La ricerca italiana, tra selezione e precarietà

 - di Roberto Petronzio - La ricerca è un settore nel quale la competizione e la selezione del merito giocano un ruolo essenziale, ma oggi è gravata da un precariato che potrebbe diventare, con scelte opportune, un patrimonio utilizzabile sia per la ricerca pubblica che per quella privata.

I “precari” sono ricercatori e tecnologi con contratti a tempo determinato che si rinnovano negli anni, spesso inseguendo prospettive di ripresa decisa delle assunzioni o da amnistie generali come si possono definire le stabilizzazioni.

Queste condizioni incoraggiano fortemente a cercare opportunità all’estero favorendo l’esodo culturale o creano sacche di personale sotto occupato o disoccupato generate dallo scarso assorbimento complessivo. Si genera così un onere sociale difficile da gestire data la fascia di età prossima ai quarant’anni, alla quale il “precario” abbandona i suoi sogni di ricerca.

Eppure queste risorse umane costituiscono un investimento che il paese ha protratto negli anni: una semplice stima degli stipendi e strutture universitarie impegnate - certamente non ripagate dalle tasse durante il corso universitario - e in misura maggiore degli strumenti di ricerca messi a disposizione per gli indirizzi più scientifici durante il dottorato, si aggira intorno ai tre-quattrocentomila euro per un “dottore” alla soglia dei trent’anni.

Questa somma sale ulteriormente durante gli anni di post doc o di contratti a tempo determinato presso istituzioni di ricerca per superare facilmente il mezzo milione di euro a testa.

La ricerca d’altra parte per scegliere i suoi attori migliori ha bisogno di selezione e quindi genera fisiologicamente una forma di precarietà.

Due sono le azioni che si possono intraprendere per cercare una soluzione del problema. La prima consiste in una programmazione delle necessità occupazionali nei vari settori di ricerca e nella creazione di un percorso di apprendistato che fornisca una risposta non ambigua su un inserimento definitivo, in tempo utile per permettere ai non selezionati di optare per altre carriere in cui venga valorizzato il proprio percorso.

La seconda consiste nel creare un “mercato” in ambito privato che riesca a valorizzare queste competenze, in particolare nei settori della ricerca applicata industriale. Il miglior trasferimento tecnologico che si possa attivare è infatti quello umano in quanto trasferisce potenzialità e non solamente risultati.

Per stimolare il processo è necessario che anche le carriere “applicate” possano essere valutate alla stregua di quelle mosse unicamente dalla curiosità scientifica, favorendo casi di osmosi nelle due direzioni e attivando incentivi pubblici per l’assorbimento di giovani non destinati a continuare nella ricerca con fondi pubblici ma non solo.

Un impegno forte in questa direzione potrebbe stimolare gli investimenti privati in ricerca. Che è la vera nota dolente, rispetto ai paesi più agguerriti, nel bilancio dei fondi complessivi investiti in Italia in ricerca rispetto al PIL, fornendo al contempo un motore per l’innovazione al mondo dell’impresa.

Roberto Petronzio
Professore ordinario di Fisica Teorica presso l’Università di Roma Tor Vergata dal 1987, ha diretto l'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare dal 2004 al 2011. E' autore di numerosi lavori e pubblicazioni su riviste scientifiche specializzate.


 



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