Sogni d'oro con Galileo

(Da "la Repubblica") - Sarà troppo eretico? No, davvero, è il caso di chiederselo seriamente, nel pieno rispetto dei gusti altrui, ma anche in strenua difesa di chi ieri sera è uscito appesantito dall’”Itis Galileo” di Marco Paolini su La7.

Insomma, ci si domanda senza alzare la voce: è veramente troppo acido, e insolente, sostenere che due ore e mezza di monologo teatrale di Paolini, in televisione, sono il manifesto programmatico della noia postmoderna, e della presunzione di un affabulatore che approfitta del suo stesso karma e carisma, per costringere i telepenitenti a una dura lotta contro il sonno, e contro l’umana (in)capacità di reggere con l’attenzione?

E già che ci siamo, e che nell’aere ancora scorre calda la narrazione paoliniana della vita di Galileo Galileo, matematico e fisico e astronomo e in sintesi padre della scienza moderna, non sarà forse l’occasione buona -educatamente, s’intende, e con migliaia di ipocriti punti di domanda- per buttar lì il sospetto che questo one-man-sleep non sia poi tanto un continuatore in chiave d’impegno civile delle meraviglie artistiche del mago Fo, o di quel manipolatore di eufonie chiamato Carmelo Bene, ma piuttosto un adepto della gigioneria, un formidabile imbonitore applicatosi al segmento della nostra vita che corre in bilico tra cultura e osservazione sociale?

Viene da porgerseli, questi quesiti eretici, perché parecchio non convince nello spettacolo trasmesso ieri sera dal ventre del Gran Sasso, all’interno dei celeberrimi laboratori di fisica nucleare; a partire proprio dal modo in cui Paolini e La7 hanno sfruttato la possibilità di riprendere questo cuore tecnologico e terragno assieme, in teoria fonte di simbologia e fascino, ma di fatto percepito da casa come quinta statica di cui s’è intuito poco, perché sempre e comunque -nella dittatura monologare- le telecamere erano fissate su di lui:

Paolini Marco, trascinatore e despota di un pubblico in sala -o meglio: in laboratorio- che per una sera era costituito da ricercatori scientifici, e che sempre per una sera indossava caschetti di sicurezza gialli, e che per giunta aveva fissa in volto quell’espressione un po’ così che abbiamo noi che siamo andati in tv, e dunque ci sentiamo tanto onorati -a prescindere- di assistere alla lezione di un teatrante di fama.

Il quale, per la cronaca, si è lanciato nella non piccola impresa di ricostruire tutte le tappe dell’esistenza galileiana (1564-1642): meravigliosamente eretica -quella sì, davvero- nella sua difesa del verbo copernicano. Salvo poi, molto italianamente, abiurare, e poi altrettanto italianamente abiurare di fatto l’abiura.

Un blobbone paraintellettuale in cui, con sistematico snobismo travestito da divulgazione amica, l’attor campione ha alternato folgori di aristotelismo spiccio a citazioni platoniche, attraversando i diktat tolemaici fino all’amara sorte kepleriana, segnata da intuizioni brucianti ma anche da una morte in disgrazia.

Come dire: una rinfrescata scolastica di cui, senza tutto questo rimescolio nozionistico, avrebbe tranquillamente potuto farsi carico il solito nonno Angela, o magari anche suo figlio Alberto, pasdaran entrambi della divulgazione pop, ma almeno immuni da pretese di gloria postuma.paolini_loc

Anche perché, aldilà dell’arte paoliniana di ruminare scienza e cultura, biografie e cronologie, reinventandole poi sotto forma di ipnotismo spettacolare, non è che il Marco Paolini Show sia stato immune da trucchetti acchiappa applausi. Anzi, pur di tener desto il pubblico, ha insistito a proporre il parallelo tra le (dis)avventure galileiane dell’epoca e i fatti stolti dell’oggi, rievocati con un doppio effetto:

da un lato l’induzione sporadica al sorriso (operazione riuscita, per esempio, quando Paolini ha sottolineato l’eterna propensione al dossieraggio ricattatorio), e dall’altro l’imbarazzo per lo stridore tra le intuizioni di Galileo e paradossi del tipo: «Ve lo immaginate papa Ratzinger che si confronta con Margherita Hack, come faceva Urbano VIII con Galilei?».

Certo, va riconosciuto, quando sul finire del teleminestrone le luci si sono abbassate, e Paolini con un fil di voce ha interpretato l’abiura galileiana dell’anno 1633, beh, sono stati minuti belli, e lucenti, perché il dolore e l’ingiustizia prevalgono su tutto e tutti.

Ma non è bastata, questa candela nella grotta, a far risplendere a pieno colui che avrebbe dovuto essere il fulcro della trasmissione: cioè appunto Galilei. Ha illuminato, piuttosto, le ambizioni del suo biografo, straordinario almanaccatore di idee ed episodi, ma non altrettanto efficace nell’amministrare la propria egolatria.



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