Roio Racconta (di Ciccozzi Fulgenzio)

Roio e Assergi, hanno tante cose in comune tra cui: San Franco, Don Osman già parroco di Assergi. Qualche ora prima del terremoto, tanti assergesi erano presenti nella chiesa di Roio Poggio, per assistere allo spettaco musicale a sfondo religioso: "Jesus, 7 giorni prima". Oggi ospitiamo nel nostro Blog una riflessione estiva toccante sul terremoto a Roio

di Ciccozzi Fulgenzio


In un torrido pomeriggio di mezza estate in via Aia San Lorenzo, località “Castellano” a Poggio di Roio, rimiro solitario la casa ed il luogo che ha visto crescere i miei figli, ancora riecheggiano i loro schiamazzi, l’insistente richiamo della madre apprensiva e dei nonni sempre attenti alla loro incolumità. Rammento la solarità con cui mia moglie si prendeva cura della casa, frutto delle quotidiane fatiche del padre, custodendola con zelo ed amore, lo squillante calpestio dei tasti del piano che rimbombavano tra le mura domestiche. L’attiguo forno sempre pronto, grazie alle sapienti pratiche della di lei madre, a magnificarci di prelibate leccornie, croccanti e teneri pani distribuiti a parenti e vicini. I due vegliardi bisnonni, seduti in compagnia accanto al camino, da me spesso spronati al racconto e a dispensare novelle sulla vita che fu. Le camminate domenicali attraverso i sentieri brecciati della Serra, incastonati tra muri di pietra che delimitavano antichi vigneti oggi ingombrati da vecchi alberi di mandorlo con forme bizzarre, comunque belli da osservare. Da qui mi inerpicavo per raggiungere la chiesetta di San Lorenzo, unico lascito dell’antico monastero celestino. Da dicembre dell’anno prima la terra sobillava. Si avvertiva un boato come un vento salire dalle viscere della montagna e traghettare sotto il terreno roccioso. Qualche mese dopo, un giorno di fine inverno, una falla si era aperta nell’aia sottostante (“capu l’ara”); segno premonitore! Là vicino, a pochi metri, trascorso qualche giorno: l’inferno. Erano le ore 3,32 del 6 aprile. Un borgo antico ci lasciò; ed in consegna solo il suo passato. Le due micro faglie evidenti sulla stessa piazzola (ovest-est, nord-sud) sono la firma crociata del passaggio dell’orco. Nei pressi della casa natia dell’amato cappuccino Padre Paolo Sfarra, si stava consumando una tragedia. Una donna in mezzo alle rovine abbandonava la vita nonostante gli immediati soccorsi di alcuni nostri compaesani. Già, questa non è una giornata qualsiasi, il sole declina verso il tramonto. Scendo giù per le Salere, accanto al fontanile da cui scorgo in lontananza “ ju palazzu ‘egli mechi”, almeno quello che ne è rimasto, corso Umberto è inaccessibile, travi e pietrame ne occludono l’accesso, muri di macerie rendono il centro del borgo irraggiungibile. Il cratere si distende fino alla settecentesca dimora di palazzo Palitti e su a salire fino a ricongiungersi, inerpicandosi a ridosso della “chiusa ‘egli Totani”, con la piazzola chiamata lo “largu”, oggi santuario del dolore. L’occasionale miagolio dei gatti in cerca di cibo è l’unico accenno di vita. Quindi fiancheggio l’abitato meglio noto come “n’Fatiatu” da cui, tempo addietro, partivano, sulla groppa dei somari, con un paniere, una fiasca di asprigno vino rosso e gli immancabili attrezzi, diretti nei fondi vicini, i nostri instancabili avi. Poi Vicoli, allungo per Viaro, le Fontane, ottocentesco lavatoio ed abbeveratoio, giungo in prossimità del mio paese natale: Roio Piano. Voglio percorrerne le vie. Un sole velato illumina debolmente i caseggiati diruti. Sulla destra la dimora infartuata del defunto zio Monsignor Pastorelli, per tutti semplicemente Don Virgilio, persona erudita fortemente legata al suo paese, roiano ancorché alto prelato. L’ingresso del borgo, via Cavour, Roio Piano da il benvenuto ad uno dei suoi figli. Il paese ferito si lascia guardare, in silenzio, con il dovuto rispetto e comprensione che si deve ad un padre che nel momentaneo abbandono chiede di essere aiutato ed assistito. Non più il vociare della gente, lo scoppiettare dei motori ma è lo stridolio dei cardini delle finestre, mosse da una leggera brezza, che accompagna il mio breve percorso. Un’aria grève aleggia intorno a queste case e vicoli adesso vuoti ma un tempo fecondi nella vita. Lo sguardo rammaricato si posa in ogni angolo, in ogni pietra. Ogni cosa anche una pietra, racconta una storia, quella nostra, dei nostri avi e chissà un giorno anche dei nostri figli. Fa impressione vedere il corpo di un gatto privo di vita riverso sul selciato in mezzo al corso; un’ulteriore testimonianza del dramma vissuto. Proseguo tra le rovine guardandomi attorno, gronde pendenti, tegole prospicienti si affacciano dai tetti pronte a precipitare alla minima sollecitazione. Salendo, sulla destra, osservo via “dell’impero” che ostenta un fabbricato rigonfio, prossimo a cadere, più avanti arco della scuola, una volta arco Ciccozzi, ingresso che porta in una delle zone più antiche del paese fino a giungere al palazzo seicentesco dell’omonima famiglia, anch’esso offeso dal terremoto. Giungo in mezzo all’abitato, “mezzoroi”, in cui insiste ancora una piccola scalinata posta tra due archi punto d’incontro e ripari degli uomini del paese. Luogo, in tempi non sospetti, pregno di vita, specialmente in estate, roboante, difficile approdo per le donne vezzeggiate ed apostrofate dagli anfitrioni del luogo. Vittima anch’io, ancora bambino, dello scherzoso fraseggiare degli adulti. Finalmente via Lucoli, una volta via del Foro, poi via del Forno. E’ lì che sono cresciuto, l’oasi in cui i miei genitori mi hanno protetto quando ero fanciullo, il limite di sicurezza che non avrei mai dovuto varcare senza la loro attenta sorveglianza. Ricordo allora bambino il frastuono mattutino dell’andirivieni dei carri guidati da vivaci contadini affaccendati nei lavori campestri. Ho toccato con mano il tramonto di un’epoca. Adesso i fili cadenti delle utenze ne intralciano il percorso e l’erba man mano si riappropria dei suoi antichi spazi. Eccomi finalmente arrivato: via Lucoli n.7, la mia casa. Costruita nel 1916 dopo il terremoto che colpì la marsica. All’esterno mostra pochi segni di cedimento, ma l’interno nasconde la dura realtà: impraticabile. Mura lesionate e crollo dei solai nei lati perimetrali del sottotetto. Nonostante pericolante ha salvato comunque la vita ai miei genitori; questo per adesso è già tanto. Proseguo tra gli edifici attigui assai rovinati per giungere al centro del paese, l’aia principale: l’ara. Sede di giochi, divertimento, di innocenti marachelle dei fanciulli, delle feste del borgo ed un tempo luogo adibito principalmente alla raccolta dei covoni di grano (le mucchie) e alla lavorazione delle messi; adesso è orfana; non più centro di vita. Il suo spazio, già male occupato da materiale di risulta, è ricovero di alti fili d’erba e di sporadiche presenze di animali selvatici che annusano lo stato di abbandono in cui versa. L’angolo, a ridosso del vicolo (via Lucoli), ora solitario ma precedentemente adibito a salotto per gli anziani che favellavano delle loro antiche rurali e belliche vicissitudini, la famosa classe del 1899 chiamata alle armi nella guerra del 15-18; per noi bambini stancanti storie. Ivi la gente faceva accese discussioni con un linguaggio diretto, riappropriandosi della loro lingua naturale, il dialetto, che meglio riesce ad esprimere lo stato d’animo degli indigeni. Neanche la pioggia autunnale era d’impedimento a queste rudimentali assemblee. Solo l’antico incamminamento poderale, l’Aicenna, è rimasto per adesso intatto, da cui, nel punto in cui inizia la campagna, dipartono strade improvvisate tracciate dalle ruote delle macchine che lambiscono, da una parte, la Pretacchiola e dall’altra prende a dirigersi giù a valle. Segno di saltuari passaggi, che documentano la voglia di riappropriarsi, per adesso solo con l’immaginazione, di questa contrada. Rientro verso il centro del paese e giungo a ridosso della Cona. La soffice illuminazione penetra in un interno sgangherato, impolverato in cui spicca frontalmente l’effige della Madonna della Neve che tiene in braccio Gesù bambino. Un’immagine illesa, candida, irradiata di luce propria in mezzo a tanta afflizione. La fonte antistante, nei cui pressi anticamente era posizionata una cubica pietra, anch’essa perno della vita sociale, mantiene alle sue spalle ancora fogli slabbrati di annunci della gente che defunse prima del sisma. Imbocco via dei Calzolai, giunto all’incrocio con via aia del Ceraso, faccio fatica a percorrere la strada tra il pietrame, quindi arrivo all’isolato forse più danneggiato del paese: il Ceraso.  Due anziani, una donna, una famiglia, un’affettuosa zia ferita dai calcinacci del soffitto che cadevano sulle scale mentre portava in salvo se stessa e la nipotina, sono uscite da cotanto tormento. Un miracolo che giù nel paese non si è ripetuto per salvare un padre e una giovane figlia colpiti a morte nella loro casa che avrebbe dovuto proteggerli; in via dei Giardini, un nome che adesso suona amaro. E’ ormai tardi, la notte sta chiamando a raccolta le sue ombre. Il sole ormai dileguato lascia il posto alle stelle che fievolmente illuminano un cielo di luna mancante.

 Ciccozzi Fulgenzio 

 

 

 



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