezza temporale e inesattezza che si riscontra negli Atti in riferimento al contesto storico-politico, è storicamente attendibile. Inoltre, essa è inquadrabile in un preciso contesto religioso e in una determinata geografia spirituale.

Quella di San Franco è certamente una storia originale, ma niente affatto isolata.  Meglio si comprende alla luce di un fenomeno, a cui di seguito si accennerà nei suoi caratteri fondamentali, quello dell’eremitismo che caratterizzò il Basso Medioevo, tra l’XI e il XII secolo, che interessò l’Italia e l’Europa, e che avvenne all’interno di un più generale movimento di rinnovamento spirituale. Ciò accadeva in un contesto sociale caratterizzato da una forte crescita economica e da una intensificazione dei rapporti commerciali.

Legato a questo contesto, un particolare colpisce della biografia del giovane Franco. Egli è di buona famiglia. I suoi appartengono ad una classe che con terminologia moderna potremmo definire di piccola borghesia agraria, che vive di pastorizia e commercializzazione della lana. Franco, intelligente e sensibile, realizza ben presto che quello di una tranquilla esistenza di agiato possidente non può essere il suo ideale di vita. Egli chiede alla vita un senso. C’è, da parte sua, una richiesta di senso nella quale si può scorgere anche una larvata protesta nei confronti di una certa ipocrisia di una società che già mostra i segni dell’opulenza, a cui Franco oppone la scelta della radicalità cristiana, un atteggiamento analogo a quello che sarà del coevo Francesco d’Assisi, (1181/82-1226), sia pure declinato in forme diverse.   

Viene da pensare a quella rivoluzione giovanile degli anni ‘60. C’è da credere che, mutatis mutandis, dietro slogan e atteggiamenti di rottura radicale, ci fosse in gran parte di quei giovani una richiesta di senso, un’esigenza di assoluto che classi dirigenti più sensibili e una chiesa post conciliare meno distratta avrebbero potuto cogliere ed intercettare. Il proiettile sparato in alto, se non trova sfogo, rimbalza sulle pareti e finisce per ferire chi lo ha sparato...

A partire già dalla fine del X secolo, e in modo particolare tra l’XI e il XII, come si diceva, l’età in cui vive Franco, in un contesto religioso percorso da fermenti di rinnovamento evangelico cui non sono estranee attese di tipo apocalittico, alla crisi del monachesimo tradizionale corrisponde una rinnovata fioritura spirituale, che si manifesta, da un lato, in forme più o meno organizzate che presto verranno inquadrate nei grandi Ordini Mendicanti (i Domenicani e i Francescani, per citare i più famosi); dall’altro, in forme libere e individuali, come è il caso del nostro eremita.

Questo eremitismo per così dire  della seconda ondata differisce da quello dei primi secoli dell’era cristiana in più di un punto. Se quello antico si caratterizza per la ricerca del deserto (prevale la fuga dal mondo), quello medievale, che è profondamente segnato dalla prevalenza della regola monastica di San Benedetto, tende ad ad armonizzarsi con il contesto sociale. La vicenda di Franco, a saperla leggere, è intrisa di questa socialità. Dagli Atti traspare abbastanza chiaramente come in Franco la fuga dal mondo convive, sia pure in maniera problematica, con l’apertura al mondo. Vediamo che Franco da un lato non si sottrae al rapporto con quanti lo cercano, dall’altro cerca sì di isolarsi, ma è un isolamento che è

dettato dall’esigenza di mantenere la pace interiore sulla punta dell’anima ed è finalizzato ad attingere da un rapporto più intenso con Dio la forza per abbracciare tutto e tutti.

Un’altra differenza tra questo eremitismo e quello antico attiene ad un aspetto all’apparenza pratico, ma che ha conseguenze anche di ordine spirituale: mentre gli anacoreti dei primi secoli sono dediti alle attività manuali, con le quali si procacciano il necessario per vivere, quelli del tempo di Franco vengono assai spesso riforniti dai devoti. L’eremita, al contrario del cenobita, diventa in questa età una figura familiare, perché incontra la gente: la vita contemplativa non esclude le relazioni umane. Franco ci appare tutt’altro che un misantropo. Se fosse stato un misantropo, o un asociale, i monaci di Lucoli non lo avrebbero preferito come loro capo; e quando ha preso commiato dai suoi confratelli li ha abbracciati con le lacrime agli occhi. È anche uomo colto: alla scuola del prete Palmerio – leggiamo sempre negli Atti – si distingue per capacità di apprendimento e una volta entrato nel monastero completa colà la sua formazione. Altro che «il povero di spirito toccato dalla Grazia», come lo scrivente, da bambino, sentiva dire nella chiesa di Assergi da qualche fraticello che veniva a predicare il 5 giugno alla festa di San Franco.

C’è da supporre – come suggerisce un valente studioso aquilano – che Franco sia stato un attento e curioso osservatore di un panorama sociale e ambientale che stava mutando. Basti pensare a quell’importante fenomeno della transumanza che in quello scorcio di tempo vide una vera e propria reviviscenza.

Girovagando tra queste montagne, magari alla ricerca di frutti di bosco, avrà sicuramente esercitato l’apostolato occasionale. Quante liti tra pastori avrà sedato; quante dispute tra piccoli proprietari, magari per questioni di confini, avrà composto; quanti consigli a vecchi e a giovani nei quali si sarà imbattuto, avrà dispensato; e quanta paziente direzione spirituale avrà  esercitata anche tra i suoi stessi confratelli del convento di Assergi, che lo avranno considerato un fratello maggiore, un compagno impegnato su una sorta di prima linea dello spirito. Avrà perfino, di tanto in tanto, accettato di mangiare un pezzo di pane e un po’ di pecorino con i pastori.

Sarebbe tuttavia fuorviante giudicare la vicenda di Franco con le sole categorie umane. Gli stessi miracoli, che spesso ci parlano di un ritrovato equilibrio tra l’uomo e la natura, servono all’uomo di Dio a mostrare “i nuovi cieli e le nuove terre”, cioè l’anticipo di ciò che attende una umanità riconciliata, nella Grazia, con la natura; oltre che e a far vedere ciò che doveva essere il mondo prima che il peccato intervenisse a rompere l’equilibrio che Dio aveva stabilito. Al tempo stesso Franco mostra come la natura stessa sia un miracolo permanente per chi la voglia vedere con gli occhi della fede: il grano che cresce, l’acqua che scorre, gli alberi che danno frutti.

Un’altra sollecitazione ci viene da questo Medioevo degli eremiti: il valore di quella condizione esistenziale così estranea alla mentalità odierna, vale a dire il silenzio: il valore del silenzio in un mondo che ha fatto della parola, anzi della chiacchiera, la sua nota dominante. Siamo così sommersi dalle parole che in ogni capoluogo di provincia è stato eretto un monumento alla chiacchiera: il Palazzetto dei Congressi. Se ci prendessimo la briga di fare una ricerca su ciò che si dice in questi luoghi, anche in riferimento alle comunicazioni scientifiche in senso stretto,, concluderemmo che le effettive “informazioni” rappresentano una percentuale bassissima: tutto il resto è chiacchiera, laica liturgia della parola, diplomazia comunicativa, pubbliche relazioni; quando non è autoincensamento dell’“io”, vaniloquio o sprezzante faziosità.

Eppure, per poco che rientriamo in noi stessi, ci accorgiamo che prima di ogni parola sensata c’è il silenzio, e che dietro ogni idea degna di questo nome c’è un pensiero coltivato, accarezzato nella quiete dello spirito. Sappiamo per esperienza che in ogni rapporto interpersonale emotivamente intenso i momenti di silenzio superano di gran lunga quelli della parola. Il silenzio fa parte della struttura costitutiva dell’essere umano, come ci insegnano i grandi pensatori di ogni tempo. Franco, questo silenzio, lo ha coltivato, fino a farsi abitare dall’Assoluto, e solo dopo ha parlato al lupo, che gli ha obbedito, e ha gridato all’albero che si stava schiantando sul boscaiolo e l’albero si è fermato a mezz’aria.

Come si accennava all’inizio, Assergi e San Franco sono stati per molto tempo un binomio inscindibile. Nicola Tomei scrive che « rare sono le persone del paese, ch’entrino in Chiesa, e non calino a venerare il Santo ». Nel secondo dopoguerra, quando gli emigranti partivano, chiedevano al parroco, come viatico, una messa «a cascia aperta», cioè celebrata nella cripta tenendo aperto il coperchio della cassapanca contenente le reliquie di San Franco. Alla fine della celebrazione veniva fatta baciare la reliquia del braccio del santo, a protezione dalle insidie che coloro che partivano avrebbero potuto incontrare in terra straniera.

Tra tutti i miracoli che si ricordano negli Atti, uno, tra quelli registrati subito dopo la morte, a me che scrivo appare il più toccante, e quello che meglio descrive il valore della santità. L’ho sentito per la prima volta dalle labbra  di mia nonna quand’ero bambino.  Si trova nella Lectio VII degli Atti.

Si racconta che un uomo di Assergi di nome Tommaso di Giacobbe uscì di casa in pieno giorno per condurre le vacche e le pecore al pascolo nel bosco. Il figlioletto, di nascosto dalla madre, prese la stessa strada dove aveva visto incamminarsi il papà, ma ad un certo punto, perso l’orientamento, si inoltrò nel fitto della vegetazione del bosco. Vagò per tutto il giorno e alla sera, stanco e in lacrime, vinto dal sonno, si addormentò. A sera Tommaso, rincasando, chiese alla moglie dove stesse il bambino, e si sentì rispondere che essa era convinta che stesse col lui. Poiché non riuscivano a trovarlo, chiamarono i parenti e i vicini e, torce alla mano, andarono a cercarlo, ma inutilmente. I genitori cominciarono a temere che, avventurandosi nel bosco, il bimbo fosse stato divorato da bestie feroci. In preda alla disperazione, si recarono in chiesa a supplicare il santo davanti al suo sepolcro chiedendogli la protezione del figlioletto. Di buon mattino, ripresero le ricerche nel bosco e...quale non fu la loro gioia quando videro il bimbo sano e salvo. Dopo averlo riabbracciato, gli chiesero come avesse trascorso la notte. Il bambino rispose che un monaco, a tarda ora, lo aveva svegliato, gli aveva dato pane e formaggio e gli era stato vicino per tutta la notte. Poi, sul far del giorno, lo aveva condotto nel posto dove lo avevano ritrovato dicendogli di non aver paura perché i genitori stavano venendo a prenderlo. Dopodiché il monaco era scomparso.

Che dire? Qui ci troviamo di fronte all’irrompere del soprannaturale nella vita ordinaria. Storie simili si sono sentite raccontare anche ai nostri giorni da persone credibili in riferimento a un altro frate, che sembrava venuto direttamente dal Medioevo: Padre Pio.

Questo miracolo di San Franco ci mostra che il soprannaturale non è lontano da noi, anche se non lo vediamo, come non vediamo l’aria che respiriamo e il sangue che scorre nelle vene: il Cielo si chiama così non perché sta in alto, ma perché si cela ai nostri occhi, come lo scrivente ha spesso sentito dire da un altro frate,  Padre Quirino Salomone. Si dirà che siamo creduloni. Forse! Ma siamo in buona compagnia. Recentemente Vittorio Messori, un giornalista e storico dal passato tutt’altro che da credulone, ha pubblicato un piccolo libro dal titolo “Quando il Cielo ci fa segno”, nel quale riferisce di episodi (uno dei quali capitati a lui stesso) su cui ha condotto un’indagine rigorosa e per i quali mostra che non c’è altra spiegazione ragionevole rispetto all’esistenza di una “dimensione altra”che di tanto in tanto si manifesta.

A conclusione di queste modeste riflessioni, rimanendo sul tema delle manifestazioni del soprannaturale, mi piace riportare la testimonianza di Henry Bergson (1859-1941), originale figura di filosofo e scienziato francese vissuto tra l’Ottocento e il Novecento, studioso, tra l’altro, dei problemi della psicologia; anche lui tutt’altro che credulone. Della sua straordinaria esperienza ci riferisce il suo ultimo discepolo, Jean Guitton (1901-1999), morto a Parigi quasi centenario poco più di vent’anni fa: un racconto che vale da solo più di un trattato.

Siamo nel 1905, Bergson, di origine ebraica, interessato al fenomeno religioso ma non praticante, sta ultimando un importante saggio sull’evoluzione dell’universo, ma non riesce ad andare avanti. È colto da tensione, emicranie, stanchezza, senso di vuoto. Un giorno in cui il disagio si era fatto più acuto, dirigendo lo sguardo fuori della finestra del suo studio, gli pare di vedere una grande luce. A questo punto crede di stare impazzendo, di essere vittima, lui studioso dei fenomeni paranormali, di una sorta di allucinazione. È in preda a questi pensieri, quando nella stanza entra la sua figlioletta di nove anni, Jeanne, che gli grida: «Papà, papà! Ero in camera mia, ho visto una luce, qualcosa nella luce, papà, non ho mai visto niente di così bello!». Il padre tira un sospiro di sollievo e le dice: «Bambina mia, non farne parola con tua madre: non capirebbe. Ma sappi che io ti credo perché...perché ho appena visto la stessa cosa».             

Presto torna il sereno nella sua anima, riprende il lavoro e ultima il saggio. Ma il ricordo di questa esperienza lo seguirà per tutta la vita, e quando, venticinque anni dopo, nelle ultime pagine del suo capolavoro, Le due fonti delle religione e della morale, uno dei più grandi saggi che siano stati scritti nel Novecento, passerà in rassegna tutti i fenomeni parapsicologici, parlando di quelle manifestazioni che non trovano una spiegazione naturale plausibile, scrive queste memorabili parole:

« Supponiamo che un chiarore di quel mondo sconosciuto giunga fino a noi, visibile agli occhi del corpo. Quale trasformazione (avverrebbe) in questa umanità abituata di solito, checché se ne dica, ad accettare come esistente solo ciò che vede e ciò che tocca! L’informazione che ci arriverebbe[...]riguarderebbe forse[...]l’ultimo gradino della spiritualità. Ma tanto basterebbe a convertire in realtà viva ed operante una credenza nell’aldilà che sembra essere presente nella maggior parte degli uomini, ma che molto spesso appare verbale, astratta, inefficace. […]. Per capire quanto conta, basta guardare come ci buttiamo nel piacere: non  ci terremmo tanto se non vedessimo in esso...un mezzo per esorcizzare la morte. In verità, se fossimo certi, assolutamente certi, di sopravvivere (alla morte del corpo) non potremmo pensare ad altro. Il piacere sarebbe eclissato dalla gioia ».

Queste parole luminose di speranza sono anche il succo del presente modesto scritto.

Franco rinuncia ai piaceri che gli avrebbe garantito una tranquilla esistenza di agiato proprietario per inseguire, dapprima  in un monastero benedettino, poi in un eremo tra le montagne del Gran Sasso, la gioia profonda: “Nomade della speranza e pellegrino dell’assoluto”, come lo ha definito con felice espressione l’amico Giacomo Sansoni in un suo recente  scritto, oltre che, come suggerisce lo scenario in cui si svolse l’ultima parte della sua vita, silenzioso cultore della nuda poesia del Creato.

Senza questa “follia”, lucidamente perseguita e così scandalosamente lontana dalla nostra mentalità, non si capirebbe né la vicenda di questo eremita, né la santità cristiana che si esprime in ogni tempo e in ogni latitudine.

VI RIPROPONIAMO LA PROCESSIONE DI SAN FRANCO DEL 2009

P.S.: Un tempo, la mattina del 5 giugno, in onore di San Franco si sparavano due colpi, sia ad Assergi che a Forca di Valle. Adesso si può solo "sparare" un articolo di Peppe Lalli...(a.g.)

Giuseppe Lalli ci fa sapere che: "E'  già tanto!"

 



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