IL VOLO DELLE POJANE

- di Stefano Leone - Il livello del carburante è basso. E diminuisce a vista d’occhio. Ma è assolutamente impossibile atterrare su questo suolo così impervio. Non riesco a scorgere nemmeno un minuscolo brandello di terreno pianeggiante per eseguire un atterraggio in sicurezza. Ma la notte, per fortuna, è illuminata da un’argentea luna piena. Col mio piccolo velivolo continuo ad aggirarmi tra le alture che delimitano questa piccola valle. Le nuvole basse m’impediscono di trovare una via d’uscita, verso la pianura. Comincio ad aver paura. E’ stato facile raggiungere la gola, ma poi è calata improvvisamente la notte e le nubi sono scese ad occultare i passi. E così sono rimasto imprigionato in questa gabbia di monti e di nubi. Ho carburante per un’ora, ma se non sarò fuori dalla conca entro quaranta minuti, non riuscirò più a raggiungere la pista in pianura, e sarò costretto ad effettuare un atterraggio d’emergenza tra questi dirupi insidiosi e scoscesi. Sono un pilota esperto. Ho pilotato numerosi aeroplani, accumulando un’esperienza di diverse migliaia di ore di volo. Eppure sto rischiando di morire qui dentro. In questa meravigliosa trappola della natura, ai comandi del mio aereo ultraleggero. Si dice che nella mente di chi sta per morire si snodi un film con le immagini più significative della propria vita. Chissà se tra queste cime è giunta la mia ora, restando vittima del mio errore da allievo pilota! Dal momento in cui ho preso coscienza del pericolo di morte un’immagine persistente e nitida mi torna alla memoria: la quercia sulla collina. Era davvero bella la mia collinetta. Uscivo poco prima del crepuscolo per raggiungerla. Da lassù potevo dominare tutta la vallata. Sapevo che a quell’ora la quiete della campagna invitava al raccoglimento, mentre la campana della chiesetta rintoccava il vespro per rammentare a tutti che il giorno, sorto nel nome di Gesù, stava per finire, nel nome di Maria. Cercavo un posto sulla sommità dell’altura per accoccolarmi ai piedi della quercia. E col cuore in pace mi stupivo di quell’incanto. Ogni volta come la prima volta. Restavo a lungo in ascolto di quel silenzio profondo e solenne che, di lì a poco, un fruscio delicato e misterioso d’ali avrebbe magicamente interrotto. Erano le pojane dell’Aterno. I piccoli rapaci lasciavano i nidi e i loro cuccioli nei pressi del fiume, per raccogliersi sul cielo della collina. E volando in perfetta formazione, eseguivano mille volteggi d’alta acrobazia. Felici. Al riparo dalle doppiette fameliche dei cacciatori di campagna. Io li aspettavo in silenzio. In genere avvistavo un grosso esemplare in esplorazione. Poi, un poco alla volta, si formava il grande cuneo che ordinatamente disegnava delicate evoluzioni sul cielo dell’altura. Le pojane non amano essere osservate. Malgrado il loro aspetto fiero, sono timide e composte. Non desiderano esibire la loro abilità, perché volano per cacciare. E’ il loro modo di sopravvivere. Perciò me ne stavo rannicchiato sotto la quercia. E le osservavo. Per imparare a volare. Mio padre era un pilota da caccia. Fu abbattuto nel cielo delle prealpi carniche nel corso di un combattimento aereo. Nel pieno della guerra. Io non l’ho mai conosciuto. In certi pomeriggi d’estate, poco prima del temporale, le pojane si levavano in volo dal greto del fiume per raccogliersi sul mio colle. Giusto in tempo per salutare l’acquazzone scrosciante. Con le loro trame festanti. Da piccolo dicevo sempre che da grande avrei fatto il pilota. Come papà. E quando divenni grande volai. Fui un pilota militare con l’aquila d’oro sull’uniforme. Poi un pilota di soccorso. Mentre il comandante del corso me l’appuntava sul petto mio padre era lì con me. Presente. Portavo sempre una sua fotografia in tasca. La tenevo nella mia tuta di volo ogni volta che decollavo per una missione. Continuai a volare anche quando diventati più grande, come pilota di linea. Poi frequentai l’università e, in occasione della laurea, feci una grande scoperta. Imparai che le pojane avevano ispirato i pionieri dell’aria a costruire le prime macchine volanti della storia. Ma non devo aver imparato bene la lezione dei rapaci, né quella di mio padre: la sicurezza innanzitutto! Sono partito dalla pista in pianura troppo tardi nel pomeriggio. Poi mi sono infilato in questa gola perché mi sembrava simile a quella in cui mio padre fu abbattuto. Non mi sono accorto del calar della notte. Ero troppo assorto e commosso. E non mi sono reso conto che le nubi si erano abbassate sulle cime. Mio padre è morto da eroe. Io morirò da allocco. La benzina scarseggia. Sotto di me vedo sempre e solo montagne. Picchi alti come pinnacoli acuminati e creste affilate come lame taglienti. Nessun praticello verde per poggiare il fragile carrello del mio aeroplano. Dentro la pancia ho caldo. Sopra la schiena un freddo intenso. Percepisco sulla testa un peso opprimente. Mentre rivoli di gelido sudore mi solcano la fronte. Laggiù, nella mia terra d’Abruzzo, il campo di girasole è diventato giallo. I semi sono maturi. Il raccolto dovrà essere stivato, altrimenti andrà perduto. Basta sognare... col naso sempre in su, e con gli occhi perennemente rivolti al cielo. Papà è morto da eroe. Me lo dicevano tutti. Il campo di girasole è ormai bruno per la grande pioggia che ne ha umiliato le corolle. E le foglie scarne non ricoprono più il terreno né lo proteggono dal sole d’agosto. Ma il sole non c’è più. Quassù fa freddo. E la benzina è agli sgoccioli. Qualcosa mi riporta alla realtà. Mi sembra di scorgere delle ali che mi volano accanto. Ispeziono lo spazio circostante. E’ un volatile... A questa quota! Soltanto le pojane raggiungono le vette. Sì. E’ proprio una pojana. Non sono più solo adesso. Andrò a morire in compagnia di un falco. Mi sembra una tragica magia. Ma ne vedo delle altre... due... quattro... tante... Una formazione di pojane sta volando sul mio fianco sinistro. E punta decisamente verso una nube. La mia mente è attraversata da un conflitto atroce. Che fare!? Decido di affidarmi ai falchi, ed entro nelle nuvole al loro fianco. Nel buio di questa nube intensa mi sembra d’esser cieco. Procedo mantenendo quota e velocità. Le pojane hanno un altissimo senso dell’orientamento. Volano di notte per cacciare. Non possono fallire. Vanno verso la vita. Con esse posso salvare me stesso e salvaguardare l’incolumità di questo piccolo e prezioso aeroplanino. E finalmente la luna riappare tra le nuvole frastagliate. La visibilità si apre a dismisura come una festa. Vedo la salvezza! I piccoli falchi cominciano a scendere lentamente. E io con loro. Ormai docile alle loro indicazioni. Riduco lentamente i giri del motore e seguo la formazione. Mi chiedo se sto sognando. No. Le pojane vanno verso la pianura per procurarsi il cibo. Ecco la spiegazione. E il mio piccolo velivolo è stato inserito nella loro formazione. Il motore continua a girare, ma so bene che dovrò appoggiare le ruote sulla pista al primo tentativo d’atterraggio. Non avrò carburante per una riattaccata né per un secondo giro. La “Master Light” è ancora spenta. C’è ancora qualche goccia di benzina dentro l’ala. Sento nella pancia la serenità della planata. La fronte è fresca come l’aria della sera. Il suolo è illuminato dalla luna piena e generosa. Sono in avvicinamento finale per pista tresei, la visibilità è ampia, il vento è calmo, e sono perfettamente allineato con l’asse. Grazie papà. Riposa in pace. So che stai vegliando su di me. E io sto atterrando, con l’aiuto delle pojane che mi hai mandato per salvarmi.



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